I musei pubblici sono delle comunità. Questo vuol dire che sono aperti al pubblico e che le collezioni sono esposte a beneficio dei visitatori, per diletto, istruzione e ricerca. Per i musei di proprietà dello Stato e dei comuni è una questione di fruizione ma anche di possesso. Le collezioni d’arte di queste istituzioni sono infatti dei cittadini e per tutelarle, renderle fruibili e studiarle si ricorre a fondi pubblici. Quando però queste risorse non sono sufficienti a sostenere un’offerta culturale estesa, i musei si rivolgono ai privati. È giusto che questo avvenga perché essendo i musei di tutti è anche responsabilità degli utenti contribuire alla loro crescita. Le campagne annuali di fundraising che sollecitano donazioni piccole e grandi in favore dei musei sono la cifra del concreto rapporto tra pubblico e privato in queste istituzioni. Non si tratta qui di cercare visibilità personale o pubblicità per un prodotto (dare per ottenere) bensì di sentirsi civicamente corresponsabili del bene pubblico (dare per appartenere). In Italia, nonostante l’esistenza del meccanismo dell’Art Bonus, che riconosce al donatore un credito di imposta del 65%, sentimenti di corresponsabilità, di generosità del singolo verso la collettività e di civica appartenenza non sono molto diffusi. Spesso i musei e i monumenti, così come i giardini storici e i parchi sono visti come luoghi distanti dalle responsabilità del singolo, sono vissuti come istituzioni avulse dalla realtà quotidiana dei cittadini o al meglio come parte di un paesaggio abituale, consueto e pertanto poco interessante.
Una sala della Galleria Estense di Modena |
Bisogna interrogarsi sulle ragioni di questa distanza che non può essere ascritta solo ad un certo disinteresse dei cittadini. Anche quando le donazioni dei privati a favore delle istituzioni culturali locali sono minime, la maggioranza dei cittadini è sinceramente orgogliosa di averle nella propria città. Il problema è piuttosto nella loro limitata frequentazione. Molto spesso i musei italiani sono visitati più dai turisti che dai residenti. Manca o deve ancora crescere un pubblico fidelizzato come ad esempio quello delle associazioni degli amici del museo. Chi frequenta abitualmente lo stesso museo, è naturalmente più disposto a sentirsi investito e co-responsabile del suo benessere e del suo sviluppo. Un altro fattore importante per stabilire un rapporto proficuo tra museo e donatori, attraverso una rete vasta e capillare, è la creazione del senso di appartenenza. E’ facile incontrare persone che hanno una particolare ammirazione per i musei. Seppure nella vita hanno scelto carriere diverse, queste persone sono interessate a sentirsi parte di un’istituzione culturale. Creare occasioni affinché questo desiderio di partecipazione alla vita del museo sia esaudito (come ad esempio il volontariato) crea lo stimolo per una filantropia diffusa. Un museo che gode di una filantropia diffusa (grande o piccola che sia) aperto alla partecipazione di un suo pubblico abituale è un museo che esercita al meglio il rapporto tra bene pubblico e interesse privato. Il lancio della nuova piattaforma digitale della Biblioteca Estense Universitaria di Modena è paradigmatico di questo modello. La piattaforma è stata creata con il supporto tecnico e finanziario della Fondazione Di Modena, che ha donato 1.300.000 euro per la sua realizzazione. Per la seconda fase del progetto, che prevede la digitalizzazione dei manoscritti latini, il museo chiede il coinvolgimento del pubblico con una campagna di crowdfunding a integrazione dei fondi ministeriali già disponibili. Stato, piccoli e grandi benefattori, tutti insieme al sostegno di un progetto di pubblica utilità.
Ciò non vuol dire che altri tipi di intervento non siano encomiabili. I musei hanno bisogno di una vivace programmazione culturale per soddisfare il proprio pubblico. Realizzarla è molto costoso ma produce reddito. Se la maggior parte degli eventi temporanei, come le esposizioni -altamente vendibili per la loro visibilità- sono realizzate con fondi di terzi (gli sponsors), il museo è capace di investire in attività importanti per cui quegli stessi meccanismi di marketing non sono disponibili. Pensiamo a progetti come la catalogazione che è fondamentale ma di scarso richiamo pubblico. Nel migliore dei casi, le sponsorizzazioni consentano al museo di offrire un offerta culturale vasta e diversificata e allo stesso tempo continuare a fare progetti di ricerca non immediatamente rivolti al pubblico.
Le attività commerciali dei musei sono anch’esse una fonte di reddito e un’ occasione per far coincidere interessi privati e missione pubblica. Spesso in Italia questo genere di attività, ad esempio i bookshops, sono parte delle attività appaltate a ditte esterne attraverso contratti di concessione. Le concessioni hanno il vantaggio di liberare l’amministrazione dalla conduzione di attività specialistiche per cui il personale di ruolo dei musei spesso non è formato oppure non è presente in numeri sufficienti per offrire un servizio efficiente. E’ una soluzione utilitaristica, ma che non permette al museo di coltivare e crescere professionalità specifiche al proprio interno. Mi spiego meglio. Se i musei italiani fossero capaci di gestire in-house i servizi accessori (negozi, attività di didattica, ecc.) avrebbero una maggiore capacità di creare delle ricadute dirette sui territori di appartenenza. Un bookshop che commercializza prodotti locali anche attraverso un rapporto - diretto o mediato che sia - con la piccola imprenditoria del territorio o con artigiani locali (anche organizzati in cooperative) ha una maggiore capacità di trasformarsi in impresa sociale in cui il ricavo è immediatamente rinvestito nel bene pubblico e in cui il museo agisce come polo di sviluppo e aggregatore di professionalità diverse.
In Italia, la discussione del rapporto tra pubblico e privato nelle istituzioni culturali assume spesso toni aspramente polemici, ma è necessario ricordare che l’intervento dei privati nel museo può essere motore di crescita e di sviluppo. Questo avviene quando il museo agisce d’intesa con una comunità di utenti che hanno a cuore le sorti del museo, comunità che il museo stesso nutre e coltiva.
Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 8 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper. Clicca qui per abbonarti.
L'autrice di questo articolo: Martina Bagnoli
Direttore delle Gallerie Estensi di Modena e Ferrara