“Le mostre blockbuster incoraggiano un approccio idiota nei confronti dell’arte. Pensiamo di aver la miglior occasione possibile per vedere un certo artista o un certo periodo storico-artistico, pensiamo che vedendo una mostra su Jackson Pollock o su Botticelli, conosceremo tutto su questi artisti, e avremo un’esperienza completa su di loro. Ma si tratta di un atteggiamento che ha sempre un che di pretenzioso e di falso”. Così si esprimeva, il primo gennaio del 2001, Jonathan Jones, giornalista e critico d’arte per il Guardian, in un suo articolo che, dati i contenuti, possiamo considerare ancora di stringente attualità.
Negli ultimi anni siamo stati letteralmente sopraffatti dagli eventi irripetibili, dalle ostentazioni di grandi capolavori, dalle opportunità che non avremo più. L’idea di radunare insieme accozzaglie di “capolavori” con il mero fine di stupire ed emozionare il visitatore, spesso ignaro che quelle opere, per esser lì alla mostra, hanno corso dei seri rischi, è un’idea vecchia, superata. Proviamo a immaginare, ci dice Jones, che alcuni capolavori come la Venere di Sandro Botticelli, la Tempesta di Giorgione e la Flagellazione di Piero della Francesca, lascino le loro sedi per essere radunate in un unico luogo. È già successo in passato, per l’esattezza nel 1930, quando questi capisaldi della nostra storia dell’arte, assieme a molti altri dipinti, furono spediti su una nave mercantile diretta in Inghilterra, per una mostra che si tenne a Londra e che fu fortemente voluta da Benito Mussolini. Il duce voleva utilizzare l’arte come strumento di propaganda, e ordinò ai musei di prestare opere che altrimenti non si sarebbero mai mosse dalle sale in cui si trovavano. Oggi, fortunatamente, ci siamo lasciati alle spalle il fascismo, ma l’idea di spostare le grandi opere d’arte per mostre-show ogni tanto balena nella mente di qualche funambolico curatore.
Le mostre blockbuster si fondano su una logica sempre riconoscibile, ormai anche abbastanza facilmente. Sono precedute da massicce campagne di marketing che presentano la mostra come un evento unico, e che attirano il pubblico instillandogli il bisogno urgente di visitare la mostra, perché altrimenti quel capolavoro, ora esposto in una città di provincia italiana, se ne andrà per far ritorno negli Stati Uniti, o in Francia, o in Inghilterra. E il presentare la mostra come un qualcosa di urgente è, secondo Jones, la più grande bugia, soprattutto laddove il marketing della mostra insiste sulle emozioni: non si può metter fretta all’amore per l’arte, l’amore è un sentimento che ha bisogno dei suoi tempi.
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Riconosciamo le mostre blockbuster anche perché propongono sempre gli stessi artisti. Prendiamo un artista di cui parla anche Jones nel suo pezzo: Jan Vermeer. Un artista di cui si conosce poco, un artista difficile, ma anche un artista capace di far presa sul pubblico in modo diretto, con immagini di cui tutti sono in grado di dare una prima, semplice lettura fondata sul mero dato visivo. Un ritratto, una scena di genere o un paesaggio, del resto, si prestano molto meglio a una mostra blockbuster rispetto a una complicata scenografia mitologica, o a un episodio religioso, perché per essere interpretati richiedono uno sforzo di gran lunga minore, perché presentano situazioni o contesti facilmente riconoscibili, o perché ricordano situazioni familiari all’osservatore. E non è un caso se tutti gli artisti su cui tornano le mostre blockbuster (gli impressionisti, Caravaggio, Van Gogh, Gauguin... ) sono quelli che meglio riescono a instaurare un rapporto diretto con chi guarda l’opera.
Ma torniamo su Vermeer. Per comprendere la portata del fenomeno delle mostre blockbuster, un interessante esercizio è quello di contare quante volte il nome di Vermeer è ricorso nel titolo di una mostra, tenutasi in qualsiasi parte del globo, negli ultimi cinque anni. Escludendo la recentemente nata categoria delle mostre da una sola opera, il nome di Vermeer è comparso nei titoli di quindici esposizioni dal 2010 a oggi. Tutte mostre utili e necessarie? C’è davvero bisogno di allestire almeno tre mostre all’anno che parlino di Vermeer? E che, peraltro, spesso non aggiungono granché di nuovo rispetto a ciò che già si sapeva sull’autore, oppure non riescono a costruire un percorso coerente che faccia uscire il visitatore con qualche informazione in più rispetto a ciò che sapeva prima di entrare nella sede espositiva? Ecco perché è quindi falso presentare una mostra blockbuster come un qualcosa di urgente e irripetibile: perché è altamente probabile che quella mostra altro non sia che la ripetizione di uno schema già collaudato.
Senza contare poi che tutto questo marketing massiccio che spaccia per imperdibili mostre sempre uguali, nella forma e nella (poca) sostanza, rischia di far passare in secondo piano quelle mostre che sono veramente imperdibili, o perché mostre di ricerca che aggiungono nuovi capitoli nella conoscenza di un artista o di un periodo o di un movimento, oppure perché divulgano nuove scoperte, o ancora perché propongono percorsi didattici e divulgativi interessanti e approfondiscono aspetti della produzione di un artista (o aspetti di un periodo storico-artistico, o di un tema) che altrimenti il pubblico non avrebbe modo di approfondire in modo altrettanto comodo e con una serie coerente di opere che possano sostenere una tesi o promuovere un progetto di divulgazione. Insomma: ci sono anche tante ottime mostre, di qualità, ma passano spesso in secondo piano e fanno meno discutere rispetto a quelle mostre blockbuster che hanno poco o niente da dire.
Si è, in sostanza, diffusa la tendenza che vede trasformare l’arte in un prodotto di intrattenimento. Operazione che, intendiamoci, non è certo riprovevole di per sé. Ci sono tanti ottimi prodotti di puro intrattenimento, specialmente laddove tali prodotti hanno scopi educativi. Tanto che è stato coniato il nuovo termine di edutainment per indicare questa categoria di prodotti culturali. Pensiamo per esempio alle mostre realizzate con riproduzioni virtuali, che permettono di fare viaggi multimediali attraverso le opere di un artista, oppure a quelle esposizioni che integrano ricostruzioni di brani d’archeologia. L’argomento edutainment è vasto, è già oggetto di studi specialistici, e merita approfondimenti che esulano dai fini di questo post. Quindi, tornando all’arte come intrattenimento, c’è da domandarsi: è corretto far passare come cultura un prodotto che è con tutta evidenza mero intrattenimento? E in secondo luogo, è corretto mettere a rischio opere d’arte, spesso delicate, per prodotti di intrattenimento?
Tutto ciò inoltre ha delle profonde ripercussioni sul nostro approccio nei confronti dell’arte. Le mostre blockbuster, dice ancora Jones, favoriscono un’esperienza dell’arte che è veloce, istantanea, e soprattutto che è organizzata dalla regia dell’occhio di qualcun altro. Soprattutto laddove le campagne di marketing che promuovono le mostre blockbuster fanno leva, come si è detto prima, sulle emozioni. Che dovrebbero essere un fatto privato, personale: come è possibile pensare che si possa creare una mostra confezionata col fine di emozionare? Perché un’opera che può emozionare me, può far provare indifferenza a qualcun altro, e viceversa. Non è possibile standardizzare le emozioni, e probabilmente il tentativo riesce solo laddove non esiste un vero amore per l’arte, e dove c’è spazio per far sì che questo bisogno di emozioni sia indotto e non reale. E un’esperienza veloce, istantanea, e diretta da qualcun altro, se riguarda l’arte è un’esperienza che non val la pena provare.
Dobbiamo riscoprire, dice Jones, la capacità di guardare al nostro rapporto con l’arte come a una storia d’amore: una storia d’amore è un qualcosa per cui si fanno sforzi e tentativi, è un qualcosa che dura nel tempo, ed è quanto di più lontano dalla logica del “tutto e subito”. Il rapporto con l’arte dev’essere fatto di piacere, di sorprese, di nuove scoperte, anche piccole e limitate alla nostra esperienza, ma comunque nostre. Un’esposizione blockbuster orchestrata, che gioca sulle emozioni preconfezionate, è un prodotto che annulla questi piaceri.
Del resto, è vero che tutti debbano essere messi nelle condizioni di poter comprendere l’arte, nel modo più semplice possibile. Ma è anche vero che approcciarsi all’arte è difficile, perché è l’arte che non è una materia facile. L’arte è per tutti, lo diciamo sempre anche noi qua su Finestre sull’Arte: ma chi si avvicina all’arte deve sapere che l’arte è un qualcosa per cui vale la pena spendere un po’ di tempo. E se la passione per l’arte trova terreno fertile, ci saranno i presupposti affinché cresca sempre di più e non se ne vada più via.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).