Secondo un pregiudizio diffuso e radicato, i musei sono soprattutto macchine per turisti. Ed è probabilmente sulla base di tale pregiudizio che sono stati in passato immaginati modelli di gestione e di governance che hanno legato in maniera troppo stretta i flussi economici ai flussi turistici: questi modelli, in periodo di pandemia, stanno dimostrando tutte le loro falle, le loro storture, le loro contraddizioni, e si stanno rivelando una condanna per gli stessi musei che li hanno messi in pratica. Il caso dei Musei Civici di Venezia è particolarmente significativo: scorporati dal Comune nel 2008, affidati alla gestione d’una Fondazione con un cda di nomina pubblica ma che è a tutti gli effetti un soggetto di diritto privato e dunque dotato d’un bilancio proprio, hanno prosperato grazie ai milioni di turisti che negli anni hanno affollato le sale di Palazzo Ducale, ma si sono trovati con grosse perdite all’indomani della chiusura causa Covid (e del conseguente azzeramento del turismo), al punto che adesso si sta parlando d’una chiusura fino ad aprile 2021, a prescindere da ciò che deciderà il governo dopo il 15 gennaio e a prescindere dai ristori che i musei veneziani hanno ricevuto o riceveranno dallo Stato.
E in questo quadro appaiono tanto più gravi le parole del sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, che ha affermato che “non possiamo buttare energie e soldi al vento” per riaprire i musei civici in periodo d’assenza di turisti: per la stabilità economica della Fondazione, meglio lasciare i lavoratori in cassa integrazione e aspettare che torni il turista. E pazienza se quei musei sono, anzitutto, “musei civici”, e cioè, letteralmente, musei dei cives, musei della città, musei dei cittadini: i veneziani, secondo il loro sindaco, probabilmente possono anche far senza gl’istituti che conservano la loro memoria e che dovrebbero, almeno sulla carta, rivestire il ruolo di laboratori per il loro futuro. L’importante è che arrivino i turisti. Difficile e, francamente, anche imbarazzante commentare una scelta così umiliante per la cultura: occorrerebbe spiegare ai veneziani che i loro musei, negli ultimi anni, sono stati gestiti come attrazioni di un luna park, che funzionano solo se ci sono dei turisti che pagano per entrare. Occorrerebbe spiegare ai veneziani che, se mancano i turisti, forse manca anche l’interesse per i musei di Venezia, e dunque per un presidio fondamentale per la comunità. E occorrerebbe ammettere che, dal punto di vista di chi in questi anni s’è speso per sottolineare l’importanza della cultura, le parole di Brugnaro sanciscono una pesante sconfitta.
Probabilmente diversi altri musei, quelli più legati alle scelte dei turisti, si trovano in una situazione simile a quella dei Musei Civici di Venezia. Dal 1993, anno della legge Ronchey sui cosiddetti servizi aggiuntivi dei musei, molti istituti hanno conosciuto forme di semiprivatizzazione più o meno ampie. È uno dei motivi che, s’argomentava su queste pagine, forse potrebbero essere alla base della chiusura a oltranza dei musei: i concessionari privati dei grandi istituti “turistici” avrebbero molto da perdere riaprendo a breve (il caso dei musei di Venezia lo dimostra), e in certi casi potrebbe dunque esser più conveniente tenere i dipendenti in cassa integrazione (o far terminare i contratti dei lavoratori meno tutelati) che aprire e pagare salari nella certezza di non avere entrate adeguate dalla bigliettazione. Possibile, dunque, che al momento tutto sia chiuso per non dover toccare il delicato tasto delle esternalizzazioni?
Venezia, Palazzo Ducale |
Sul medio termine, sarà dunque necessario ripensare seriamente i modelli di governance dei nostri musei: non più modelli basati sulle rendite di posizione (quali possono essere, per esempio, quelle degl’istituti che sfruttano i movimenti del turismo di massa), ma modelli sostenibili in grado di focalizzarsi su creazione di valore, partecipazione, reti di stakeholder, collaborazione equilibrata tra pubblico e privato. Un buon esempio, che è stato discusso nelle ultime settimane, è quello che arriva dalla Fondazione Brescia Musei. È ovvio che un ripensamento dei modelli di gestione debba necessariamente passare attraverso un cambio di mentalità, che a sua volta deve passare attraverso una seria analisi della rilevanza del proprio museo: gli istituti devono cominciare a domandarsi per chi e per che cosa esistono, quale sia il loro ruolo all’interno della società, come intendano rivolgersi ai loro pubblici.
Nel breve, la domanda è più urgente: possiamo riaprire i musei? La risposta qui probabilmente è più facile: non solo possiamo, ma dobbiamo riaprirli al più presto. Sul perché, forse non varrebbe neppure la pena dilungarsi più di tanto, ma è comunque opportuno tornare a evidenziare alcuni motivi. Primo: il museo svolge un importante servizio pubblico. Culturale, sociale, anche economico. Un servizio pubblico riconosciuto come essenziale dallo stesso ministro Franceschini, per decreto. Con un lavoro encomiabile, i musei hanno continuato a svolgerlo, con tutti i limiti che la situazione impone, anche durante i mesi della chiusura, proponendo iniziative online, visite virtuali, video e quant’altro: in poche parole, cercando di dar compimento alla loro missione anche con le porte chiuse. Ma si comprende bene come questo servizio sia irrimediabilmente menomato senza la presenza in situ dei visitatori. Secondo: i musei sono punti di riferimento delle loro comunità. I singoli cittadini attribuiscono valori diversi al patrimonio culturale: mezzo di crescita individuale e di sviluppo di pensiero critico, irrinunciabile dispositivo di approfondimento e miglioramento delle proprie conoscenze, occasione di diletto e di svago (non c’è niente di male: è una funzione riconosciuta ufficialmente dall’Icom), per alcuni visitare un museo può avere anche una funzione consolatoria (diversi studî dimostrano il potere terapeutico dell’arte). Terzo: tanti lavoratori adesso sono a casa, o in cassa integrazione o coi ristori (strumenti che concorrono alla crescita del debito pubblico e che peraltro ora, dopo tanti mesi, pongono anche un non trascurabile problema di dignità), oppure, nel caso dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, in regime di telelavoro. Ecco: molti di loro sarebbero più utili sul campo. Quarto: nessuno ha ancora fornito validi motivi per chiudere tutti i musei indiscriminatamente, dato che le argomentazioni addotte sinora appaiono approssimative, inconsistenti e per niente convincenti.
Dato tale contesto, a questo punto è necessario domandarsi cosa e come aprire. Intanto sarà bene ricordare che il comitato tecnico scientifico per l’emergenza Covid-19 già a maggio prescriveva di differenziare le aperture dei musei sulla base di tipologia (all’aperto, al chiuso, ibrido), dimensioni e concentrazioni dei flussi dei visitatori, con regole più stringenti per i musei che hanno più di centomila visitatori l’anno. Da un punto di vista pratico, i musei, in estate, hanno dimostrato di essere perfettamente in grado di gestire le visite nella più totale sicurezza, con contingentamento, distanziamento, dispositivi di protezione individuale, gel sanificanti e quant’altro. E, peraltro, hanno investito per adeguarsi alle norme di sicurezza. Insomma, hanno pagato e poi li abbiamo chiusi: cerchiamo almeno di non render vani gli investimenti. Ormai abbiamo dato per assodato che, come non ci si contagia al supermercato quando si fa la spesa, ci si contagia ancor meno quando si va al museo.
Se il problema è di natura economica, il governo dia almeno la possibilità di avviare aperture differenziate lasciando libero di riaprire chi vuol riaprire (come a maggio: nessun museo è stato costretto a riaprire), conceda soluzioni su misura seguendo i suggerimenti del comitato tecnico scientifico, ma riconosca l’importanza dei musei, per i cittadini prima ancora che per i turisti. Ci sono musei che sono stati per tanti anni gestiti come aziende e che probabilmente riterranno più conveniente, per i loro flussi di cassa, tener chiuse le porte ancora per un po’, in assenza di turisti o di grosse masse di visitatori: ce ne faremo una ragione, per cambiare gli attuali modelli di gestione servirà tempo. Ma ci sono tantissimi musei che potrebbero riaprire anche domani: si pensi ai piccoli musei pubblici del territorio, che hanno numeri bassi e dunque poche visite, che non appaltano i servizi a concessionari privati, e per i quali non c’è pertanto alcuna differenza tra chiusura e apertura a livello di sostenibilità economica (una pubblica amministrazione deve pagare comunque lo stipendio ai suoi dipendenti: non è allora forse meglio pagarli per tenere aperto il museo piuttosto che per tenerlo chiuso?). Ci sono musei privati che contano soprattutto su di un pubblico locale, per i quali una chiusura prolungata pone notevoli problemi di sostenibilità, e che probabilmente desidererebbero riaprire le porte. Il panorama, insomma, è vasto, e il problema non si può affrontare con l’accetta: adesso, dopo quasi un anno di pandemia, dovremmo dar prova di essere in grado d’immaginare soluzioni mirate.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).