Provo un profondo imbarazzo quando leggo certi giudizî affrettati e superficiali sull’ondata di proteste del movimento Black Lives Matter che ha investito i paesi anglosassoni e, in misura minore, il resto del mondo occidentale. Trovo che sia naturale: dalla nostra posizione di bianchi benestanti (e magari maschi ed eterosessuali) non possiamo immedesimarci nella rabbia di chi sta manifestando o di chi arriva al punto di abbattere i monumenti controversi. Credo, molto francamente, che per noi sia impossibile camminare con le stesse scarpe di chi, per secoli, ha subito soprusi, discriminazioni, ingiustizie, e tuttora continua a soffrire situazioni d’iniquità e disparità. Abbiamo però il dovere di comprendere le ragioni di questa rabbia, di studiarla, analizzarla, descriverla, raccontarla, e possibilmente sostenerla, perché ritengo sia un impegno ineludibile per avere una società più giusta. È una rabbia che però nasce da ragioni assieme storiche e contingenti, che sono tremendamente complesse e intricate, variano di paese in paese, di città in città, e riguardano aspetti diversi delle nostre società: il discorso sui monumenti non è che uno dei tanti livelli sui quali si sta affrontando la discussione.
Una discussione che andava avviata tempo fa, che è stata a lungo trattata con indifferenza: adesso però le negligenze del passato presentano un conto che prende la forma d’imbrattamenti, devastazioni, abbattimenti. E se vediamo statue a pezzi o gettate nei laghi o nelle acque dei porti, penso che la colpa sia soprattutto di chi per troppo tempo ha trascurato la riflessione pubblica sul ruolo dei monumenti nella società contemporanea. Questo vale anche per l’Italia: forse non assisteremo alle scene che abbiamo osservato negli Stati Uniti e nel Regno Unito, perché viviamo in un contesto totalmente diverso, ma il fatto che anche qui siano già cominciati i primi imbrattamenti e siano partite le prime richieste di rimozione, dovrebbe spingerci a riflettere sul fatto che il nostro paese non può credere che i nostri monumenti siano al sicuro. È una discussione che anche ora però stentiamo ad affrontare ad alto livello e sulla quale comunque scontiamo il ritardo colpevole della politica e dai media generalisti, che da anni inchiodano il dibattito pubblico alla cronaca economica o a quella giudiziaria, senza scostarsene, e ritenendo la cultura, al più, un’ancella del turismo.
Non che le occasioni di discussione siano mancate, negli ultimi anni: basti però rammentare come i mezzi di comunicazione mainstream abbiano completamente snobbato l’ultima Biennale di Venezia, dove il tema razziale era tra gli assi portanti della manifestazione, basti ricordare come è stata trattata l’improvvida e demenziale proposta di cancellare il nome di Mussolini dall’obelisco del Foro Italico, trattata al più come argomento buono per qualche flame internettiano subito dimenticato, basti citare un’intera Biennale Internazionale di Scultura di Carrara (quella del 2010), centrata proprio sul tema dell’eredità dei monumenti, e che per la più parte dei giornali è stata al massimo una voce da inserire nell’elenco puntato di cose da vedere nel fine settimana.
Queste mancanze, che riguardano l’Italia come il resto del mondo, adesso si tramutano negli esiti più violenti della protesta. È dunque facile (e forse anche ipocrita) bollare come teppisti e vandali i gruppuscoli di manifestanti che si stanno accanendo sulle statue negli spazî pubblici, e da cui pure parte del movimento Black Lives Matter s’è dissociata: è un momento di forte emotività e di tensione montante, e quello che possiamo fare è cercare di capire le ragioni dei gesti, che non sono tutti identici e non maturano tutti nei soliti contesti: alcuni (come gl’imbrattamenti di Torino dello scorso fine settimana) sono gesti estemporanei e gratuiti, altri invece, come la demolizione del monumento di Edward Colston a Bristol (che peraltro è già stato ripescato dalle acque del porto della città inglese e sarà musealizzato) sono frutto di un’esasperazione che arriva dopo tante richieste e tante sollecitazioni. Il gesto è pertanto comprensibile, ma gli osservatori non dovrebbero scagionarlo. In altri termini, quello che non possiamo fare è giustificare gli abbattimenti (e, di conseguenza, legittimare un atto violento), come stanno facendo nelle ultime ore molti intellettuali d’una sinistra che, a furia di posizioni avventate e massimaliste dei suoi opinion maker, condanna se stessa a una sempre più mesta irrilevanza. Se vogliamo ancora vivere in uno spazio che rispetti le regole del consesso civile, non possiamo dare agio alla sovversione, perché di questo in fondo si tratta.
L’abbattimento del monumento a Edward Colston: il momento in cui la statua di bronzo viene gettata nelle acque del porto di Bristol |
Torino, il monumento a Vittorio Emanuele II a Palazzo di Città imbrattato |
Specialmente se poi gli abbattimenti si reputano un “gesto possibile”, come ha scritto Roberto Saviano, quando il monumento in questione viene considerato “una statuaccia del 1895”: “spesso l’interesse storico di un edificio o di una statua”, giustifica Saviano, “è sufficiente per far perdere il valore simbolico intrinseco lasciando solo il valore di testimonianza e studio”. E quindi, argomenta lo scrittore, il Colosseo, data la sua enorme rilevanza storica, può stare tranquillamente al suo posto, nonostante tutti sappiamo che “nella sua arena si uccidevano persone per divertimento”. Quello di Saviano, che non è uno storico dell’arte e (almeno a mia memoria) non si è mai occupato di storia dell’arte, è però un ragionamento che non tiene conto del fatto che l’interesse storico non è immoto nel tempo e, di converso, non tiene conto del mutamento del significato di un’opera nel corso dei secoli (oppure lo fa, ma si contraddice nel momento in cui ritiene che la statua di Bristol non sia interessante). Si tratta di un concetto già riconosciuto nell’Ottocento da Alois Riegl, che distingueva tra i monumenti eretti per pure finalità celebrative (la statua di Colston) e le opere realizzate per rispondere a finalità pratiche, ma che acquisiscono un notevole valore storico col trascorrere del tempo (il Colosseo). Un primo problema si manifesta pertanto nel momento in cui il monumento intenzionale acquisisce, col tempo, anche un valore storico, come è nel caso della “statuaccia” di Bristol, classificata come Listed building, cioè come monumento sottoposto a vincolo d’interesse culturale, e quindi protetto dagli organi preposti alla tutela. Un’ulteriore dimostrazione del fatto che, tolti pochi esempî sui quali tutti son d’accordo, il nostro concetto di “capolavoro” o di “interesse” è decisamente labile, così come in maniera varia e differente può rispondere a un’opera d’arte la nostra sensibilità, più sviluppata per alcuni, e meno marcata per altri.
Un altro problema sta nell’impossibilità di scindere il valore storico e simbolico di un’opera dal suo valore artistico, ragion per cui l’importanza simbolica di un monumento non decresce in misura proporzionale all’incrementare del suo valore estetico (se è in tal senso che occorre intendere il peggiorativo affibbiato da Saviano alla scultura di Bristol), e viceversa: pertanto, il fatto che l’anfiteatro Flavio sia una delle più significative testimonianze architettoniche dell’antica Roma non rende più sopportabile sapere che lì tante donne e tanti uomini perdevano la vita per il diletto della folla. In altri termini, non possiamo stabilire liste di monumenti da abbattere o da lasciare in piedi sulla base della loro valenza estetica. Del resto, sarà opportuno ricordare che Riegl era anche consapevole del fatto che il cosiddetto “valore artistico” è una costruzione di chi guarda l’opera oggi, e di conseguenza anche questo è un valore che potrebbe modificarsi col trascorrere del tempo. Tutto ciò senza calcolare che in casi come questi si guarda più al gesto che al valore dell’opera, ragione per la quale una folla di facinorosi, al culmine d’una manifestazione, potrebbe non badare al fatto di trovarsi di fronte a un’opera dozzinale o a un capolavoro (gl’iconoclasti tendono a tener conto esclusivamente del simbolo).
Non possiamo, dunque, ragionare sui simboli incarnati dai monumenti perdendo di vista i contesti e senz’affrontare la discussione in tutta la sua ramificata complessità, che qui ho tentato d’introdurre in maniera pur rapida e grossolana: porre la questione solo dal punto di vista dei simboli significa avallare una deriva pericolosa che può legittimare l’abbattimento di qualsiasi opera e porre sullo stesso piano opere lontane nel tempo e per obiettivi. A Bristol s’è manifestato davanti alla statua di Colston, un mercante di schiavi celebrato in quanto benefattore e filantropo, dacché con i sozzi proventi dei suoi commerci d’esseri umani finanziò la costruzione di scuole, ospedale, ricoveri per anziani, e tuttora, nella città portuale, ci sono strade, edifici, persino locali che portano il suo nome. A Livorno, domani, si manifesterà davanti al gruppo dei Quattro Mori di Pietro Tacca, un capolavoro bronzeo del primo Seicento, l’opera più vicina alla sensibilità berniniana del suo tempo in Toscana: è un’opera di cui s’è molto parlato, dal momento che a una prima occhiata ci disgusta, com’è normale che sia, veder quattro uomini di colore incatenati sotto a un maschio bianco trionfante. Ma è anche un’opera che con la statua di Colston non ha niente a che vedere, dal momento che è stata realizzata per ornare la base al monumento di Ferdinando I de’ Medici e omaggiare la sua vittoria sui corsari barbareschi, raffigurati come schiavi in catene perché tale era al tempo la fine che facevano le “prede” delle imprese corsare dei Cavalieri di Santo Stefano, ma era anche il destino degli abitanti delle coste italiane che venivano catturati dai corsari musulmani e a loro volta ridotti in schiavitù nelle terre d’origine dei pirati.
Questa è la complessità che rischiamo di perdere se ci rifiutiamo d’osservare le opere sotto tutti gli aspetti. La semplificazione rischia di farci correre un serio pericolo, quello della ripulitura della storia. Abbattare un monumento significa anche cancellare ciò ch’è stato: e allora sarà opportuno ribadire quello che scrivevamo lo scorso anno su queste pagine a proposito dell’obelisco del Foro Italico, dato che il senso di fastidio nei confronti di quest’opera, indubbiamente scomoda, continua a perseguitarci. Sul Manifesto di oggi, Alessandro Portelli ha scritto parole che si potrebbero avvertire come contraddittorie, ricordando giustamente che i monumenti e le opere d’arte mutano di senso col mutare dei tempi storici, ma al contempo asserendo che l’obelisco del Foro Italico, essendo un monumento eretto per trasmettere “un messaggio”, impone solo la sua memoria su tutte le altre. Ma questa imposizione è impossibile nel momento in cui la storia ci ricorda cosa il fascismo è stato: il problema, semmai, è rendere evidente il trascorso. E allora, nell’articolo sull’obelisco, ricordavamo che siamo fuori tempo massimo per campagne di rimozione dei simboli, ma siamo in tempo per una seria presa di coscienza del problema e per insistere “sull’educazione e sulla didattica, riflettendo su commenti mirati, su percorsi espositivi, su centri di documentazione e di ricerca, su programmi scolastici, su mostre e musei che possano offrirci un aiuto concreto per affrontare con maggior serenità una riflessione approfondita sul nostro passato recente”: in sostanza, siamo in tempo per una riflessione critica nel nostro passato. Dovremmo, in sostanza, preoccuparci di integrare quello che c’è, piuttosto che manifestare le intenzioni di cancellare.
La statua di Ferdinando I di Giovanni Bandini e i Quattro Mori di Pietro Tacca a Livorno. Ph. Credit Giovanni Dell’Orto |
L’obelisco del Foro Italico |
La mappa dell’Africa alla Casa della Gioventù italian del littorio di Roma |
In questo senso, trovo molto pregevole la riflessione di Igiaba Scego (che in quanto italiana di origine somala dovrebbe sentirsi infastidita più di chiunque altro dalla presenza di quell’obelisco), che in un suo articolo su Internazionale ha ricordato la posizione di Gianni Rodari: “si vogliono lasciare le scritte mussoliniane? Va bene. Ma siano adeguatamente completate. Lo spazio, sui bianchi marmi del Foro Italico, non manca. Abbiamo buoni scrittori per dettare il seguito di quelle epigrafi e valenti artigiani per incidere le aggiunte”. Naturalmente non dobbiamo rifare il Foro Italico, ma dobbiamo inquadrarlo in una narrazione diversa, come è stato fatto nel 2019, ricorda sempre Igiaba Scego, alla Casa della gioventù italiana del littorio, all’interno della quale si trova una mappa dell’Africa con segnati solo i possedimenti italiani e marcata con la M di Mussolini. “Quella mappa”, ha scritto Scego, “lascia interdetti per la sua ferocia, ma picconarla sarebbe un grande errore, perché solo osservandola si capiscono tante cose della nefasta visione che il fascismo aveva del mondo, soprattutto di quei popoli che erano malauguratamente finiti sotto il suo dominio. Quella mappa vuota ci parla ancora oggi delle violenze che si sono abbattute sui corpi dei colonizzati”. Allora, un collettivo di studiose postcoloniali e femministe, lo scorso anno, “l’ha inondanda di frasi, proiettate o messe lì attraverso dei cartelli, e parallelamente ha organizzato dibattiti pubblici. Il vuoto è stato riempito con domande come: la mia pelle è un privilegio? Chi è civile? Chi è superiore? Gli italiani sono bianchi? Che lingua parlano i tuoi fantasmi? Dov’è la Somalia? Dov’è L’Etiopia? Dov’è l’Eritrea? Chi può parlare? La patria è donna? Perché questa mappa dell’Africa è vuota?”.
Lo stesso si potrebbe fare dunque con le eredità scomode del passato: non cancellarle né rimuoverle, ma contestualizzarle, arricchirle, raccontarle in maniera diversa, ovviamente valutando caso per caso, perché il discorso è troppo complesso per esser applicato nella solita maniera a tutti i monumenti. Di sicuro, l’abbattimento non è la soluzione. In questi giorni s’è molto discusso del monumento a Indro Montanelli, eretto nel 2006 ai bastioni di Porta Venezia a Milano. In questo caso potremmo anche far decadere tutti i ragionamenti sin qui affrontati, dal momento che si tratta di un’opera recentissima. Ci sono però resistenze, anche da parte del centro-sinistra: cosa fare allora per contestualizzare l’opera di un grande giornalista che però non s’è mai pentito d’aver abusato della sua posizione di maschio colonizzatore per fare, lui venticinquenne, i suoi sordidi comodi con una bambina eritrea costretta al madamato? Non cancellarla, non imbrattarla, e neanche rimuoverla per metterla in un museo: come suggerisce Igiaba Scego, perché non affiancare alla statua di Montanelli un’altra opera che ricordi le violenze che subiscono tutte le bambine vittime di abusi sessuali?
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).