Per promuovere i musei piccoli, la strada non è portarci i “capolavori” dei musei grandi


In un articolo pubblicato il 1° maggio sul Corriere fiorentino, Pierluigi Panza propone di muovere i capolavori dai musei grandi ai musei piccoli per promuovere questi ultimi. Ma non è questa la strada da percorrere.

Far circolare i capolavori dei “musei maggiori” prestandoli ai “musei minori” e avviare iniziative di “arte contemporanea di qualità” nelle sedi più piccole e decentrate. È quanto ha proposto, lo scorso 1° maggio, Pierluigi Panza sulle colonne del Corriere fiorentino, per far ripartire i musei più piccoli quando potremo tornare a percorrerne le sale: la tesi è che, a causa delle prescrizioni medico-sanitarie che obbligheranno il “distanziamento sociale” (io preferisco chiamarlo distanziamento fisico) con conseguente contingentamento delle visite nei musei più grandi, i turisti saranno costretti a non visitarli, e si porrà dunque il problema di come “dirottarli” negl’istituti meno conosciuti per non perderli. Se la proposta di avviare programmi di arte contemporanea di qualità appare sensata (ma non così semplice, perché l’artista contemporaneo non è che un ingranaggio d’una filiera che include curatori, critici, galleristi, eventi e quant’altro: spesso, invece, nelle località periferiche s’assiste a una continua improvvisazione, e si spera che pertanto il dopo-virus porti anche più professionalità e scelte più intelligenti), sullo spostamento dei capolavori dei grandi musei occorre, quanto meno, farsi delle domande per capire se può funzionare, e per comprendere se il nome dell’artista è di per sé sufficiente a far muovere schiere di turisti felici.

Solitamente accade il contrario: vale a dire che sono state più frequenti le occasioni in cui un’opera ha suscitato interesse se spostata da un centro minore verso un importante polo attrattivo, e non viceversa. Un esempio che Panza, da lombardo, avrà ben noto, è quello che ci viene offerto dalle ostensioni natalizie del Comune di Milano, quando ogni anno un’opera lascia un museo di provincia per arrivare a Palazzo Marino. I tondi dell’Annunciazione di Filippino Lippi, ad esempio, suscitano poco effetto se li si vede nella loro sede, il prezioso Museo Civico di San Gimignano, mentre sortiscono cori di commosse ovazioni se esibiti con tutte le liturgie del caso (il tripudio di festanti articoli che, sulle testate locali e nazionali, anticipano l’evento; il marketing che insiste sull’unicità della mostra, che diventa inesorabilmente “un appuntamento da non perdere”; la retorica della possibilità di vedere gratuitamente un capolavoro d’un artista antico e che intesse gl’immancabili fraseggi impostati sul cliché del “regalo natalizio” offerto alla cittadinanza; le “lunghe code all’ingresso” sulle quali le cronache locali insistono, i gruppi di sciure che convergono frementi sul luogo del pellegrinaggio, gli elenchi puntati del “cosa fare nel weekend in città” dove all’esposizione della reliquia è ovviamente serbata la sua casella).

È quel meccanismo di cui parlava il compianto Arbasino in un’intervista del 1985 (peraltro facilmente accessibile perché ripubblicata il mese scorso dal Giornale dell’Arte), e che non funziona in virtù del nome del capolavoro, ma in virtù di quello che si costruisce attorno al capolavoro: così, all’epoca, l’aver spostato la Pala di Castelfranco del Giorgione dalla sua sede, il Duomo di Castelfranco Veneto, a un museo poco distante, con tutto l’apparato pubblicitario del caso, aveva creato il bisogno indotto d’andare a vedere un’opera alla quale in pochi, fino a quel momento, avevano fatto caso. “Averla spostata aveva provocato le code”, diceva Arbasino, “prima non ci andava nessuno e adesso”, cioè a mostra finita, “di nuovo non ci va nessuno”.

Il capolavoro da solo, in poche parole, non è sufficiente. Per ragioni di vicinanza geografica, sono solito frequentare il Museo Civico “Amedeo Lia” della Spezia: una collezione che trabocca d’eccezionali capolavori, anche di nomi altisonanti. Percorrendone le sale, il visitatore vi trova una tavola di Pietro Lorenzetti, una straordinaria raccolta di fondi oro, rarità del Rinascimento ligure, un ritratto di Tiziano, le due tavolette con le storie di Adone di Sebastiano del Piombo, il celeberrimo Autoritratto del Pontormo, un Compianto del Tintoretto, un ricco nucleo di nature morte secentesche, e poi le vedute del Canaletto, di Francesco Guardi, di Bernardo Bellotto. Lo chiamano “il Louvre della Liguria” per l’importanza della sua collezione: un Louvre che, malgrado tutto ciò, secondo gli ultimi dati che ho a disposizione e che si riferiscono al 2017, registra poco più di ventimila visitatori l’anno.

Una sala del Museo Civico Lia, La Spezia
Una sala del Museo Civico Lia, La Spezia


Sala del Museo Nazionale di San Matteo a Pisa
Sala del Museo Nazionale di San Matteo a Pisa


Pinacoteca di Palazzo Mansi, Lucca
Sala della Pinacoteca di Palazzo Mansi, Lucca

E lo stesso si potrebbe dire d’un’innumerevole quantità d’altri musei, stracolmi di opere d’artisti dai nomi noti a tutti. La Galleria Estense di Modena: il meglio della scuola emiliana del Rinascimento, dipinti del Correggio, del Veronese, del Tintoretto, l’altarolo di El Greco (e c’è anche un dipinto dubitativamente attribuito a Raffaello, se proprio si volesse giocare sul marketing più bieco). Ventottomila visitatori nel 2018. Il Museo Nazionale di San Matteo a Pisa: una collezione di croci dipinte che molti istituti gl’invidiano, un busto-reliquario di Donatello, una Madonna del Beato Angelico, un’altra di Gentile da Fabriano, un San Paolo di Masaccio ch’era parte dello smembrato Polittico di Pisa. Dodicimila visitatori. La Pinacoteca di Palazzo Mansi a Lucca: un edificio che da sé varrebbe la visita, e poi opere del Pontormo, del Bronzino, del Veronese, del Tintoretto, di Salvator Rosa. Settemila visitatori. E questo solo per limitare la conta ai musei statali, ma se si volesse indagare sui musei civici, il quadro sarebbe forse ancor più tragico (il primo esempio che mi sovviene, oltre al già citato “Lia” della Spezia, è il Museo Civico di Viterbo, che custodisce un capolavoro riprodotto su tutti i manuali scolastici, ovvero la Pietà di Sebastiano del Piombo: poco più di quattromila visitatori l’anno, cioè una decina al giorno). Se vogliamo allargare lo spettro includendo i musei d’archeologia, si potrebbe parlare del Museo Archeologico Nazionale di Luni, che consente la visita agli scavi di una delle più importanti città portuali della romanità: tredicimila visitatori.

Il problema non è dunque la presenza dei capolavori. Quelli già abbondano in molti dei nostri musei, e non serve pertanto rincorrere le opere di Uffizi, Brera, Palazzo Pitti o simili e portarle in tour nei musei piccoli per ovviare agli scarsi numeri di visitatori. E questo anche se volessimo stracciare gli scritti di Haskell e rinunciare alla base scientifica dello spostamento, che ovviamente non sussiste se il nostro fine è quello di acchiappare turisti con una Madonna di Raffaello: è molto più economico e interessante far conoscere quello che già i musei hanno e che spesso è di qualità superiore anche rispetto a un’opera di secondo piano di un grande nome. Una delle chiavi è proprio la comunicazione: se a uno spezzino facciamo sapere (e magari in modo insistente) che nella sua città c’è un’opera del Canaletto, o se a un pisano diciamo che nella sua città può trovare un bronzo di Donatello, allora forse si potrebbe ottenere qualche numero in più. Parlo dei cittadini perché ritengo che il museo debba indirizzarsi anzitutto a loro, ma lo stesso ragionamento potrebbe facilmente essere applicato anche se, come Panza, si pensa ai turisti: un ragioniere di Kansas City che si reca a Lucca per vedere le mura e le torri, non andrà mai a Palazzo Mansi se non sa cosa può trovarci. L’impiegato comunale di Oslo che programma un viaggio in Emilia perché per anni lo abbiamo martellato col frusto trinomio “prosciutto, parmigiano e Ferrari”, magari potrà prendere in considerazione l’idea di visitare la Galleria Nazionale di Parma se gli si comunica che dentro c’è la Scapigliata di Leonardo da Vinci. So che molti inorridiranno all’idea di mettere in parallelo un genio del Rinascimento con un insaccato e, soprattutto, all’idea che per far riaccendere il turismo ci sia da puntare sui feticci, ma da un lato c’è da considerare che per un tempo più o meno prolungato i musei dovranno contare su un numero molto più basso di visitatori (e ci s’attende dunque che la pubblicità si faccia più aggressiva, perché tanti paesi avranno lo stesso problema), e dall’altro c’è da sottolineare che una campagna di comunicazione centrata sui capolavori dei musei meno visitati è sicuramente più utile e più innocua di un marasma di opere che si spostano da tutte le parti. Una campagna che, intendiamoci, s’intenderà rivolta soprattutto al turismo interno. Perché c’è poco da fare: al pensionato di Amburgo potremmo raccontare per ore quali meraviglie troverà nel museo diocesano del piccolo borgo della Lunigiana storica, ma lui vorrà comunque vedere il Colosseo, gli Uffizi, piazza San Marco. E non mi sento di dargli torto: chi è che, mettendo piede per la prima volta a Parigi, vorrà vedere il Musée Maillol prima del Louvre o del Musée d’Orsay?

I musei piccoli soffrono poi di problemi strutturali, che di certo non si risolvono facendo piombare una Madonna di Raffaello in un istituto di provincia. Tanti soffrono d’arretratezza: hanno siti che non vengono aggiornati, non hanno le collezioni online, non fanno pubblicità. Molti hanno invece allestimenti vecchi e confusi, che di certo sono tutt’altro che invitanti e spesso causano danni d’immagine. Altri ancora patiscono pesanti carenze di personale: un pistoiese può aver tutta la buona volontà per programmare una gita domenicale a Palazzo Mansi, ma se poi lo trova chiuso perché non ci sono custodi, non ci si può lamentare se finirà a mangiare un gelato in piazza. Il capolavoro che dagli Uffizi arriva nel museo di provincia allora potrà essere magari un palliativo momentaneo (ma solo nel caso in cui, horresco referens, si conferisca l’aura dell’evento allo spostamento, altrimenti servirà a poco: e allora tanto vale puntare su ciò ch’è già presente in sede), ma forse non serve neppure Arbasino per capire che, appena il capolavoro tornerà nella sua sede, i musei piccoli avranno gli stessi problemi di prima (e anche gli stessi numeri di visitatori: una proposta del genere agisce su di un tempo limitato e non comporta modifiche a lungo termine) e continueranno a vivere nel disinteresse generale. Non si possono risolvere nell’immediato, certo: però, prima di spostare opere, forse non è meglio avviare campagne per far conoscere cosa abbiamo in provincia?

Panza non pensa che “sia sufficiente un richiamo all’adeguata promozione per far diventare questi musei ‘minori che minori non sono’ un’alternativa di qualità”: io sono convinto del contrario, anche perché i musei piccoli non hanno mai goduto di significative campagne promozionali a loro favore. Il primo tentativo in questo senso è partito a fine dicembre con una nuova campagna ministeriale, i cui risultati non si possono però valutare perché l’emergenza è arrivata appena due mesi dopo il lancio. E allora ci sarà da insistere su questo punto: primo, perché i turisti internazionali che hanno poco tempo per stare in Italia neppure ci pensano, a considerare un’alternativa. Semmai (e ammesso che il turismo internazionale ripartirà a breve) si organizzeranno per tempo, prenotando mesi prima (lo fanno da anni per visitare il Cenacolo di Leonardo, accessibile solo se si riserva il proprio posto con larghissimo anticipo, e sapranno farlo benissimo se lo stesso dovesse accadere anche con Uffizi, Pompei o Palazzo Ducale a Venezia, causa contingentamento delle visite). Secondo, perché il turismo di prossimità ha necessità di conoscere ciò che non conosce. E far sapere cosa si trova nei musei piccoli sicuramente è meno costoso, meno rischioso, più scientifico e più sostenibile che allestire mostre di singoli capolavori di grandi musei spediti in giro per l’Italia.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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