Se ci sentiamo toccati sui monumenti fascisti, forse abbiamo ancora qualche conto in sospeso


Riflessione su monumenti fascisti, eredità del nostro passato: abbiamo riflettuto abbastanza, o abbiamo ancora qualche conto in sospeso?

Trovare una risposta unica alla domanda lanciata dal già ampiamente discusso articolo del New Yorker firmato da Ruth Ben-Ghiat, che si chiedeva per quale motivo in Italia esistano ancora così tanti monumenti del ventennio fascista, è impresa praticamente impossibile, dacché occorrerebbe ripercorrere la storia d’ognuna delle singole vestigia del regime che ancora rimangono intatte. Per rispondere al quesito si può però partire da una necessaria premessa storica: in Italia, la defascistizzazione avanzò in modo piuttosto confuso e caotico, e senza rispondere ad alcun sistematico coordinamento, con la conseguenza che il processo incontrò non poche difficoltà, non riuscì a essere veramente incisivo (anche per il fatto che molti funzionarî coinvolti dalla defascistizzazione, che doveva riguardare tutti gli aspetti della sfera pubblica, dalla scuola all’amministrazione, dall’esercito alla magistratura e via dicendo, erano loro stessi implicati col regime), e sul piano politico sperimentò un’importante battuta d’arresto con l’amnistia Togliatti al punto che, a detta della stragrande maggioranza degli storici, gli esiti furono pressoché fallimentari.

La stessa mancanza d’organizzazione, unita a situazioni contingenti, potrebbe essere additata come uno dei motivi per i quali molte testimonianze del fascismo fanno ancora oggi bella mostra di sé. Occorre tuttavia sottolineare come l’articolo di Ruth Ben-Ghiat parta da una premessa alquanto fallace, dal momento che l’autrice include, nella più ampia categoria dei "monumenti", tanto gli edifici quanto le statue, le lapidi, e forse financo l’odonomastica, considerato che la studiosa si domanda per quali ragioni la Francia abbia cambiato i nomi alle strade intitolate al maresciallo Pétain mentre “l’Italia ha permesso ai suoi monumenti fascisti di sopravvivere indisturbati”. Posto che, ovviamente, neppure in Italia esistono più vie o piazze con intitolazioni riconducibili al fascismo, è necessario ricordare che, nel corso della storia, i regimi e le civiltà che si sono avvicendate nel corso delle epoche hanno sempre preferito riappropriarsi degli edifici preesistenti, piuttosto che cancellarli. Un edificio può essere rivestito d’un significato simbolico, ma ha anche una funzione pratica: tolto il simbolo, rimane la funzione pratica (assunto che non vale per statue e lapidi). A ciò s’aggiunga il fatto che, all’epoca, l’Italia usciva devastata da una guerra mondiale che aveva lasciato dietro di sé macerie ovunque, ragion per cui le risorse economiche di cui il paese disponeva al tempo furono impiegate per ricostruire, più che per demolire. L’opera di ricostruzione che passò anche attraverso gli edifici del regime, con tutto ciò che ne conseguì (a proposito del riuso dei monumenti dell’Eur, un fermo avversario del fascismo come Bruno Zevi scrisse, con pungente sarcasmo, che "presso una quinta di pilastri alti cinque piani, concepita per inquadrare parate militari dopo l’occupazione non solo di Parigi e Alessandria, ma anche di Città del Capo e Pechino, si legge un’insegna: pasticceria o tavola calda"), comportò necessariamente quella riappropriazione che è un tratto tipico della storia dell’arte e della storia dell’architettura, raggiunto mediante passaggi più o meno raffinati.

Uno dei più illustri storici del fascismo, Emilio Gentile, ha avanzato un paragone con le guerre di religione (in tal senso, il Pantheon è del resto uno degli esempî più illustri di riuso): "un sentore di rito religioso era presente nella defascistizzazione simbolica di Roma, come era stato presente nella fascistizzazione simbolica della capitale e nei monumenti della nuova Roma di Mussolini, il fascismo di pietra, in cui si materializzarono i miti della religione fascista. Come in ogni guerra di religione, anche nella guerra fra religioni laiche, la religione che emerge vittoriosa cancella i simboli della rivale sconfitta, e se non può cancellarli, li battezza con nuovi nomi e li incorpora nel proprio culto. Così è avvenuto quando l’antifascismo ha soppiantato la religione fascista: il Ponte Littorio è stato incorporato nella religione antifascista con il nome di Giacomo Matteotti, assassinato dai fascisti nel 1924; al giovane antifascista Piero Gobetti, morto in esilio nel 1926 dopo aver subito a Torino ripetute aggressioni squadriste, è stato intitolato, nei pressi della città universitaria, il Viale Libro e Moschetto, ispirato al motto pedagogico dettato dal duce alla gioventù fascista; il Viale dei Martiri Fascisti è stato riconsacrato col nome del sindacalista Bruno Buozzi, fucilato nel 1944 dai nazisti. E per la legge del contrappasso, la sede del ministero dell’Africa italiana è divenuta la sede della FAO, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’agricoltura e l’alimentazione". Lo stesso processo di riuso (a cui segue necessariamente una decontestualizzazione che di fatto dovrebbe svuotare gli edifici d’ogni significato primigenio) interessò anche la Germania nazista: la stessa “legge del contrappasso” cui si riferisce Gentile interessò anche costruzioni hitleriane, come il Führerbau di Monaco di Baviera, che da sede amministrativa del regime diventò centro di smistamento, verso i paesi d’origine, delle opere d’arte rubate dai nazisti. Ma si pensi anche, molto semplicemente, a un fatto notissimo agli italiani, ovvero la finale dei mondiali di calcio del 2006 che vide l’Italia vittoriosa ai rigori sulla Francia: fu giocata in quello stesso Olympiastadion di Berlino fortemente voluto da Hitler per le Olimpiadi del 1936. Un paio di casi per evidenziare che la sopravvivenza degli edifici è un normale fatto storico e non va confuso con lo smantellamento di statue, lapidi, targhe e iscrizioni, operazione decisamente più agevole e che presenta difficoltà pratiche ed economiche di gran lunga inferiori rispetto a quelle che comporterebbe l’abbattimento di una costruzione architettonica.

Iscrizione sulla Torre Civica di Sermide (Mantova). Ph. Credit Finestre sull'Arte
Iscrizione sulla Torre Civica di Sermide (Mantova) con la scritta “fascista” abrasa. Alle ultime elezioni del piccolo comune lombardo, una lista con il fascio littorio nel simbolo è entrata in consiglio comunale. Ph. Credit Finestre sull’Arte

Non si trattò neppure d’un discorso di sensibilità estetica volta a salvaguardare le maggiori eminenze artistiche realizzate sotto il regime, dato che gli smantellamenti non risparmiarono opere di alcuni dei più insigni artisti dell’epoca: il cosiddetto “Bigio” di Arturo Dazzi fu rimosso e stivato in un magazzino comunale di Brescia, il busto di Mussolini realizzato da Adolfo Wildt che ornava la Casa del Fascio di Milano (e di cui oggi sopravvivono copie) fu distrutto, ironia della sorte, a colpi di quel piccone divenuto metafora degli abbattimenti d’interi quartieri che il regime mise in atto per rinnovare l’urbanistica del paese, e ancora le preziose decorazioni interne della Casa del Fascio di Como, opera di Mario Radice e tra i primi interventi d’arte astratta applicata a un edificio pubblico, furono anch’esse eliminate dopo la Liberazione, e la stessa Casa del Fascio, capolavoro architettonico di Giuseppe Terragni, sarebbe stata demolita negli anni Cinquanta, se contro l’operazione non si fosse levato un coro di critici (tra i quali il summenzionato Bruno Zevi) desiderosi di salvaguardare uno dei massimi esempî del razionalismo italiano.

Per contro, è rimasto intatto o quasi un gran numero di pitture murali e di affreschi che, trovandosi all’interno di edifici, sono riusciti a passare pressoché inosservati e dunque a evitare la naturale iconoclastia che seguì la caduta d’un regime totalitario. O tutt’al più sono stati emendati dei simboli più appariscenti. Tuttavia, anche testimonianze vistose sono riuscite ad attraversare indenni il corso degli eventi. Si pensi, per esempio, alla grande iscrizione che campeggia sulla facciata del Palazzo della Civiltà Italiana all’EUR, quella che celebra gli italiani come “popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori”: è una frase tratta dalla proclamazione della guerra all’Etiopia. E fissata sulla facciata d’un monumento col trionfalismo tipico del ventennio. Oppure all’obelisco del Foro Italico, retaggio rimasto in piedi in quanto il complesso, in piena guerra, fu occupato dall’esercito americano che, a conflitto terminato, lo riconvertì in centro di riposo per i soldati per poi cederlo alle autorità locali (vi fu installata la sede del CONI) quando, evidentemente, la rimozione dei simboli fascisti non era più un fatto urgente o prioritario.

Al netto dell’equivoco di fondo e di certe boutade che Ruth Ben-Ghiat si concede (come l’episodio del “viva il Duce” al pub, privo di qualunque carattere argomentativo, ma efficace per far presa sul pubblico statunitense), è possibile considerare l’articolo non come una richiesta di ripresa dell’opera di smantellamento (sarebbe ridicolo, e l’autrice stessa, in una seguente intervista, ha specificato che non era quello il suo intento: ovviamente, le tante accuse di rinnovata iconoclastia che le sono state rivolte altro non sono che un fraintendimento che sfiora l’analfabetismo funzionale), bensì come un invito a una riflessione sul nostro passato e, soprattutto, sulle tensioni alle quali ancora quel passato sembra costringerci: se un intervento come quello di Ruth Ben-Ghiat stimola risposte stizzite, che hanno travisato il messaggio del contributo e si sono preoccupate più di rinfacciare alla studiosa statunitense i mali che affliggono il suo paese (come se uno straniero non avesse il diritto d’esprimere un parere su ciò che succede fuori dalla sua terra d’origine) che di comprendere i motivi che l’hanno portata a scrivere il suo pezzo, evidentemente significa che non abbiamo fatto del tutto i conti col nostro passato. Altrimenti non si spiegherebbe perché, a settant’anni di distanza, in molti non hanno ancora cominciato a considerare quei monumenti come semplici residui di un’epoca passata, scevri d’ogni connotato politico riferibile al contesto presente, ma pregni d’un significato storico dal quale trarre ponderate e profonde considerazioni. E, beninteso, non ci si riferisce a quei pochi che, imboccata la via d’un mussolinismo nostalgico, del tutto inattuale ma comunque non privo di rischi, ritengono che quei simboli siano ancora capaci di parlare: il problema è più sottile.

Volendo banalizzare, la decontestualizzazione dei monumenti d’epoca fascista rischia, da un lato, di dar adito a una sorta di mitizzazione che, lungi dal riportare in auge un fascismo simile a quello del secolo scorso (evenienza che appare improbabile e anacronistica, benché certi episodî d’attualità recenti debbano comunque far riflettere), potrebbe lasciar trapelare l’idea d’una passata grandeur dell’Italia che fu tale solo in apparenza ma che ancora solletica gli istinti di gruppi politici populisti o dell’ultradestra che, anche senza passare attraverso la rilettura dei monumenti, fanno leva sulla base emozionale dei rispettivi elettorati (e la stessa Ben-Ghiat paventa, non del tutto a torto ad avviso di chi scrive, il ritorno d’un nuovo fascismo, sotto forme diverse: lo stesso vale per altri osservatori), mentre dall’altro, evitare d’affrontare il problema equivale a recidere i legami con la storia, operazione parimenti pericolosa. Quale atteggiamento assumere, in definitiva? Per nuove campagne di rimozione dei simboli, siamo ormai fuori tempo massimo. È necessaria, semmai, una presa di coscienza del problema. E soprattutto, è assolutamente necessario insistere sull’educazione e sulla didattica, riflettendo su commenti mirati, su percorsi espositivi, su centri di documentazione e di ricerca, su programmi scolastici, su mostre e musei che possano offrirci un aiuto concreto per affrontare con maggior serenità una riflessione approfondita sul nostro passato recente. E l’efficacia di uno sforzo teso a rileggere in modo critico il nostro passato e ad allontanare il rischio di nuovi fascismi sarà ovviamente maggiore se ci sarà una politica in grado di mettere le persone al centro del proprio operato.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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