Quando ci si trova di fronte all’evenienza di dover sostituire con forze fresche, per qualsivoglia motivo, un lavoratore che ha sempre svolto egregiamente le proprie mansioni, ci sono due opzioni. Quella largamente più praticata consiste nel ringraziare sentitamente chi viene sostituito augurandogli buona fortuna per il prosieguo della sua carriera, e auspicandosi che i nuovi arrivati facciano del loro meglio. La seconda via consiste nell’inevitabile mancanza di buon gusto, perché ogni uscita diversa da quella descritta nel primo caso non può che tramutarsi in una caduta di stile. Nel salutare i direttori dei musei che avevano, fino a pochi giorni fa, prestato servizio nei venti nuovi super-musei statali e nell’accogliere i nuovi arrivati, il governo ha scelto la seconda opzione.
A cominciare dal tweet con cui il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini annunciava le nomine: “un salto di qualità per i musei italiani con grandi professionalità dall’Italia e dal mondo”. Come se fino a prima dell’altro giorno i musei fossero stati in mano a dilettanti allo sbaraglio, quando invece erano diretti da studiosi e professionisti seri, tra i migliori al mondo, con anni d’esperienza alle spalle. Parlare di "salto di qualità" rispetto alle gestioni precedenti, è una grossa forma d’irriconoscenza nei confronti di chi, per anni, ha tenuto saldo il timone dei principali musei d’Italia pur tra mille difficoltà.
Nel nostro ambiente si è soliti dire che la forma è sostanza. E lo stile renzian-giovanilistico delle comunicazioni del governo, spesso diramate tramite tweet, probabilmente cela, oltre che pesanti lacune in fatto di tatto e delicatezza, anche una grossa mancanza di contenuti. Perché sarebbe riduttivo pensare che le interviste, i comunicati e le incursioni sui social di chi parla di “salto di qualità”, “meritocrazia” e “rivoluzione” (sottintendendo, con quest’ultimo termine, il fatto che si tratti di rivoluzione senza dubbio positiva) siano solo questione d’irriconoscenza e d’ineleganza. Il concorso appena conclusosi ha fatto sì che i direttori dei musei statali venissero nominati per la prima volta nella storia da un ministro, perché prima erano nominati dalle rispettive soprintendenze. Il governo, tuttavia, non ha fatto i conti con un particolare di non poca importanza: i direttori sono sì nuovi, ma le persone che questi ultimi dirigeranno saranno le stesse di prima, ovvero i dipendenti delle soprintendenze.
La Galleria Borghese di Roma |
È un po’ come se il tweet, tradotto, suonasse così: “caro personale tecnico delle soprintendenze, abbiamo nominato dei direttori che rappresentano un salto di qualità rispetto a quelli che voi ritenevate fossero i migliori... perché i migliori sono quelli che abbiamo scelto noi”. Si tratta, insomma, di “una sorta di delegittimazione del funzionariato tecnico-scientifico del Mibact”, come ha giustamente sottolineato Antonio Paolucci. Ed è chiaro che un ministro che parla di “salto di qualità” riferendosi a persone che hanno sostituito direttori che erano espressione delle soprintendenze, mortifica e demotiva i suoi lavoratori. Non può esserci alcun entusiasmo per le novità se le novità non vengono supportate da adeguate motivazioni. Quando si mettono in atto dei cambiamenti, si dovrebbe coinvolgere anche la base, perché la base costituisce il motore di qualsiasi tipo di attività. Di sicuro, la nomina dei nuovi direttori ha avuto l’effetto di creare scontento tra il personale delle soprintendenze che, già pesantemente provato dalla riforma del MiBACT che ha rivoluzionato l’assetto del Ministero, in queste ultime settimane ha dovuto subire i fuochi incrociati della riforma della pubblica amministrazione e delle nomine dei direttori. Questo cambio alla direzione dei musei statali innescherà, forse (e i dubbi sono non solo legittimi, ma anche ovvi), un cambiamento, e non è detto che sia un cambiamento in meglio. Di sicuro, tale cambiamento dovrà affrontare il problema di dover contare sulle forze di un personale stanco, con un’alta età media (dato che le nuove assunzioni sono praticamente bloccate) e fortemente demotivato. Ma rimanderemo a un nuovo approfondimento la questione sui principali problemi che i nuovi direttori si troveranno ad affrontare.
Accanto a tutto ciò deve poi sommarsi un’ulteriore mancanza: ancora non sappiamo in che modo sono stati giudicati i candidati arrivati agli orali, e su quali criteri si è basata la scelta del ministro, a cui spettava l’ultima parola sui nomi. Manca ancora, insomma, quella trasparenza di base che dovrebbe invece essere fondamentale in un qualunque concorso pubblico, specie se i vincitori andranno a occuparsi dei principali musei italiani, perché ci farebbe molto piacere conoscere quali pregi hanno fatto sì che taluni la spuntassero su altri. Di certo, non crediamo che un solo quarto d’ora di colloquio sia stato sufficiente per una scelta ponderata: un neolaureato che si candida per un tirocinio anche nell’azienda più scalcinata, solitamente, affronta colloqui di ben diversa durata. Ma ci piacerebbe anche sapere per quali ragioni alcuni candidati, spesso in possesso di esperienza e titoli maggiori rispetto ad altri concorrenti, sono stati scartati.
In sostanza, da parte del ministero manca chiarezza, mancano indirizzi, mancano le risposte a tutte quelle domande che si sono levate a gran voce nelle ore successive all’annuncio dei nomi dei direttori. E questi ultimi si trovano, peraltro, nella posizione di dover operare, a meno di risvolti clamorosi, con gli stessi strumenti, le stesse persone, probabilmente anche con le stesse procedure di chi li ha preceduti. Anzi, forse anche con qualche difficoltà maggiore: diversi musei sono stati resi autonomi ma, appunto, da parte del ministero mancano degli indirizzi per rendere tale autonomia efficace. Tuttavia, sotto questo aspetto, è forse troppo presto per esprimersi, benché sia ancora legittimo avanzare perplessità.
Certo è che non vogliamo e neppure possiamo credere al fatto che le nomine rispondano a esigenze più prettamente commerciali o politiche che culturali. E senza una chiara visione del futuro e un’altrettanto chiara visione dei problemi che hanno finora afflitto il sistema dei beni culturali (per intenderci: il fatto che in un museo manchi un ristorante, non è attualmente un problema prioritario), la nomina dei direttori nuovi, al momento, sembra essere nient’altro che un grande tappeto intessuto appositamente per coprire un vistoso strato di polvere. Forse, prima di mettere un tappeto in casa, sarebbe stato più opportuno rimuovere la polvere.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).