Per affrontare nella maniera più razionale e accorta il tema della riapertura delle librerie è possibile, intanto, stracciare senza rimorso tutta la retorica fatta di melensaggini sulla falsa riga del “libro pane dell’anima” e via dicendo (l’assunto è condivisibile, ma chi vuole potrà ribattere affermando che, se ci fermiamo alla sola azione del leggere, ch’intende farlo ha già tante possibilità), e compiuta quest’operazione si potrebbe partire dalle dichiarazioni di Paolo Ambrosini, presidente dell’Associazione Librai Italiani (Ali), nelle ultime ore intervenuto a più riprese sui media per esplicitare la posizione di buona parte della categoria rappresentata dall’Ali, e che considera positiva la riapertura. In un’intervista a Rai News 24, ha fatto sapere che l’associazione è già al lavoro “per consentire a tutte le nostre aziende di aprire nel pieno rispetto delle normative sanitarie a tutela dei collaboratori e dei clienti”, che si tratterà di una “riapertura di servizio, così come avviene per farmacisti, edicolanti, tabaccai, operatori della distribuzione alimentare, che non potrà minimamente lenire tutti i danni che la chiusura forzata ha portato alla nostra rete”, e che ammontano a “25 milioni di euro i mancati guadagni”, e per tal ragione la Ali chiederà al governo l’istituzione di un Fondo speciale con contributi a fondo perduto.
Sono dunque almeno tre gli aspetti da prendere in esame: il rispetto delle prescrizioni medico-sanitarie, l’essenzialità del bene e il tema economico. Per introdurre il primo aspetto occorre avanzare una premessa: gli italiani sono davvero molto più disciplinati di quanto si creda. E non si tratta solo d’una percezione dettata dalla più semplice delle prove empiriche: recarsi in un qualsiasi supermercato e constatare come tutta la clientela s’attenga con scrupolo alle prescrizioni, rispettando la distanza interpersonale d’un metro, maneggiando frutta e verdura coi guanti monouso (che comunque era buona norma anche prima delle misure restrittive), sostando solo il tempo necessario e via dicendo. È semmai una realtà che emerge dai dati diffusi dal Viminale: dall’11 marzo al 4 aprile, le forze di polizia hanno eseguito quasi sette milioni di controlli (4.859.687 persone e 2.127.419 esercizi commerciali), elevando 176.767 contestazioni, tra denunce penali e sanzioni amministrative. Significa che soltanto il 2,5% dei controllati non aveva motivo di uscire di casa: una cifra che di per sé sarebbe sufficiente a smontare l’ipocrita narrazione (infinitamente più dannosa della retorica sull’utilità del libro) che attribuisce il diffondersi del contagio ai comportamenti scorretti della popolazione, aprendo a un’irresponsabile colpevolizzazione dei cittadini che contribuisce ad alimentare quel diffuso clima di ansia e diffidenza che probabilmente gran parte di noi ha avuto modo di saggiare in prima persona e a disincentivare ragionamenti ponderati su come davvero si stia diffondendo il contagio. Questo dato può essere un punto di partenza per escludere che, da martedì, si verificherà un assalto incontrollato alle librerie, che tolte alcune eccezioni (penso ai punti vendita presso le stazioni delle grandi città, o ad alcune librerie di riferimento delle grandi catene), sono già di per sé luoghi poco frequentati e che probabilmente avranno poche difficoltà a far rispettare le prescrizioni medico-sanitarie. Senza contare che la comunità dei frequentatori delle librerie (perché non ci sono solo i lettori forti: pensiamo anche ai lettori saltuarî, a chi in libreria si reca per acquistare musica, alle mamme e ai papà che acquistano un libro ai proprî bambini, a chi acquista un libro o un gadget per fare un regalo, ai punti vendita che offrono anche servizio di cartoleria) non ha comunque grandi dimensioni, ed è molto disciplinata.
Una libreria. Ph. Credit Associazione Librai Italiani |
Su questo punto, tuttavia, si potrebbe obiettare con diversi argomenti. Me ne sovvengono almeno due: il primo è la distinzione tra le librerie dei grandi gruppi e le piccole librerie indipendenti. Le prime tipicamente hanno spazî molto più grandi e avranno meno difficoltà, ma lo stesso non si può dire delle seconde, che trovano accoglienza in locali angusti dove potrebbe essere davvero molto difficile anche solo far rispettare la distanza di sicurezza. In altri termini, nelle librerie più piccole forse non potranno entrare più di due o tre persone alla volta, e considerando che tanti lettori passano tipicamente molto tempo prima di scegliere il libro da acquistare (chi è abituato a leggere saprà di certo che è difficile indugiare in una libreria per meno di venti minuti: a volte s’arriva a trascorrerci un’ora quasi senz’accorgersene), le code all’ingresso potrebbero diventare un problema. Sarà allora di grande aiuto l’online: i librai indipendenti forse dovranno sfruttare i social (come già in molti stanno facendo) per creare comunità di lettori piccole ma forti e per trasferire in parte sulla rete le competenze, la passione e anche quegli aspetti d’amichevole relazione che rendono insostituibile il mestiere del libraio. C’è poi da immaginare una compresenza dell’apertura in sede e il servizio di consegna a domicilio che molti piccoli librai stanno sperimentando con certo successo: non ripagherà delle perdite economiche, ma è comunque un punto di partenza per recuperare terreno. Il secondo argomento riguarda invece lo spostamento delle persone. Molti amanti della parossistica caccia al capro espiatorio che, fino a pochi giorni fa, vedevano nel corridore solitario il principale nemico del popolo e lo accusavano con pretesti ridicoli, adesso s’apprestano ad aggredire i clienti delle librerie al grido di “ora la gente pur di uscire comincerà a leggere”. Magari, dico io: se a qualcuno che non ha mai letto o a qualcuno che non ha mai corso viene in mente di render più sopportabile questa clausura forzata andando a comprare un libro o facendo una salutare corsa nella strada di casa, sarà tanto di guadagnato. Il vero argomento, semmai, è se i controlli delle forze dell’ordine ammetteranno lo spostamento gratia librorum, dato che molti non hanno la libreria dietro casa e devono muoversi di qualche chilometro per raggiungerla.
Per questo, dunque, la riapertura andava fatta con più criterio. Siamo però ancora in tempo: sappiamo, cioè, che da martedì le librerie riapriranno. Ma non sappiamo come riapriranno: non ci è stato detto a quali prescrizioni dovranno attenersi (anche se verosimilmente saranno le stesse dei supermercati, dei negozî di tabaccai, delle edicole), non sappiamo come dovranno comportarsi i lettori (per esempio, come dovranno toccare e sfogliare i libri: serviranno guanti monouso come quelli di frutta e verdura? Oppure, più intelligentemente e più ecologicamente, le librerie saranno dotate di dispenser di gel igienizzante, come già accade in tanti negozî? E nel caso, a chi spetterà l’onere di dotare le librerie dei presidî adatti?). E allora forse sarà il caso che, di qui al 14 di aprile, qualcuno produca delle linee guida per indicare i comportamenti che dovranno essere necessariamente seguiti per garantire la serenità dei lavoratori e dei clienti. Così come sarebbe stato forse più sensato, almeno per il momento, evitare una riapertura in tutta Italia, ma procedere dapprima con le aree dove il contagio di Covid-19 è meno diffuso: un conto è aprire una libreria in zone dove non ci sono casi, altro conto è invece aprirla laddove la situazione è ancora critica. Sarebbe stato dunque forse più utile andar per gradi, anche per abituare la popolazione in maniera graduale a uscir di casa (perché prima o poi dovremo farlo, ma per quella data forse sarà meglio farsi trovare pronti, fare dei test per determinate zone ed evitare gli errori della chiusura).
C’è poi il tema della necessarietà del bene. Qui il problema è soprattutto di ordine culturale: il libro, come sottolineato da Paolo Ambrosini, è stato in sostanza equiparato agli alimenti, ai farmaci, ai giornali. E penso che qui si possa concordare con il ministro dei beni culturali Dario Franceschini, che ha sottolineato come non si tratti di un “gesto simbolico”, ma del “riconoscimento che anche il libro è un bene essenziale”. Ed è più che giusto far passare il concetto che la cultura abbia la stessa importanza del cibo: la riapertura delle librerie è un provvedimento davvero eloquente e che afferma questo concetto con forza, forse come mai lo si era fatto prima. Si potrebbe però estendere il ragionamento: se il libro è un bene necessario, sarebbe giusto anche riaprire le biblioteche (come ritiene chi scrive), fosse anche solo per il prestito e tenendo quindi chiuse, almeno per il momento, le sale lettura. Ma non è tanto il libro a essere un bene necessario: è la cultura in quanto strumento di crescita, di condivisione e di sviluppo di pensiero critico a essere un bene necessario, e lo stesso ragionamento si potrebbe pertanto applicare a musei, mostre, concerti, cinema, teatri. Occorre però anche fare i conti con la realtà: al momento, forse non ci sono le condizioni di sicurezza necessarie per riaprire i luoghi in cui le persone si fermano in gruppi e a lungo. Le librerie possono essere però il punto d’inizio per cominciare a riflettere su come far ripartire il settore. Ha ragione dunque il ministro: non è un gesto simbolico, è semplicemente un inizio per riabituare gli italiani al contatto diretto con la cultura. E le librerie erano le candidate più adatte per provarci. Ci auguriamo che a breve si pongano le condizioni per riaprire anche il resto: pensiamo a tantissimi musei, che sono frequentati da poche decine di persone al giorno (e spesso anche meno), e che non avrebbero difficoltà a far rispettare tutte le misure di sicurezza del caso.
Infine, il tema economico. Molti, come detto sopra, temono che la riapertura incoraggerà tanti a violare le misure di contenimento e a riversarsi sulle strade per andare a caccia di libri. Realisticamente non sarà così, purtroppo: il timore di contrarre la malattia da coronavirus è ancora molto forte (basti leggere i commenti sui social), così come comprensibile è la tema di ricevere sanzioni perché si è usciti ad acquistare un volume. E pertanto è realistico credere che il flusso di clienti non sarà certo quello di una situazione normale, col risultato che forse, ancora, a perderci saranno i librai più piccoli, che già lavorano con poco margine e molte spese, e una drastica riduzione della clientela a libreria aperta potrebbe sommare problemi su problemi (anche se non c’è da dimenticare che comunque l’ultima parola sull’apertura spetta ai librai, che potranno decidere in piena autonomia se alzare le serrande o continuare a tenerle chiuse nel caso in cui la riapertura non sarà economicamente conveniente). Si dovranno allora immaginare delle misure in grado di accompagnare la riapertura a scartamento ridotto verso la normalità. Misure che già le associazioni di categoria stanno chiedendo e che però prima o poi andranno pagate: forse è quindi meglio cominciare a ragionare in maniera graduale e progressiva su come far ripartire il settore (e l’economia in senso lato) con tutti gli aiuti del caso, piuttosto che continuare a posticipare un problema che comunque, prima o poi, saremo costretti a porci, dato che è impensabile e insostenibile pensare di tener tutto chiuso fino al debellamento del morbo. Dovremo dunque immaginare una fase in cui ci saranno, dal punto di vista medico, delle prescrizioni piuttosto rigide cui dovremo attenerci, e dal punto di vista economico una sorta di collaborazione tra Stato e privati per fare in modo che la “convalescenza” dalla chiusura forzata sia la più indolore possibile, nell’ottica di una ripresa cui non s’arriverà all’improvviso, ma con provvedimenti crescenti che tengano conto, da un lato, delle esigenze dei settori colpiti, e dall’altro dei cittadini che probabilmente un domani dovranno far fronte ai costi della crisi. Mai come ora abbiamo bisogno di ragionevolezza.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).