Per valutare se e come i musei italiani siano interessati e pronti alla sfida che il digitale pone abbiamo ora a disposizione numerosi strumenti e domande. Una di queste è ad esempio valutare alcune questioni di merito, e decidere secondo quale metrica sia utile valutarle. Forse non basta dire che il 76% dei musei italiani è presente su almeno un profilo dei social network senza essersi dotati di qualche parametro utile per valutare queste presenze sotto un profilo qualitativo e di raggiungimento di alcuni obiettivi di senso.
“Catalogazione” e “digitalizzazione” delle opere sono operazioni impegnative, ma vane, se non si ha idea di una strategia con la quale metterle al servizio. La catalogazione nazionale delle opere, forzata e eccessivamente semplificata nella versione pubblica e regionale che abbiamo tutti presente, è difficilmente utile per una operazione di disseminazione giocosa e contributiva, intrappolata (come è) in vecchi sistemi e categorie coniate per uno specialismo esclusivo, a portata di acronimo. La digitalizzazione, invece, potrebbe, se ben progettata su basi strategiche volte all’apertura, essere una chiave di volta per un allargamento del pubblico e una offerta che può avere larghi e innumerevoli sviluppi creativi e contributivi. Forse è giunto anche il momento di mettere in netta contrapposizione la “visita virtuale”, mediamente davvero poco usabile, apprezzabile e con un obiettivo chiaro (che non sia la sostituzione e scimmiottamento impoverito della visita fisica), con la disponibilità delle collezioni online, la cui modularità e potenziale di declinazione sono ancora tutti da esplorare in questo paese; ho di recente sentito Chiara Bernasconi dichiarare senza alcun filtro, come si passasse un’informazione del tutto ovvia e incontrovertibile da tempo, che sono uno strumento superato da almeno un decennio: aspettiamo che ce lo dica dagli Stati Uniti un (ottimo) cervello in fuga?
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Anche “avere un sito web dedicato ad un museo” come riferisce lo studio dell’Osservatorio Innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali del Politecnico di Milano non costituisce più (nemmeno solo formalmente) garanzia di vivacità digitale: avere un sito con poche pagine statiche, senza CMS, senza collezione online non è certamente testimonianza rispondente ad una espressione sostenibile, creativa e nutritiva di un museo del XXI secolo.
Insomma credo sarebbe bene adeguare le categorie e le metriche di valutazione con quanto già esistente e maturato in decennî dalle esperienze internazionali, rispetto alle quali siamo sì un poco indietro, ma che sono spesso documentate e disponibili nella bibliografia e sitografia di stampo anglosassone, e quindi utile strumento di recupero veloce (quanto aspetteremo per un blog di un museo italiano che racconti con trasparenza iniziative di successo e non, a vantaggio di tutto il comparto?).
Per valorizzare chi ha competenze adeguate in ambito di musei e digitale è necessario un cambio di passo: gli specialisti del settore andrebbero integrati, modificando i processi interni, sulla base di uno schema improntato sulla circolarità, e non giustapposti al museo.
Insomma, non si può fingere di essere digitali. E il lockdown ce ne ha dato incontrovertibile (quanto non necessaria) prova. Non credo nemmeno si tratti di investimenti, o mancanza degli stessi, ma di fiducia e competenza nel mezzo, con vero mandato.
Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 7 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper. Clicca qui per abbonarti.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autrice di questo articolo: Maria Elena Colombo
Docente di Multimedialità e beni culturali, Accademia di Belle Arti di Brera