Dovevano ancora spegnersi le ultime fiamme che, l’altro ieri, hanno avvolto la replica in scala monumentale della Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto, ma sui social e sulle edizioni online di tutti i quotidiani, locali e nazionali, cominciavano già a fioccare i commenti sull’incendio. Senza aspettare che si facesse un minimo di chiarezza sull’accaduto, schiere di logorroici esibizionisti hanno fatto ciò che quasi tutti fanno ogni volta che un caso di cronaca nera ottiene notiziabilità nazionale: si sono improvvisati sociologi e hanno cominciato a sciorinare analisi sul fatto del giorno prima ancora che si potesse capire qualcosa di quel ch’era accaduto.
Casomai fosse servita un’ulteriore conferma, la vicenda della Venere bruciata in piazza del Municipio a Napoli ha ricordato a tutti che la tendenza più democratica e trasversale che esista nel nostro secolo è il presenzialismo: quell’atteggiamento che porta chiunque, dal politico al vertice del grande partito nazionale fino al proprio vicino di casa, a ritenere che sia cosa buona e utile condividere col prossimo le proprie osservazioni sui faits divers della giornata e che l’uditorio trovi interessanti queste analisi, spesso rese prima del dovuto. C’è chi lo fa tramite virgolettati consegnati al proprio ufficio stampa, chi si contenta d’una connessione e d’un account social, ma il risultato non cambia.
Ora, quando si verifica un evento delittuoso, sarebbe sempre il caso di limitarsi, almeno finché i fatti non cominciano ad assumere una fisionomia minimamente definita, a una manifestazione di sgomento e, tutt’al più, a una dichiarazione di fiducia nei riguardi delle autorità che dovranno procedere coi dovuti accertamenti. Qualcosa del tipo: “Siamo sconcertati per quello che è successo, adesso aspettiamo che si faccia chiarezza”. E invece, per quasi tutta una giornata, ci siamo dovuti sorbire un diluvio di disamine sociologiche spicciole sulla violenza di chi non vuole l’arte, sulle devianze giovanili, sul lato peggiore dell’umanità, su Heine e i roghi di libri, sulla necessità di rifare la Venere “com’era dov’era” come simbolo di rinascita e giù scendendo nella scala del trombonismo da tragedia.
Poi s’è scoperto che probabilmente non s’è trattato di un “attentato contro la bellezza”, per usare un’espressione comparsa più di qualche volta sulle timeline dei commentatori che avevano appena finito di render nota la propria posizione sulle ultime vicissitudini del presidente del Senato, ma del gesto, al momento ancora privo di spiegazioni, di un senza fissa dimora, individuato attraverso le immagini delle telecamere di videosorveglianza, sottoposto a fermo, che sinora ha negato ogni addebito, ma nei confronti del quale il gip ha poi deciso di confermare la misura cautelare, avendo ritenuto che gli elementi indiziari raccolti facciano propendere per la responsabilità del fermato. E allora, dato che non si poteva più dar la colpa a un qualche presunto nemico dell’ordine pubblico, oppure a una baby gang implicata in un cimento da social, o magari a un contestatore consapevole, le analisi dei presenzialisti si sono concentrate sull’opera. E si sono rivelate forse ancor più deliranti, perché s’è letto di tutto: il senza fissa dimora che, tra le nebbie dell’approssimazione dilagante, diventa un senza tetto (uno “straccione”, è stato anche carinamente definito) che dà fuoco agli stracci e viene trasformato in simbolo di disagio esistenziale se non anche di rivincita, le fiamme che hanno investito di nuovo significato un’opera del 1967, l’incendio come atto performativo casuale, e via ancora con esegesi istantanee sempre più fantasiose. Un fiume di vaniloqui a contorno di quello che, stando alle prime ricostruzioni, è nient’altro che un mero fatto di cronaca nera dai contorni ancora da approfondire, che forse sarebbe potuto capitare a qualunque altra cosa si fosse trovata in quella piazza, e che come tale va trattato.
C’è poi un altro tema, di carattere più marcatamente culturale. Certamente, dispiace che il lavoro di Pistoletto sia finito in cenere. Stiamo parlando di un evento doloroso. Ma il fatto che protagonista di un caso di cronaca nera sia la gigantesca replica di un’opera d’arte famosa non è di per sé sufficiente a rendere l’oggetto rilevante. Si trattava, appunto, di una replica di un lavoro di più di cinquant’anni fa, curiosamente esposta in un festival che si chiama “Napoli contemporanea”. Una replica che non ha aggiunto niente all’originale (o al concetto, se la si vuol considerare un’opera concettuale). È come aver perso un multiplo, ancorché di enormi proporzioni. Oppure come aver visto finire anzitempo una performance, uno show di un artista che non la smette ogni anno di somministrarci sempre il solito repertorio: Terzo Paradiso e Venere degli stracci cucinati in tutte le salse possibili. Poi, è ovvio che la storia delle arti sia piena di artisti che hanno fatto sempre le solite due o tre cose per tutta la carriera. Anche i Sex Pistols, per dire, hanno fatto un unico album. Ma quando John Lydon a quarant’anni di distanza canta God save the Queen non si propone come una novità.
Non è stata, insomma, una perdita per cui disperarsi. È andata peggio, nelle scorse ore, e parlando di roghi, ai genovesi che hanno perso qualche porzione di bosco nell’incendio scoppiato al santuario della Guardia. Ed è di oggi un articolo di Linkiesta sulla poco confortante situazione che la Sicilia si prepara a vivere mentre il caldo fa aumentare le possibilità di perdere ettari di aree boschive. Ma vogliamo mettere quanto sia più socialmente spendibile soddisfare le proprie esigenze di presenzialismo concentrandosi anzi sulla Venere di Pistoletto, per dimostrare quanto si è sensibili all’arte o quanto si è abili a trovare nuovi significati dietro un’opera?
Giunge infine notizia che il Comune di Napoli punta a raccogliere 200mila euro per ricostruire l’opera. Era una replica, quindi normale che si possa replicare e qualcuno voglia replicarla. Si spera, naturalmente, che l’ente ricorra esclusivamente a donazioni volontarie, senza che si utilizzino soldi pubblici per rimettere in piedi il costoso gingillo, se proprio non ci si vuole rassegnare all’idea che anche la distruzione faccia parte del corso naturale di un’opera d’arte (anche la Cattedrale Vegetale di Lodi, per fare un esempio recente, è finita demolita, distrutta dopo soli due anni di vita per un motivo per certi versi ancor più grave, ovvero l’incuria, e non verrà ricostruita perché può accadere che un’opera d’arte cessi di esistere). Ma, di nuovo, forse è più socialmente spendibile rifare l’installazione e poi dichiarare impettiti che la bellezza ha trionfato sul male.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).