Musei statali sempre gratis per tutti? Non ce lo possiamo permettere (e non siamo i soli): ecco perché


Possiamo rendere sempre gratuiti tutti i musei statali d'Italia? Sarebbe bello, ma non ce lo possiamo permettere. Ecco per quali ragioni.

Nel gennaio del 2018, il Metropolitan Museum di New York sorprese il mondo intero sancendo la fine della sua pluridecennale politica d’ammissione, che prevedeva accesso gratis per tutti a fronte d’un’offerta libera, e introducendo un biglietto d’ingresso al costo di 25 dollari per tutti i visitatori non residenti nello stato di New York (per gli studenti la gratuità rimaneva inalterata anche per i residenti di Connecticut e New Jersey), ridotto a 17 per gli anziani e 12 per gli studenti. La misura, come lasciava intendere il museo, era stata suggerita dal drastico calo dei proventi delle offerte dei visitatori, che mediamente lasciavano nove dollari per visita: e se nel 2004 il 63% dei visitatori corrispondeva un’offerta pari ai 25 dollari adesso obbligatorî per entrare, il dato era calato al 17% nel 2017. Non solo: uno studio condotto in precedenza aveva stimato che la novità avrebbe avuto un impatto solo sul 31% dei visitatori, e di questo 31%, l’80% si stimava composto da turisti provenienti da oltre oceano, la cui spesa per il viaggio era calcolata mediamente in 1.200 dollari a persona. L’introduzione del ticket non ha avuto effetti disastrosi: tutt’altro. Gli unici dati disponibili, riferiti al 2018, parlano di un incremento complessivo dei visitatori al museo pari al 5% rispetto all’anno precedente, e di 48 milioni di dollari generati dai biglietti. Una cifra di cui hanno beneficiato anche molte altre istituzioni cittadine, dal momento che, a marzo, il museo ha annunciato che avrebbe redistribuito 2,8 milioni tra 175 organizzazioni culturali.

Sull’onda del cambio di policy adottato dal Metropolitan Museum, s’è riacceso in molti paesi il dibattito sull’eventualità di far pagare ai visitatori un biglietto per entrare al museo. Una discussione che, spesso, torna anche in Italia, dove sono molti i fautori dei musei sempre gratis per tutti (tra i quali si contano, per esempio, Salvatore Settis, Vincenzo Trione, Vittorio Sgarbi, Tomaso Montanari), e dove gli argomenti a favore della gratuità indiscriminata sono, all’incirca, sempre gli stessi: il fatto che anche le biblioteche siano gratuite e, in termini formativi, i musei siano identici alle biblioteche, i benefici sul numero totale di visitatori che necessariamente aumenta con le gratuità, le ricadute positive sugli altri musei o su altri prodotti culturali (dal momento che il visitatore che non spende per entrare in un museo gratuito può conservare i suoi spiccioli per altre spese), la possibilità di raggiungere più cittadini e quindi di cementare il loro senso di comunità e appartenenza (oltre che di consolidare la loro formazione). Tutte ragioni molto valide e nobili, ma che devono esser soppesate tenendo anche conto dei costi e degli svantaggi.

Ingresso del Metropolitan Museum. Foto: Rob Young
Ingresso del Metropolitan Museum. Foto: Rob Young

Occorre, intanto, sgombrare il campo da un equivoco: il paragone tra musei e biblioteche (sul quale ha spesso insistito, tra gli altri, l’ex direttore degli Uffizi Antonio Natali). Sebbene musei e biblioteche contribuiscano allo stesso modo alla crescita culturale d’una comunità, è necessario rimarcare le profonde differenze che li separano dal punto di vista dell’utilizzo: prima tra tutti il fatto che il museo offre un’esperienza (e in quanto tale unica e irriproducibile), mentre la biblioteca garantisce un servizio (dunque diffuso e replicabile, a meno che non si voglia consultare un manoscritto medievale o una rara cinquecentina, attività tuttavia riservate agli studiosi e quindi trascurabili per il paragone tra le due istituzioni). Un museo è una collezione d’opere che non esistono in altre raccolte, mentre le biblioteche sono depositi di libri stampati solitamente in centinaia o migliaia di copie. In altri termini: per vedere la Primavera di Botticelli, a meno che non ci s’accontenti d’una riproduzione, è obbligatorio visitare gli Uffizi. Il Decameron, invece, si può chiedere in prestito in qualsiasi biblioteca (e per i libri non disponibili nella biblioteca della propria città, esiste quasi sempre il prestito interbibliotecario). Senza contare il fatto che, tipicamente, i musei, al contrario delle biblioteche, attirano i turisti, oltre ai cittadini. Queste, ci sentiamo d’affermare, sono le ragioni per le quali di solito si paga per entrare in un museo, mentre si accede gratuitamente al prestito in quasi tutte le biblioteche. Certo: si potrebbe obiettare rispondendo che i musei, esattamente come le biblioteche, sono un importante presidio culturale, fondamentale per la formazione dei cittadini. Se dunque di musei gratuiti si vuol parlare (beninteso, è giusto che il museo venga aperto gratuitamente a certe categorie d’utenti), avrebbe più senso se la gratuità fosse applicata a chi è nel pieno del proprio percorso formativo o a chi studia per lavoro (studenti e studiosi, a prescindere dalla loro età), e alle categorie per le quali attualmente il ministero prevede già il biglietto gratuito.

Sciolto questo nodo, il principale ostacolo per estendere a tutti i musei la gratuità in ogni giorno dell’anno, è l’alto costo dell’operazione: perché è noto che se un bene è gratuito, significa che c’è qualcuno che paga per renderlo tale. Se il Ministero dei Beni Culturali volesse seguire il modello dei national museums britannici, rendendo quindi gratuita l’apertura di tutti i suoi musei, dovrebbe fare i conti con un ammanco di 230 milioni di euro (al lordo della quota che spetta ai concessionarî dei servizî), una cifra che rappresenta poco più del 10% del suo bilancio: e al di là dei propositi naîf e populistici che spesso vengono avanzati per coprire la spesa (Montanari, nel 2018, scriveva che “potremmo permetterci di aprire a tutti gratuitamente tutti i musei statali per 365 giorni l’anno semplicemente decidendo di non spendere in armi almeno per due giorni all’anno”, e su questa è proposta è tornato di recente presentando il suo documento per il team del futuro del Movimento 5 Stelle), si tratta di risorse che occorre trovare altrove. I musei nazionali d’Oltremanica, per esempio, fanno pagare (in maniera peraltro molto salata in rapporto agli standard italiani) un biglietto d’accesso ad alcune mostre temporanee: i titoli d’accesso alle rassegne della National Gallery mediamente costano attorno alle diciotto-venti sterline (tra i ventuno e i ventiquattro euro), e non dissimili sono i costi per visitare le mostre degli altri musei. L’aspetto bizzarro di questa decisione sta nel fatto che è penalizzante soprattutto per i visitatori di ritorno e per i residenti, quelli che solitamente sono più interessati alle mostre temporanee. Escludendo, ovviamente, le mostre blockbuster o ad alto richiamo, capaci d’attirare visitatori anche da fuori: non a caso, spesso chi propugna l’idea dei musei sempre gratis, è convinto che, per far cassa seguendo il modello inglese, la scelta di produrre mostre interessanti per un vasto pubblico sia pressoché obbligata (e, verrebbe da aggiungere, difficilmente una mostra blockbuster è anche una vera occasione d’approfondimento scientifico). Ma la scelta di puntare sugli eventi di cassetta, oltre a poter esser praticata solo da pochissimi soggetti, rischia di rivelarsi anacronistica: in futuro diventerà sempre più difficile organizzare grandi mostre d’arte antica, e già diversi musei stanno pensando a come trovare valide alternative (si rimanda a tal proposito al dibattito sul “museo del futuro” nel numero di dicembre 2019 del nostro trimestrale cartaceo, al quale hanno partecipato diversi dei principali attori del panorama nazionale e internazionale).

Per capire come il modello inglese potrebbe essere applicato a un museo come la Galleria degli Uffizi (un’ipotesi assurda e impraticabile, data la pressione che già l’istituto fiorentino subisce con biglietto a pagamento), è possibile fare un pur grezzo raffronto con la National Gallery (grezzo, perché i flussi dei visitatori sono diversi, perché diverse sono le policy e gli orarî d’apertura, perché la natura e la conformazione dei due istituti è totalmente differente, e così via). Dei 5,9 milioni di visitatori che hanno affollato la National Gallery tra il marzo 2018 e il marzo 2019, 510mila hanno visitato le mostre a pagamento, procurando ricavi per 4,1 milioni di sterline (8,03 sterline per visitatore, considerando che tale ricavo è stato generato dall’8,6% dei visitatori del museo). Immaginando che gli Uffizi vogliano applicare gli stessi prezzi dell’attuale biglietto d’ingresso alle sole mostre (e quindi calcolando lo stesso coefficiente ricavo/visitatore), rendendo gratuito l’accesso alla collezione permanente, e ipotizzando una loro capacità d’attrazione pari a quella della National Gallery, gli Uffizi si ritroverebbero con una lacuna di più di trenta milioni di euro sul loro bilancio (dalle mostre ricaverebbero solo 1,7 milioni di euro, contro i 34 che al momento ottengono dalla bigliettazione). Si potrebbe far salire la cifra aggiungendo il ricavato delle donazioni individuali, che per la National Gallery nel 2018-2019 è stato di 2 milioni di sterline (per gli Uffizi, immaginando che il pubblico italiano abbia la stessa propensione alla libera offerta di quello inglese, si tratterebbe di altro mezzo milione di euro).

Ingresso della National Gallery di Londra. Foto: Ashley van Haeften
Ingresso della National Gallery di Londra. Foto: Ashley van Haeften

Tuttavia, per arrivare ai 57 milioni di sterline che la National Gallery ha ricavato nell’ultimo anno finanziario, bisogna aggiungere, intanto, le donazioni di trust e fondazioni private, che ammontano a circa 16 milioni di euro, e in questo caso il raffronto con gli Uffizi è impietoso, dal momento che il museo fiorentino, nel 2018, ha ricevuto contributi da privati per circa un milione di euro. E ancora, occorre tenere in considerazione i ricavi delle attività educative (240mila) e delle trading activities, che includono royalties (per esempio sulle concessioni delle immagini per pubblicazioni), noleggio di sale per eventi, vendita di mappe (sì, alla National Gallery la mappa del museo costa due sterline), fee per il guardaroba (due sterline per ogni oggetto), sponsorizzazioni, sottoscrizioni (7,5 milioni di sterline in tutto). Dai servizî, gli Uffizi hanno invece ricavato circa due milioni e mezzo di euro (e si consideri poi che i musei italiani devono anche girare una parte dei proventi ai concessionarî). Il grosso del ricavato della National Gallery proviene dai finanziamenti pubblici del ministero inglese della cultura, che ammontano a poco più di 24 milioni di sterline. La gratuità della National Gallery costa dunque allo Stato inglese quasi la metà del suo bilancio: al contrario, i trasferimenti da istituti pubblici verso gli Uffizi, nel 2018, ammontavano a poco più di tre milioni di euro. Il perché della sproporzione è presto detto: dal ministero della cultura del Regno Unito dipendono direttamente quattordici musei, mentre l’omologo italiano ne gestisce quasi cinquecento, gran parte dei quali economicamente improduttivi (mi si passi questo brutto termine: un museo, ovviamente, non si può equiparare a un’impresa, ma è normale che il suo funzionamento abbia un costo).

Da quanto sopra descritto dovrebbe risultare chiaro perché in Italia il modello inglese non è applicabile: perché nel nostro paese il sistema museale è completamente diverso (decine di piccoli musei diffusi in tutto il territorio, spesso lontani dalle rotte turistiche, e nessun grande polo accentratore paragonabile a realtà come il British, la National Gallery, la Tate, il V&A, il London Science Museum), perché la capacità di raccogliere contributi da privati e la tendenza a donare per la cultura sono molto meno sviluppate rispetto al Regno Unito (il Regno Unito ha anche una legislazione fiscale che in materia è molto più evoluta e anziana della nostra), perché i primi esperimenti su sottoscrizioni, membership e abbonamenti in Italia sono partiti da pochi anni, perché in Italia gli introiti dei grandi musei mantengono anche i musei piccoli, perché molti musei già sopportano una grande pressione malgrado il biglietto a pagamento (si pensi agli Uffizi, alla Galleria dell’Accademia, al Colosseo, alla Galleria Borghese) e l’introduzione della gratuità provocherebbe effetti deleterî. Senza contare che poi diversi musei in Italia sono già gratuiti. In breve, anche se idealmente sarebbe molto bello, purtroppo non possiamo estendere la gratuità a tutti i musei statali semplicemente perché non ce lo possiamo permettere, e pensare che da noi si possa applicare lo stesso modello del Regno Unito è pura utopia. Sono del resto portato a credere che nessuno di quanti pensano di poter rendere gratuiti tutti i musei statali abbia mai avanzato proposte serie per coprire i mancati introiti da bigliettazione (quasi sempre ci si limita, con atteggiamento che ha del fideistico, a sperare nell’aumento dell’indotto turistico: ma la gratuità sarebbe semmai un vantaggio per i residenti più che un incentivo per i turisti). E poi, chi si schiera a favore delle gratuità, solitamente è anche contrario alla concessione di sale in affitto, alle sponsorizzazioni dei grandi brand, agli eventi privati organizzati per stimolare le raccolte di fondi: è evidente che, nel mondo reale, occorre sempre fare delle scelte.

Uffizi, folla davanti alla Venere di Botticelli. Foto: Mike Fitzpatrick
Uffizi, folla davanti alla Venere di Botticelli. Foto: Mike Fitzpatrick

Ma ci sono anche ulteriori considerazioni che è possibile aggiungere alla riflessione. In uno studio del 2017 di Roberto Cellini e Tiziana Cuccia, ordinarî d’economia politica dell’Università di Catania, si dimostra come l’introduzione delle domeniche gratuite abbia avuto effetti strutturali positivi, rafforzando la relazione positiva tra visite gratuite e visite a pagamento (“la nostra analisi”, spiegavano Cellini e Cuccia, “suggerisce che tra le visite gratuite e quelle a pagamento si stabilisce un legame forte, e che le visite a pagamento hanno cominciato a comportarsi come un bene complementare grazie alla nuova politica di ammissione gratuita” introdotta nel 2014 dal ministro Dario Franceschini). L’analisi non aveva però potuto spingersi troppo oltre perché non era stato possibile distinguere tra i visitatori nuovi e quelli di ritorno, né tra i tipi di visitatori (se, per esempio, residenti o turisti). Eppure, conoscere la distribuzione dei flussi sarebbe di vitale importanza per comprendere appieno le policy da applicare: un museo frequentato per lo più da turisti sarebbe disposto a rinunciare agli introiti generati da chi ha speso centinaia di euro per arrivare in Italia e non ha problemi a spenderne una decina in più per visitare un museo che probabilmente vedrà una volta nella vita? Il Metropolitan Museum si è posto questa legittima domanda, si è dato una risposta negativa, e di conseguenza ha introdotto un biglietto a pagamento. E come il Metropolitan Museum, ci sono diversi altri musei che hanno deciso di passare da un regime gratuito a una politica di bigliettazione a pagamento. Perché c’è anche un ulteriore mito da sfatare, quello della gratuità come incentivo alle visite dei turisti. Un turista è disposto anche a pagare (ovviamente una cifra ragionevole) se il museo è una delle principali attrazioni della città in cui si reca, e una ricerca condotta nel 2016 su 206 musei inglesi, supportata dall’Arts Council England e dal governo del Galles, ha dimostrato che più un museo è considerato un’attrattiva per i turisti, più è portato ad applicare dei costi per la visita: il 76% dei musei ritenuti attrazioni chiave per i turisti applica tariffe d’accesso, e la percentuale scende in maniera direttamente proporzionale alla diminuzione dell’importanza che il museo ricopre per i turisti (è a pagamento il 25% dei musei ritenuti non interessanti per i turisti). Gli studî condotti nel Regno Unito dimostrano semmai che i vistosi aumenti di visitatori sono dovuti soprattutto al pubblico di ritorno (un ottimo risultato e un interessante segnale). C’è però da dire che in Italia, purtroppo, mancano ancora dati dettagliati sulla composizione del pubblico: il ministero dovrebbe cominciare a comprendere che l’analisi dei visitatori e delle loro motivazioni è fondamentale per la sopravvivenza dei musei, che c’è bisogno di dati approfonditi e da render pubblici, e che su questo tema un’inversione di tendenza non è più posticipabile.

Da un’analisi della composizione del pubblico si potrebbe anche finalmente comprendere se il prezzo rappresenta davvero un ostacolo alla visita (anche se, a giudicare dalle statistiche culturali dell’Istat, i biglietti dei musei sarebbero troppo dispendiosi solo per dieci italiani su cento). E agire di conseguenza, domandandosi quali siano gli obiettivi che i nostri musei dovrebbero porsi per elaborare un modello tagliato sulle loro esigenze. Le possibilità sono molte: lasciare che si entri a pagamento nei musei più grandi e redditizî (anche per pure ragioni di esperienza di visita) con ingresso gratuito per studenti e studiosi e magari tariffe molto agevolate per i residenti, e magari aumentare il numero dei musei dove si entra gratuitamente (per certi musei poco visitati, la gratuità potrebbe davvero portare qualche beneficio), oppure pensare a gratuità per le classi sociali svantaggiate, prevedere misure a favore dei residenti come abbonamenti che incentivino il ritorno, attivare la gratuità tutti i giorni ma solo in alcune fasce orarie (una realtà, quest’ultima, già in essere in diversi musei europei). Non stiamo certo affermando che tutto vada lasciato com’è, anzi: da tempo andiamo ribadendo che, sulle politiche d’accesso, i nostri musei necessitano di una rivoluzione. Ed è per questo che non possiamo permetterci di adagiarci su dibattiti attardati e ideologici, né pensare di rincorrere modelli che non possono trovare applicazione nel nostro paese: è semmai necessario lavorare su di un modello originale, che possa funzionare per il nostro paese.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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