“Gran traduttor dè traduttor d’Omero”, scriveva Ugo Foscolo a proposito del letterato Vincenzo Monti. Ecco il pensiero che mi è venuto in mente a proposito di Miart, Edizione 2024.
Nel dedalo del percorso tra i vari padiglioni le gallerie non sono facili da individuare, anche perché la mappa della fiera è redatta con un corpo talmente piccolo che, anche per me che porto gli occhiali h24, risulta difficile da decifrare. L’impegno c’è stato, non c’è dubbio. Abbiamo visto prove muscolari da parte di alcuni galleristi impegnati a dare il meglio di sé. Qualche presenza straniera c’era.
Quello, però, che da critica e storica dell’arte osservo, è il generale manierismo e citazionismo (e non mi riferisco allo storico movimento degli anni Ottanta) di diversi artisti, più o meno giovani, che lasciano intendere, ma non troppo, che si ispirano, come per fare un un omaggio, ai grandi della storia dell’arte moderna e contemporanea. Omaggio che però risulta, a volte, una specie di copia incolla nella totale spregiudicatezza, come se i visitatori fossero tutti appena alfabetizzati. Ma non siamo nell’Ottocento, siamo nel ventunesimo secolo, e ci si trova, proprio qua e là, a scegliere fior da fiore, l’artista di maggior respiro e con una reale spinta, per lo meno, alla ricerca. Non faccio un discorso generale, naturalmente.
Allora mi chiedo, c’è proprio poca materia del contendere, oppure le scelte sono fatte per strizzare l’occhio al mercato? Non sono certo una moralista, una fiera è una fiera, bisogna vendere. Ma in un momento storico come questo, proprio perché il mercato si trova ad essere meno brillante di quanto ci auspicheremmo, non varrebbe la pena di mostrare, come alcuni hanno fatto, un percorso anche culturale, quello che in gergo si chiama la linea, che poi corrisponde a un progetto identitario: chi sei e cosa fai?
Il caso, del tutto italiano, di esporre sempre gli stessi autori, per esempio, con poca fantasia e curiosità nei confronti di proposte anche alternative, o di talentuosi artisti che non si vedono spesso, neanche nei musei, fa pensare che si debba prendere un aereo o un treno per andare a vedere cosa succede appena fuori dallo stivale. Lungi da me l’esterofilia, ma ho la sensazione che si senta poco “l’aria del tempo”. Peccato, perché i visitatori sono tanti, Milano è diventata una città internazionale (forse lo è sempre stata) e uno sguardo un po’ più lungo non farebbe male.
P.S. Ad Art Basel, diversi anni fa (sembra trascorso un millennio) il gallerista Lucio Amelio cambiava tutti i giorni lo stand creando una sorta di personale di ogni artista della sua scuderia. Bei tempi.