Il dipartimento del turismo è fra le strutture amministrative centrali che ha subìto i più ampi cambi di rotta nelle appartenenze ai vari Ministeri. A seguito del referendum abrogativo del 1993, il dicastero è stato soppresso e le relative competenze sono state di volta in volta attribuite dai vari Governi a diverse strutture centrali.
Con ogni probabilità la situazione attuale, che vede un Ministero del Turismo autonomo, è figlia di una riconosciuta centralità anche economica del comparto turistico e questo è il dato da cui intendo partire. Gli studi di Banca d’Italia del 2019 sull’andamento del turismo in Italia evidenziavano che in Italia il 5,5% del PIL e il 6,5% dell’occupazione erano riconducibili al contributo “diretto” del turismo, che considerando anche il contributo “indiretto” porta a un impatto complessivo del turismo sul PIL al 13% e il 15% dell’occupazione. Tali dati sono molto più elevati rispetto alla media UE e in generale dell’economia mondiale.
È però fondamentale rimarcare che la principale spinta turistica verso l’Italia è data dalla cultura, basti pensare che lo stesso studio di Banca d’Italia del 2019 già citato prima fa riferimento alla “crescente centralità delle motivazioni culturali nella scelta dei turisti stranieri di visitare l’Italia”, poiché in tale tipologia di viaggio ricade circa il 60% della spesa degli stranieri in vacanza in Italia (contro il 40% nella prima metà degli anni Duemila).
Fatte queste considerazioni di base, posso muovere verso il dibattito legato al fatto se la cultura debba essere intesa come strumento per attuare misure di impatto educativo “alto”, ovvero se costituisce un mezzo per massimizzare il ritorno economico in termini di impatto turistico. Le due posizioni estreme, con ogni evidenza, non hanno senso e sono frutto di pregiudizi ideologici. Tuttavia, mentre i sostenitori della prima hanno un approccio molto spesso integralista, i sostenitori della seconda non disconoscono mai il fatto che la cultura sia una parte fondamentale della identità e della storia di una Nazione che contribuisce alla coesione sociale e al livello generale di istruzione.
A mio sommesso avviso, cultura e turismo devono necessariamente andare d’intesa, specialmente nel nostro Paese. È palese, infatti, che attraverso la valorizzazione della cultura e dei beni culturali, si riesca a stimolare la pubblica fruizione, il dibattito, l’accrescimento sociale dei visitatori e non ultimo ad acquisire risorse finanziarie che saranno utili per portare avanti le successive attività culturali. L’unico limite, in questa prospettiva, non può che essere offerto dalla “reale” (id est non falsamente costruita) esigenza di tutela e conservazione.
So che molti non ravvisano una correlazione immediata fra cultura e turismo e ancora ricordo le frasi di taluni direttori di musei, anzi di importanti musei, che in piena pandemia rappresentavano lo straordinario valore della fruizione lenta (e contingentata) nelle grandi città d’arte. Trovo che si tratti di un’idea un po’ naive quella di pensare di poter trasformare le grandi città d’arte in luoghi di slow tourism. Chi lo pensa e chi lo dice non sa (meglio, fa finta di non sapere) che grazie ai flussi turistici trovano impiego qualificato decine di migliaia di persone nelle istituzioni culturali, nelle imprese culturali e creative nonché in tutta la filiera turistica.
Piuttosto, per un turismo lento, che a tutti piace astrattamente ma che confligge con le regole del quotidiano vivere e con la sostenibilità finanziaria del sistema Paese, vi sono stupendi borghi che – anche attraverso il Piano Nazionale Borghi – potranno essere valorizzati, così come si potrebbe/dovrebbe investire sull’accessibilità e sui servizi dei beni culturali di cui è ricco il Mezzogiorno. In ogni caso, tra un museo arroccato su operazioni di nicchia che attirano pochi eletti e un museo votato a grandi operazioni che possano attrarre numerosi visitatori e turisti nazionali e internazionali, scelgo senza dubbio il secondo perché più aperto, più democratico e più legato al perseguimento di logiche di sostenibilità. E lascio senza rammarico il primo a chi pensa alla propria élite.
In base a quanto detto, è evidente che io ritenga che non ci siano linee rosse che separano cultura e turismo; al contrario, cultura e turismo devono sempre essere visti nel quadro di un unico piano di sviluppo e questa è la prima ricetta che va posta al centro dell’attenzione.
È in questo unico piano di sviluppo, culturale e turistico, che dovranno definirsi le azioni che favoriscono l’attrattività turistica di un singolo territorio basata sulla cultura e ciò indipendentemente dalle articolazioni dei dicasteri (a livello centrale) ovvero degli assessorati (a livello locale). In particolare, spetta alle amministrazioni, centrali e locali, “gettare la maschera” e assumersi le proprie responsabilità di fronte all’opinione pubblica. È troppo facile ed è troppo scontato, presenziare alle manifestazioni culturali – magari supportate da un obolo o, peggio, da un semplice patrocinio – per sottolineare il valore della cultura. È molto più serio fissare ex ante, in fase di programmazione, la quota di spesa per le politiche culturali e turistiche impegnandosi a non modificarla, così evitando la tentazione di “tagliare” sempre i capitoli di spesa destinati a tali politiche. Ma si potrebbe fare molto di più. Proprio per l’elevata interdipendenza fra cultura e turismo, dovrebbe esserci un automatismo tale per cui in caso di incremento dei flussi turistici in un dato territorio, e specialmente nelle città d’arte, venga parallelamente incrementata la spesa in servizi culturali nelle programmazioni successive, con ciò attivando dei circoli virtuosi. In altri termini, se è vero che la cultura è il motore principale del turismo, allora essa deve essere finanziata (anche) dalla crescita turistica dei territori. In questa prospettiva, a livello locale, è bene che l’imposta di soggiorno – in merito alla quale non ignoro il dibattito circa la congrua misura della stessa – venga finalizzata prevalentemente al supporto delle attività e degli investimenti in servizi culturali e non come entrata utilizzata per coprire eventuali gap nei bilanci comunali.
Da ultimo, ma non meno importante, ritengo che il nostro Paese, specie in settori come la cultura e il turismo, abbia un estremo bisogno di imprese private. Si badi bene, di imprese, non di associazioni o di volontari. Ne ha bisogno per portare avanti operazioni di sviluppo a medio-lungo termine, consentendo investimenti produttivi. Il tutto rifiutando recisamente l’impostazione, che pure è stata recentemente troppo di moda, di avvicinare i privati trattandoli esclusivamente da mecenati e non come portatori di idee, di innovazione e di progettualità, capaci di incrementare l’occupazione qualificata e – in definitiva – lo sviluppo socio-economico.
Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 17 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte Magazine. Clicca qui per abbonarti.