Se una chiesa antica diventa sede di mostre d’arte contemporanea, quant’è labile il confine tra un allestimento che rispetta i suoi spazî e un allestimento che risulta invece pesante e invasivo al punto da guastare la percezione degli ambienti? Sempre più spesso edifici costruiti secoli addietro cambiano destinazione d’uso prestandosi a mutazioni, più o meno riuscite, in sedi espositive: in questo senso, lunga e irta d’allestimenti spericolati è la storia della chiesa di Sant’Agostino di Pietrasanta, un caso che potrebbe esser preso a esempio per la sua lunga storia espositiva, costellata d’episodî riusciti ma anche, e forse anche più, di progetti da registrare nel taccuino delle pratiche da evitare con la massima accuratezza.
Al fondo del pozzo s’arrivò, con tutta probabilità, nel 2008, quando l’austera navata della chiesa venne trasformata in una sorta di red carpet da festival del cinema: tappeti rossi sparsi sui grandi lastroni in marmo dei pavimenti per esporre al pubblico le sculture di Gina Lollobrigida, accolta all’inaugurazione da una folla che mai più si sarebbe rivista per una mostra nella cittadina versiliese. Dagli anni Novanta a oggi (il capitolo più recente è la mostra Africa Tunes, che s’è aperta sabato scorso, e del cui allestimento si parlerà più in basso) son transitate di qui centinaia di mostre, organizzate a ritmi serrati: difficilmente il pubblico ha avuto occasione di veder vuoto l’antico tempio pietrasantino, severa chiesa agostiniana edificata nel Trecento che serba ancora la facciata gotica, reminiscente di quella del Duomo di San Martino a Lucca. L’interno, modificato tra XVI e XVII secolo, conserva pregevolissime pale d’altare del Seicento toscano: c’è una Madonna della Grazia capolavoro di Astolfo Petrazzi (cui venne anche affidato l’incarico d’affrescare l’attiguo chiostro: del suo lavoro sopravvivono oggi otto lunette), c’è una Crocifissione di Francesco Curradi, c’è una Madonna del Rosario variamente attribuita a Cesare Dandini, a Jacopo Vignali e ad altri artisti del tempo, c’è una Madonna col Bambino di Tommaso Tommasi. Alle pareti, lacerti dell’originaria decorazione trecentesca, sull’altare la pala con l’Annunciazione attribuita a Matteo Boselli e dietro, nell’abside, l’Incoronazione della Vergine di Jean Imbert. D’eccezionale rilevanza, poi, l’altare che conserva i tre frammenti della Natività di Zacchia da Vezzano, notevole pala del 1519, rubata nel 1921, fatta a pezzi in quell’occasione, e poi ritrovata a brandelli: oggi l’altare espone quel che ne rimane, nell’attesa che prima o poi si riesca a trovare anche il resto della pala.
È una camminata lungo quattro secoli di storia di Pietrasanta, utile per comprendere l’importanza di quest’area, apparentemente marginale, di quel granducato di Toscana cui le sorti della cittadina furono per molto tempo legate. Una camminata che però viene resa possibile solo col permesso dei soggetti che, periodicamente, organizzano le mostre all’interno della chiesa, attualmente sospesa al culto. Il complesso di Sant’Agostino (l’ex convento rinascimentale, giova sottolineare, si conserva ancora integro nella sua struttura architettonica) è proprietà del Comune di Pietrasanta fin dai tempi delle soppressioni napoleoniche degli ordini monastici, e oggi è diventato sede di mostre, chiesa inclusa. È questo il capitolo più recente della sua storia: nell’Ottocento fu sede d’una scuola dei padri scolopi, rimasta attiva fino al 1880, dopodiché nella chiesa si continuò a officiare, mentre il convento cadde in uno stato di pesante degrado finché l’intero complesso non venne restaurato tra gli anni Settanta e il 1988. A seguito di questa data, il Comune vi ha aperto la sede del Museo dei Bozzetti e della Biblioteca Comunale, lasciando aperto il pianterreno del convento e la chiesa alle mostre. E la chiesa di Sant’Agostino, coi suoi volumi ampî, i suoi apparati sobri, i suoi altari, i suoi tabernacoli, ha evidentemente stimolato la fantasia degli allestitori di mostre che, da tempo, la sottopongono continuamente a ogni fattispecie d’uso e abuso, spesso tormentandola con le più invereconde seccature che il cervello d’un curatore possa partorire, calpestando la sua storia (letteralmente: sui pavimenti si vedono infatti antiche lastre tombali), impedendo la visione delle pale d’altare o lasciandole nel buio più totale, trattando quest’edificio così stratificato come se fosse la più neutra delle gallerie white cube.
Negli anni, la chiesa di Sant’Agostino, trasformata dunque in una singolare sede espositiva, ha saggiato suo malgrado un campionario completo degli allestimenti impattanti. C’è da dire che l’edificio di culto è stato sede, soprattutto, di rassegne di scultura, un po’ perché questa è la principale vocazione artistica del territorio, e un po’ perché allestire una mostra di sculture dentro una chiesa è molto più semplice e delicato che infilarci dentro disegni, dipinti, quadroni, come tuttavia è stato fatto ripetutamente. Ciò nondimeno, non sono mancati gli scultori che hanno voluto immancabilmente far percepire la loro presenza. Il quaderno delle doglianze potrebbe cominciare dalla mostra di Igor Mitoraj del 2015, che invase letteralmente la navata di Sant’Agostino con opere fuori scala, sistemate ovunque, in certi casi posizionate anche in maniera tale da impallare i dipinti secenteschi. Sculture letteralmente mastodontiche anche per Stefano Bombardieri, che nel 2009 allestì una specie di dimenticabile zoo di gorilla, elefanti, rinoceronti e pachidermi assortiti davanti all’altar maggiore. Ancor peggio s’era fatto con la mostra di Medhat Shafik del 2008, quando le sculture dell’artista egiziano avevano ingombrato quasi tutto lo spazio disponibile, toccando forse l’apice dell’affastellamento impacciato e sconclusionato. E ancora, nel 2022, le pale del Seicento sono state oscurate quasi totalmente dai video di Martín Romeo, proiettati su enormi schermi che impedivano la visione delle opere antiche, un po’ perché le coprivano fisicamente, un po’ perché la chiesa era stata lasciata nella più totale oscurità. Per non parlare della mostra di Giuseppe Carta del 2017, quando le opere di Petrazzi e colleghi sono state coperte per fare posto a quelle di Carta (una sorta di unicum: credo che nessuno abbia mai avuto la sfrontatezza di sostituirsi alle opere antiche) e l’intera chiesa è stata trasformata in una specie di club privé.
Gli artisti che invece hanno concesso alle mostre opere di dimensioni più contenute, hanno spesso puntato sulla quantità, trasformando la navata di Sant’Agostino in una selva di totem: alla mostra di Maurizio Toffoletti del 2009 pareva di stare a Stonehenge, entrando in quella di Paolo Ruffini del 2015 (una delle peggiori) sembrava invece di ritrovarsi sul set di Uccelli di Hitchcock con la chiesa invasa di gabbiani appesi al soffitto e reti sparpagliate davanti all’altare a simulare delle gabbie, mentre alla mostra di Umberto Cavenago e Bart Herreman del 2019, che pure era stata rispettosa della chiesa, erano stati messi, per qualche originale motivo, dei dissuasori che impedivano al pubblico di avvicinarsi alla parte sinistra della navata. Ultimo caso, in ordine di tempo, la Design Week del 2023 che ha colmato il pavimento della navata di lampade, tavolini, poltrone che hanno occupato gran parte dello spazio a disposizione.
Le mostre più impattanti sono state però quelle di pittura: dal momento che un quadro non è come una scultura che la puoi mettere dove ti pare e quella sta in piedi da sola, ma tocca per forza appenderlo a un sostegno verticale data la sua evidenza fisica, e dal momento che per ovvie ragioni non è consentito attaccare i quadri alle pareti della chiesa, gli allestitori hanno dovuto a lungo aguzzare l’ingegno per risolvere il problema di far star dritto un quadro dentro uno spazio vuoto. Con la mostra di Botero del 2000 erano state create due alte quinte che seguivano l’andamento della navata trasformando la chiesa in una galleria improvvisata, e lo stesso modello venne seguito alla mostra dei “quasi-Dalí” del 2016, con l’aggravante che in quel caso a disturbare la percezione della chiesa erano state aggiunte anche alcune sculture particolarmente importune. Verso la metà degli anni 2010 andò di moda per qualche tempo l’orientamento contrario: delle grosse pareti parallele poste in maniera trasversale alla navata, da seguire stile serpentone (così furono, per esempio, le mostre di Franco Miozzo del 2014 e di Francesco Stefanini del 2015), in alcuni casi con gli elementi provvisorî rozzamente poggiati sulle lapidi antiche. Naturalmente non è stata risparmiata neppure la facciata: varrà la pena ricordare, come esempî dai quali tenersi al largo, il “Meccano” di Tano Pisano del 2021, mostra che ha riempito le arcate della facciata esterna di inopportuni mosaici colorati (senza considerare poi l’ammasso d’oggetti all’interno: se ci fosse una classifica degli allestimenti peggiori, questa mostra sarebbe un’ottima candidata a una eventuale top 5), il già citato Ruffini che davanti all’ingresso della chiesa fece mettere una sorta di elaborazione tridimensionale del titolo della sua mostra, e l’americano Fred Nall, autore di pesanti e goffi interventi sia fuori che dentro la chiesa.
C’è stato, in tutto questo, qualcuno che abbia rispettato la chiesa di Sant’Agostino? Quanto alla scultura, trovare esempî è abbastanza semplice: gli allestimenti più adatti e delicati, che hanno evitato il più possibile d’interferire con la chiesa, sono stati quelli della mostra Tempo di Bertozzi & Casoni (2021), che hanno avuto l’accortezza di portare un numero molto limitato di opere, di dimensioni ridotte, e in grado di non alterare la percezione dell’ambiente. Lo stesso vale per la personale di Roberto Barni del 2013: anche in quel caso, poche opere e poco disturbo. Sulla pittura è invece molto più difficile, per le intrinseche ragioni del mezzo, trovare allestimenti che in qualche modo non abbiano avuto un impatto significativo sulla chiesa. Una buona soluzione è stata quella tentata, credo per la prima volta, per la mostra Africa Tunes che si è aperta sabato scorso: l’organizzazione aveva il problema d’inserire nel percorso i grossi quadroni dell’artista ivoriano Aboudia. E anziché tirare su pesanti pareti effimere, sono stati installati dei telai di legno, posizionati non al centro della chiesa, ma lungo le pareti della navata (così com’era stato fatto per i neon di Marco Lodola del 2006, altra mostra a poco impatto), in grado di dare l’impressione che i dipinti galleggiassero nello spazio, e collocati in modo da lasciar libera la visione frontale delle pale secentesche. L’elemento posto di fronte all’altare, se fosse stato pieno e non vuoto come i telai scelti per questa mostra, avrebbe irrimediabilmente compromesso la percezione dello spazio dell’abside: si può fare un paragone con la mostra di Raffaele De Rosa del 2019, dove una parete piena era stata installata all’inizio del presbiterio (quindi in posizione molto più avanzata rispetto al telaio col quadro di Aboudia) obliterando quasi tutto lo spazio retrostante e incidendo sulla percezione della sua profondità. Si potrà poi dire che il dipinto di Aboudia copra una parte dell’altar maggiore: è vero, ma almeno si è tentato, in via pionieristica, d’allestire in Sant’Agostino una mostra di pittura che lasciasse libero lo spazio per chi entra interessato alla chiesa.
Ora, sarà opportuno rammentare che il Comune di Pietrasanta concede gli spazî della chiesa chiedendo ai concessionarî di rispettare un regolamento dove, sostanzialmente, si prescrive di non intervenire con allestimenti che danneggino gli ambienti (quindi divieto d’attaccare chiodi, d’introdurre liquidi, di portare elementi che superino un certo peso, e via dicendo). Nei casi di allestimenti particolarmente complessi, il progetto dev’essere sottoposto all’autorizzazione della Soprintendenza. Che naturalmente non s’esprime sulla qualità estetica dell’allestimento: in questo caso è tutto demandato al buon senso di chi organizza le mostre, libero di decidere se la propria proposta cultura ha senso dentro a una chiesa oppure no (per intendersi: ha avuto senso chi, come Bertozzi&Casoni, dentro a una chiesa ha ragionato sul tempo e sulla fugacità dell’esistenza, ha trattato la chiesa come un fondale chi invece l’ha riempita di bestiame vario). Non sarebbe però un eccesso di dirigismo se il Comune di Pietrasanta chiedesse anche solo di ridurre al minimo gl’ingombri degli allestimenti per fare in modo che la chiesa di Sant’Agostino riceva gli opportuni riguardi.
La proposta espositiva pietrasantina s’è distinta, specie negli ultimi anni, per una certa discontinuità che ha portato all’alternanza di eventi espositivi tutt’altro che interessanti (l’esempio massimo, ancor oggi citato dagli abitanti e ben presente nella loro memoria, è quello delle sculture di Gina Lollobrigida) ad altri di portata molto più significativa e di qualità decisamente più alta. Nell’attesa che le mostre di Pietrasanta raggiungano una più armoniosa uniformità qualitativa, si potrebbe cominciare dalle basi: evitare che Sant’Agostino diventi un luna park, dove ogni volta il pubblico senza sapere se, oltre alle mostre d’arte contemporanea, avrà la possibilità d’ammirare anche le vestigia del passato, con gli spazî giusti, le luci giuste, senza interferenze. La convivenza tra antico e contemporaneo non può prescindere da una riflessione sull’argomento.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).