Le riforme Franceschini: un bilancio dieci anni dopo


Quando furono adottate le ‘riforme’ di Franceschini l’amministrazione dei beni culturali languiva da almeno venti anni per la mancanza di mezzi e di personale. Qual è il risultato dieci anni dopo? Il parere di Adriano La Regina.

Quando furono adottate le ‘riforme’ di Franceschini l’Amministrazione dei beni culturali languiva da almeno venti anni per la mancanza di mezzi e di personale, per l’organizzazione antiquata, per le procedure complesse e per le menomazioni funzionali provocate da norme introdotte dai governi Berlusconi. Si rendevano necessari l’ammodernamento strutturale e lo snellimento burocratico con l’attenzione, però, a non disperdere il patrimonio di competenze scientifiche, di capacità tecniche, di elaborazioni giuridiche ed estetiche accumulate nel corso di una tradizione plurisecolare che, nel Novecento, aveva fatto dell’Italia un modello per la cura dei beni culturali. Per inettitudine politica e inconsapevolezza culturale sono stati invece adottati criteri del tutto diversi che hanno determinato le attuali disfunzioni, ben più gravi dei guasti che si sarebbero dovuti sanare.

Il diverso assetto delle soprintendenze, nelle quali è stata accorpata la cura del paesaggio, delle antichità, dei beni storici, artistici e architettonici, ha determinato l’abbandono della competenza scientifica nella responsabilità ultima nella tutela. L’accorpamento sarebbe tuttavia utile, ed è sempre ancora auspicabile, alla condizione che siano istituite forme di decisione collegiali, vincolanti, con procedure semplici, e che le funzioni del capo dell’ufficio siano strettamente limitate al controllo e alla legale rappresentanza. Questo sarebbe stato un criterio riformatore fortemente innovativo sul piano culturale, che avrebbe per altro consentito di liberare la gestione della tutela dall’interferenza del potere politico, vieppiù invadente in materie di cui l’ordinamento italiano non gli riconosce la prerogativa.

La creazione di soprintendenze ‘uniche’ non ha d’altra parte alleggerito l’amministrazione, giacché il numero complessivo degli uffici non è stato ridotto, essendo stata diminuita la consistenza territoriale delle singole circoscrizioni. Piuttosto che procedere con l’ulteriore frazionamento degli uffici sarebbe stato auspicabile unirli tutti in una dimensione regionale, ivi comprese le strutture con funzioni incongrue (direzioni regionali dei musei, segretariati regionali). La sovrapposizione di competenze è motivo di confusione tra gli uffici sia a livello periferico sia nei confronti dell’amministrazione centrale.

Dario Franceschini
Dario Franceschini

La separazione dei musei dalle soprintendenze ha recato più danni che benefici. Il tanto proclamato sviluppo dei musei è in realtà dovuto all’incremento generale del turismo più che alla migliore gestione del patrimonio che, in certa misura e non ovunque, pure vi è stata. Per contro, decisioni e orientamenti contrastanti sulla medesima materia, la confusione degli archivi, le difficoltà nella gestione dei magazzini, lo smembramento dei contesti nei reperti archeologici, la dispersione delle attrezzature, la duplicazione dei servizi, e così via, sono stati il frutto di mera insipienza intellettuale. La ragionevole esigenza di attribuire maggiore autonomia ai musei si sarebbe potuta facilmente ottenere senza abolire il nesso organico con gli istituti di tutela del territorio; questo, per la gran parte dei musei italiani, è la naturale fonte di incremento del patrimonio espositivo. I processi conoscitivi si sviluppano sul territorio e nei musei e non possono essere esercitati distintamente. Dovrebbe essere istituito per i musei un ordinamento atto a garantirne l’autonomia gestionale, come del resto anche per gli uffici addetti alla tutela, in seno a una entità unitaria di soprintendenza/museo/parco archeologico, comunque la si voglia chiamare; gioverà ricordare, per altro, che nella loro formazione le soprintendenze altro non sono state che la proiezione sul territorio dell’interesse per il ritrovamento dei beni da esporre nei musei, per le ricerche di ordine storico che ne scaturiva e per la protezione dei suoli e dei monumenti donde i beni stessi si sarebbero potuti ottenere anche in futuro.

L’accesso di studiosi stranieri alla direzione di istituzioni culturali è un principio sacrosanto, già rispettato in ambito universitario, finalmente adottato anche in Italia. Il buon intento è stato però viziato procedure non limpide, con risultati talvolta buoni, ma per lo più mediocri.

Mentre è stata benefica la creazione di istituti centrali con competenze tecnico-scientifiche, come l’Istituto centrale per l’archeologia, inutile e dannoso si è rivelato l’abnorme incremento delle direzioni generali e di altri uffici, anche essi con competenze talvolta poco distinte e con sovrapposizione di compiti. La ragione di questa proliferazione consiste nell’intento di creare posizioni di favore per clientele, con risultati opposti agli obiettivi della semplificazione. L’appesantimento burocratico procede con ritmo incessante mediante l’introduzione da parte dei nuovi uffici di norme defatiganti per qualsiasi attività di natura scientifica o più genericamente culturale. Si vedano, ad esempio, le gravi condizioni in cui si è venuta a trovare la ricerca universitaria nel campo archeologico e storico-artistico dopo le norme emanate con circolari ministeriali nell’ultimo decennio, spesso in violazione delle garanzie di libertà per la ricerca e lo studio.

La separazione della tutela dalla valorizzazione ha cancellato con un colpo di spugna l’applicazione concreta di concezioni teoriche elaborate dal pensiero italiano del Novecento, da Benedetto Croce a Cesare Brandi, mettendo a nudo la pochezza culturale insita nelle recenti trasformazioni normative e di ordinamento amministrativo.

Infine, la mercificazione spinta del patrimonio, con l’aggravio dei costi per l’accesso ai beni e con oneri per la riproduzione delle immagini di opere che per loro natura sono patrimonio comune, è stata una grave menomazione del principio di universalità della cultura e della libertà di accesso, nel rispetto dei diritti d’autore, ai beni che la rappresentano.

L’Italia è per natura e storia meta mondiale di interessi culturali. Il suo patrimonio richiede un’amministrazione consapevole e colta, snella e libera da interferenze burocratiche e politiche. I modi per ottenerla sono stati attentamente studiati nella seconda metà del Novecento; si vedano, tra una documentazione assai cospicua, soprattutto gli Atti della Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, istituita con legge del 26 aprile 1964, n. 310, pubblicati in tre volumi dal titolo Per la salvezza dei beni culturali in Italia (Roma 1967) e il disegno di legge Revisione delle norme di tutela e istituzione dell’amministrazione autonoma dei beni culturali e ambientali, presentato in Senato il 5 ottobre 1989 (X Legislatura, ddl. n. 1904) a firma, tra gli altri, di Giulio Carlo Argan, Giuseppe Chiarante, Giorgio Strehler.

Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 21 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper. Clicca qui per abbonarti.


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Adriano La Regina

L'autore di questo articolo: Adriano La Regina

Accademico dei Lincei, già Professore ordinario di Etruscologia e Antichità italiche alla Sapienza Università di Roma; Presidente dell'Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell'Arte.



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