Sulle mostre, parte 1. Ma è vero che in Italia non si fanno mostre di livello internazionale?


Negli ultimi giorni alcuni giornalisti hanno accusato l'Italia di non essere in grado di tenere il passo di altri paesi nella produzione di mostre importanti. Ma le cose stanno davvero così?

Nelle ultime settimane, l’intero panorama espositivo italiano s’è trovato, malgré lui, a dover subire i colpi del fuoco incrociato del Venerdì di Repubblica e de Il Foglio, usciti, a distanza d’una settimana l’uno dall’altro (il 14 e il 21 settembre) con due articoli che sostenevano la stessa tesi di fondo: nello specifico, secondo Antonella Barina (Venerdì) e Maurizio Crippa (Il Foglio), in Italia sarebbero sempre più rari appuntamenti importanti come la grande mostra Mantegna and Bellini, in corso alla National Gallery di Londra fino al 27 gennaio, e volta ad analizzare, per la prima volta in maniera tanto approfondita, gli stringenti rapporti tra i due pittori e cognati. Addirittura, si potrebbe pensare che per Venerdì l’argomento risulti alquanto urgente e preoccupante, dal momento che l’articolo era anche cover story del numero del 14 settembre, che in copertina recava un dettaglio colmo di pathos del Cristo morto tra due angeli di Giovanni Bellini, abitualmente conservato alla Gemäldegalerie di Berlino ma ora esposto alla rassegna londinese.

Scrive Barina: “il 1° ottobre aprirà alla National Gallery una delle più importanti mostre degli ultimi tempi, con prestiti eccezionali in arrivo, ed è iniziato l’allestimento. Mantegna e Bellini, curata da Caroline Campbell [...]. Un evento d’eccezione. Un singolare cortocircuito tra due giganti del Quattrocento italiano. Italiano, appunto. Perché questa sfida inedita avviene al di là della Manica anziché nelle terre che furono dei dogi e dei Gonzaga, dove i due artisti sono nati e svettati? Certo, il grosso dei loro dipinti è da tempo esule nel Nord Europa. Ma non basta. Dietro a questa esposizione londinese c’è anche una regia imponente: sei anni di lavoro (contro i due-tre di solito necessari per organizzare mostre anche importanti); molte decine di specialisti impegnati per anni in studi meticolosi delle opere, in trattative elaborate e pazienti con chi ha prestato i capolavori, in restauri, in patteggiamenti con le assicurazioni... E le regie grandiose richiedono fondi ingenti, produttori illuminati (pubblici e privati), macchine organizzative oliate alla perfezione... Così come il coraggio di non confondere qualità e spettacolo, valore scientifico e successo di pubblico. Spesso l’alchimia è riuscita anche in Italia. Oggi però meno di un tempo". E dalle colonne de Il Foglio le fa eco Crippa, che suggerisce al ministro dei beni culturali, Alberto Bonisoli, di domandarsi “come mai una mostra così prestigiosa, con prestiti eccellenti provenienti anche dall’Italia, sia stata organizzata da un’istituzione pubblica straniera”, e perché “il Mibac, o qualche grande museo italiano, da tempo non siano in grado di produrre eventi culturali di pari livello”.

Ora, affinché si possa argomentare in maniera consistente la tesi secondo cui all’estero si facciano mostre importanti in numero maggiore rispetto all’Italia, occorre provare due condizioni basilari (o almeno tentare di farlo). La prima: dimostrare che al di là delle Alpi esiste un numero schiacciante di mostre valide, utili, innovative, sostenute da progetti scientifici validi e da elaborati progetti di ricerca. La seconda: dimostrare che in Italia, al contrario, gli eventi veramente degni di nota latitano. E come corollario, sarebbe necessario tener conto delle differenze che intercorrono tra l’Italia e l’estero: Barina e Crippa fanno riferimento all’Inghilterra, dove le mostre più originali e importanti si tengono soprattutto presso musei grandi e accentratori, al contrario di ciò che avviene in Italia, paese in cui anche piccoli musei di provincia sono in grado di proporre al pubblico eventi d’elevatissimo interesse. Inoltre, dal momento che sarebbe del tutto impossibile concentrarsi sull’intera offerta d’Italia e d’Inghilterra, forse sarebbe il caso d’operare almeno dei confronti tra i musei principali. Ma di sicuro, basare il confronto tra l’Inghilterra e l’Italia su di un unico esempio, ovvero la mostra su Mantegna e Bellini della National Gallery, risulta giornalisticamente fuorviante, eticamente discutibile e dialetticamente ozioso. Più interessante sarebbe stato un giudizio più completo sul panorama espositivo italiano. Specie se, come nel caso di Crippa, s’invita il ministro a chiedersi perché mostre come Caravage à Rome al Musée Jacquemart-André di Parigi (una tra le tante rassegne su Caravaggio), “avvengano a Parigi e non nel territorio sotto la sua sovranità”: forse, al giornalista de Il Foglio è sfuggito che proprio lo scorso anno s’è tenuta a Milano una grande mostra su Caravaggio, per numero d’opere del grande lombardo anche superiore rispetto a quella parigina. E anche che arrivi come quelli della “ambitissima ‘Maddalena in estasi’, che secondo gli informati sarebbe segretamente proprietà di collezionisti milanesi” sono tutt’altro che rari in Italia, anzi: talora riescono pure a innescare polemiche, com’è accaduto a Brera lo scorso anno quando s’è esposta la cosiddetta Giuditta di Tolosa.

Una delle sale della mostra su Carlo Bononi
Una delle sale della mostra monografica su Carlo Bononi a Ferrara, Palazzo dei Diamanti, nel 2017. Ph. Credit Dino Buffagni

È poi vero che, nel complesso, l’offerta in Italia non sia così esaltante e, come ben suggerisce ai lettori Giovanni Agosti nello stesso numero del Venerdì, sarebbe opportuno lasciar perdere Frida Kahlo e compagnia, e “osare di più”. Tuttavia, pensare che andar per mostre in Italia significhi soltanto recarsi a visitare eventi preconfezionati che fanno leva sui soliti nomi di richiamo (da Frida Kahlo a Modigliani, da Picasso ad Andy Warhol), vuol dire anche fare un torto a tutti quegli istituti che, ogni anno, presentano mostre di ricerca d’assoluto spessore. Sarebbe interessante sapere se chi sostiene che in Italia non si facciano ottime mostre si sia recato, giusto per fare qualche esempio, in Umbria per visitare la mostra sul Trecento a Spoleto e dintorni, rassegna nata dalle approfondite ricerche d’un valentissimo storico dell’arte (Alessandro Delpriori) che al tema ha dedicato anni di studio, o in val d’Orcia per la meravigliosa mostra sul Cinquecento senese che introduceva anche alcune interessanti scoperte, o a Milano alle Gallerie d’Italia di piazza Scala per visitare la mostra che, partendo dal collezionismo secentesco, indagava le diramazioni del caravaggismo a Napoli e a Genova, o ancora a Roma per un’utilissima esposizione, ancora incentrata sul collezionismo, che ricostruiva, tra le varie situazioni, anche la storia delle origini della tutela in Italia, oppure a dare un’occhiata alle prime monografiche di Carlo Bononi, a Ferrara, e del Genovesino, a Cremona. Tutte validissime mostre di ricerca. E se si solleveranno obiezioni circa l’appeal internazionale dell’elenco appena scorso (che, per intenderci, è limitato all’ultimo anno solare), sarà utile ricordare che altre mostre d’eccezionale importanza, come la discussa mostra sull’arte italiana tra il 1918 e il 1943 di Milano, come quella sul Cinquecento fiorentino, o come la straordinaria prima monografica di Ambrogio Lorenzetti a Siena, hanno avuto una risonanza tutt’altro che trascurabile anche fuori dai confini italiani. E, ancora, se s’obietta che da noi le mostre di ricerca fanno meno visitatori rispetto alle mostre che puntano tutto sui grandi nomi, si potrà rispondere affermando che anche nel Regno Unito funziona allo stesso modo: nel 2017 le tre mostre più visitate oltre Manica sono state, in rigoroso ordine, la personale di David Hockney (che da noi è poco noto al grande pubblico, ma che da quelle parti è una superstar), la rassegna sui Pink Floyd e quella sugli espressionisti astratti (Jackson Pollock e compagnia). L’attrazione verso le mostre blockbuster non è un’esclusiva nostrana: e a quest’attrazione, tuttavia, si risponde con una scuola in grado di fare una sana educazione all’immagine e con una buona e corretta divulgazione. A livello politico, invece, occorrerebbe trovare modelli virtuosi. “A Ferrara”, sottolinea ancora Agosti, “una direttrice illuminata come Maria Luisa Pacelli usa occasioni popolari per pagarsi la facoltà di garantire approfondimenti su momenti meno noti della tradizione figurativa locale”. L’esempio è quello di Palazzo dei Diamanti.

Non è certo un mistero il fatto che il numero di mostre di ricerca sia correlato alla capacità e alla possibilità di finanziarle. Sempre sul Venerdì dello scorso 14 settembre, Tomaso Montanari, che sottolinea che “da noi non ci sono, se non raramente (e semmai sempre in coproduzione con musei stranieri), mostre davvero importanti” (e però poi due settimane dopo, sullo stesso giornale, giustamente elogia la monografica su Anton Maria Maragliano in preparazione a Genova: il panorama, del resto, non è così desolante), individua le cause della decadenza dell’offerta espositiva italiana nella “distruttiva assenza di investimenti sul patrimonio”. È sul tema delle risorse economiche che occorrerebbe sollecitare il ministro, più che sulla capacità d’allestire mostre di spessore (dacché gli istituti italiani ne sono perfettamente in grado): la più vistosa differenza tra l’Italia e l’Inghilterra sta probabilmente nel fatto che le mostre londinesi riescono ad attrarre importanti finanziamenti da parte di privati. La mostra Mantegna and Bellini è sostenuta da tre fondazioni come sponsor principali, da un’altra decina di soggetti che hanno fornito contributi aggiuntivi, e da altri che, specifica il colophon dell’esposizione, “hanno voluto rimanere anonimi”. La mostra su Ambrogio Lorenzetti a Siena contava su di un unico sponsor principale e su tre sponsor tecnici. È questo il più grande divario che ci divide dal mondo anglosassone. E se ci sono energie da spendere, occorre semmai incanalarle in modo sensato, ovvero per attirare investimenti privati, per migliorare l’efficienza di quelli pubblici, per mettere a punto modelli efficaci, e per incentivare l’educazione.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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