Ma di Venezia ce ne frega davvero qualcosa?


Di Venezia ci interessa ancora qualcosa? Riflessioni a margine della drammatica marea che ha colpito la città nella notte tra il 12 e il 13 novembre.

Nel lungo elenco di editoriali che in queste ore tutti i quotidiani hanno dedicato al dramma di Venezia, non s’è fatta menzione d’un fatto che risale all’inizio di quest’anno: il 31 gennaio, il Ministero dei Beni Culturali, con apposito decreto, istituiva il vincolo di notevole interesse culturale su Canal Grande, bacino di San Marco, canale di San Marco e canale della Giudecca. Un fatto di portata rilevante e non soltanto per Venezia, dacché, per la prima volta, lo Stato notificava un sistema di vie di comunicazione acquatiche. Di rimando, la giunta del Comune di Venezia approvava una delibera per avviare un ricorso al Tar contro i provvedimenti ministeriali: si riteneva infatti che il ministero avesse invaso in maniera “inutile e inefficace” le competenze sulla tutela degli interessi dei residenti che dovrebbero invece essere attribuite al Comune. Il compianto Edoardo Salzano, che alla salvaguardia di Venezia ha dedicato gran parte della sua vita, interpretava la mossa del Comune come un suo opporsi alla tutela di Venezia. E l’argomento sarebbe tornato prepotentemente alla ribalta neppure tre mesi dopo, quando una nave da crociera urtò un battello turistico in uno spaventoso incidente nel canale della Giudecca: molti abitanti rinfacciavano al sindaco la contrarietà del Comune a una misura voluta per tenere le grandi navi lontane da Venezia.

Di episodî come questo è costellata la storia recente di Venezia, e almeno per il momento non sembrano sussistere le condizioni per una svolta, per un cambio di mentalità, per un’inversione di tendenza che anteponga il bene di Venezia e dei suoi cittadini agli inevitabili interessi economici che la città attira. Ne parlava già Brodskij nelle sue Fondamenta degli incurabili: tutti hanno una qualche mira sulla città, dal momento che niente come il denaro ha “davanti a sé un grande futuro”: “scorrono fiumi di parole sull’urgenza di ridar vita alla città, di trasformare tutto il Veneto in un’anticamera dell’Europa centrale, di mettere in orbita l’industria della regione, di allargare il complesso portuale di Marghera, di aumentare il traffico delle petroliere nella Laguna e perciò di abbassare i fondali della Laguna, di convertire l’Arzanà immortalato da Dante in un equivalente del Beaubourg per farne il magazzino del ciarpame internazionale di più recente creazione, di ospitarvi un’Expo nell’anno 2000, eccetera, eccetera. Tutte queste ciacole sgorgano normalmente dalla stessa bocca (e magari senza soluzione di continuità) che blatera di ecologia, salvaguardia, riassetto, patrimonio culturale e quant’altro. Lo scopo è sempre lo stesso: stupro. Non c’è stupratore, però, che voglia passare per tale o, tanto meno, farsi cogliere sul fatto. Da qui la commistione di obiettivi e metafore, di sublime retorica e lirico fervore, che gonfia i poderosi toraci degli onorevoli come quelli dei commendatori”. Ed era appena il 1989.

Da allora la situazione non è certo migliorata. In trent’anni il centro storico ha perso quasi trentamila abitanti, passando dai 76mila del 1991 ai 52mila del 2018, soprattutto per effetto dello sviluppo d’un modello economico che è incompatibile con l’aspirazione a rimanere una città in quanto tale, ovvero un luogo in cui un certo numero d’abitanti nasce, cresce, vive, lavora, ha accesso a determinati servizî. Incompatibile anche in virtù del fatto che Venezia ha dei limiti invalicabili, a cominciare dal fatto che il suo territorio è, per ovvie ragioni, inespandibile, e la sua dotazione edilizia di conseguenza limitata. Un articolo pubblicato pochi mesi fa su Ytali ha ben spiegato, esempî alla mano, come le ragioni del turismo e della rendita (aree ed immobili destinati a uso alberghiero o a progetti residenziali di lusso, che nessun veneziano potrebbe permettersi) si scontrino con la domanda di servizî che una città dovrebbe avere (scuole, parchi, teatri, centri culturali). Il risultato? “Venezia”, scrive l’autore dell’articolo, Mario Santi, “è sempre più vicina alla sua ‘morte come città’”. E, di converso, al completamento della sua trasformazione in un parco turistico.

Piazza San Marco sotto l'acqua alta

Una qualche flebile speranza di salvezza potrebbe arrivare dall’Unesco, che però al momento si è rivelato impotente di fronte ai problemi che attanagliano la città: non è neppure riuscito a includere Venezia nell’elenco dei beni in pericolo (malgrado quest’estate gli sia stato chiesto a gran voce), una mossa che sarebbe estremamente utile per certificare ufficialmente i rischi che la città corre, e per aprire una seria discussione su ciò di cui Venezia necessità per combattere l’overtourism, lo spopolamento, l’alteramento dell’equilibrio della laguna, gli interessi economici che potrebbero soffocarla. L’inclusione d’un sito nell’elenco del Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco dovrebbe essere un riconoscimento alla sua unicità e dunque alla sua preziosità: al contrario, tendiamo ormai a considerarlo come una specie di bollino turistico, una specie di guida stellata dell’arte e della natura, tutt’al più buono per programmare una gita. Ma se vogliamo che il riconoscimento torni ad avere un senso, occorre far pressione affinché l’Unesco non nasconda la situazione di Venezia e dichiari, finalmente, il suo stato di pericolo.

Il profluvio di banalità su Venezia che, nel cosiddetto day after, si sono ripetute e continueranno a esser ripetute (un flusso ininterrotto al quale, beninteso, il presente contributo non sfugge), ha avuto quanto meno il pregio di ricordarci, per l’ennesima volta, che Venezia l’altro ieri non s’è risvegliata martoriata per colpa dell’alta marea, ma per colpa di decennî di scelte sbagliate e letali. Il primo passo verso la salvaguardia della città lagunare è il raggiungimento di questa consapevolezza. Dopodiché, il secondo è una domanda: ma di Venezia c’interessa davvero qualcosa? Intanto, a costo d’affermare l’ennesima banalità, possiamo affermare una certezza: l’interesse per Venezia non lo si manifesta con la trita retorica della bellezza, con i soliti, svenevoli luoghi comuni sulle sue atmosfere, con gli accorati piagnistei da prefiche del giorno dopo. Se di Venezia davvero c’interessa qualcosa, il primo modo per dimostrarlo è nutrire rispetto nei suoi confronti. Detto in termini un po’ meno scontati: l’unicità di Venezia sta soprattutto nel fatto che non è ancora diventata un “museo a cielo aperto” come forse molti la vorrebbero, ma per fortuna è ancora un organismo vivo. Certamente aggredito, molestato, stuprato e ferito, ma ancora capace di respirare. Nel suo libro Non è triste Venezia, pubblicato lo scorso anno, il giornalista Francesco Erbani ha parlato di una “città che resiste”, di progetti come La Vida, un collettivo di abitanti del centro storico che si sono mobilitati per salvare l’Antico Teatro di Anatomia a rischio alienazione, e che continuano a organizzare incontri e gruppi di lavoro per riflettere su un modello di sviluppo alternativo della città. Ma la resistenza può partire anche da chi, pur non essendo di Venezia, tiene a lei: informando, invitando alla consapevolezza e alla comprensione, evitando pressioni sulla città (ricordiamo che, nel 2018, la CNN ha inserito Venezia tra le destinazioni turistiche da evitare: recarsi in città d’estate o nei periodi di punta è ormai un’esperienza ai confini del masochismo), e viceversa facendo pressioni sulla politica.

Una politica che, per dare un segnale, potrebbe fin da subito adottare una misura relativamente facile: il blocco delle grandi navi in laguna. Non sarà una misura risolutiva, perché la tutela di Venezia passa anche per altre strade: gl’investimenti sulla manutenzione, sui sistemi di difesa locali e sul riequilibrio della laguna, un modello che eviti di considerare il turismo come unica opzione per la città, la creazione di spazî e servizî per i cittadini, lo spostamento dei flussi turistici. Ma potrebbe essere un modo per iniettare fiducia nei cittadini e in chiunque ami Venezia, per non far cadere nel vuoto dichiarazioni che finora sono apparse più come frasi di circostanza che come chiare prese di posizione, per dimostrare che, in fondo, anche alla politica interessa qualcosa di Venezia. Senza che si faccia qualcosa subito, ogni discorso sull’importanza del patrimonio culturale, sulla tutela di Venezia, sulla preservazione dei suoi beni e quant’altro, diventa vacuo e inutile chiacchiericcio. Il dramma di questi giorni, data la sua eccezionalità e la sua imprevedibilità, potrà portarci, se non ancora a un ribaltamento del trend, quanto meno a una discussione fondata sull’assunto secondo il quale Venezia è un bene di tutti?


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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