Le immagini dei beni culturali sono un’incredibile risorsa per l’accesso alla cultura e la diffusione della conoscenza del patrimonio culturale italiano nel mondo. Sebbene lo sviluppo tecnologico e la diffusione dei mezzi digitali abbiano facilitato al massimo l’accesso al patrimonio culturale digitale, in Italia permangono ancora numerosi ostacoli alla circolazione di immagini del patrimonio culturale pubblico sia nella normativa nazionale, sia nelle pronunce dei tribunali. Mentre, a livello internazionale, si assiste allo sviluppo di un solido movimento che opera per la diffusione di politiche di accesso aperto, il contesto italiano, salvo rare eccezioni (come la Fondazione Museo Egizio di Torino), rimane ancorato ad approcci conservatori volti a limitare le possibilità di utilizzo delle immagini dei beni culturali.
Il dibattito italiano sull’uso delle riproduzioni fedeli dei beni culturali è tornato sotto i riflettori nel corso degli ultimi mesi, a seguito di alcune pronunce giudiziali e delle polemiche che hanno seguito l’adozione da parte del Ministero della Cultura del Decreto n. 161/2023 (“Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali”).
I giudici nazionali, infatti, hanno affermato l’esistenza di un diritto all’immagine dei beni culturali, fondando su di esso la necessaria preventiva richiesta di autorizzazione e corresponsione di un canone per l’utilizzo dell’immagine. Secondo tale prospettiva, il preventivo controllo da parte della pubblica amministrazione si renderebbe indispensabile anche nel caso di riuso dell’immagine dei beni culturali per usi non commerciali. Queste pronunce hanno affermato l’esistenza di un “diritto all’immagine” per il patrimonio culturale, prospettando l’aggiunta di un livello di protezione ulteriore a quello del diritto d’autore, sovrapponendo norme di carattere pubblicistico come il Codice dei beni culturali (Decreto Legislativo del 22 gennaio 2004, n. 42) e, in particolare, gli articoli 107 e 108 dello stesso, a norme tipicamente privatistiche, quali l’art. 10 del Codice Civile (che tutela appunto il diritto all’immagine delle persone).
Nel ragionamento giurisprudenziale viene riconosciuto un diritto all’immagine che, a differenza del diritto d’autore, è illimitato nel tempo e che genera, quindi, una sorta di privativa permanente in favore dello Stato, sancito dagli artt. 107 e 108 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Nelle pronunce dei giudici italiani, il diritto all’immagine, è richiamato in relazione alla necessità di tutelare il “decoro” del bene culturale in aggiunta ai limiti connessi all’utilizzo a fini di lucro del bene stesso, suscitando diversi dubbi interpretativi e profili critici. L’articolo 108 del Codice dei beni culturali consente l’uso e la divulgazione delle riproduzioni del patrimonio culturale, solo per fini diversi dal lucro, nell’ambito di attività che, in via teorica, potrebbero già determinare uno “svilimento” dello stesso (si pensi, ad esempio, alla diffusione in canali non commerciali di rielaborazioni caricaturali delle riproduzioni di beni culturali in nome della libera manifestazione del pensiero o espressione creativa richiamate dalla norma). Non si può sostenere, dunque, che il problema del decoro sia sovrapponibile tout court all’uso commerciale delle immagini, quasi come se l’uso di un’immagine divenisse immune al problema del decoro dal momento in cui viene corrisposto il canone all’amministrazione.
Ci si chiede, inoltre, come sia possibile definire un parametro per valutare la compatibilità dell’uso dell’immagine con le esigenze di tutela del decoro, e quindi come possa il singolo istituto culturale, deputato al rilascio dell’autorizzazione, valutare concretamente se lo stesso sia o meno rispettato, con tutti i rischi di un’applicazione di questi criteri disomogenea e differenziata sul territorio.
In tal senso, nel dibattito si inserisce anche l’iniziativa Open to Meraviglia, con la quale il Ministero del Turismo ha utilizzato l’immagine della Venere di Botticelli per una campagna promozionale, criticata su più fronti per i suoi esiti infelici, eppure rientrante nelle ipotesi consentite dalla norma.
In sostanza, il diritto all’immagine finisce per diventare un pretesto per limitare la circolazione delle riproduzioni di beni culturali nel tentativo di incrementarne la redditività secondo un approccio ormai desueto e contrario alle evidenze (come evidenziato dalla stessa Corte dei Conti nella Deliberazione 12 ottobre 2022, n. 50/2022/G), nonché in aperta opposizione alle politiche e alle pratiche di accesso aperto diffuse in tutto il mondo, e in contrasto con le attività di ricerca sul patrimonio culturale, spesso diffuse in canali commerciali nell’ambito di prodotti editoriali.
In tal senso, anche il Decreto 161/2023 torna a usare l’argomento del decoro per sottoporre ad autorizzazione qualsiasi forma di uso delle immagini (art. 2), in aperta violazione del’art. 108 c. 3-bis del Codice dei beni culturali che, dal 2014, rende libera la divulgazione delle riproduzioni per fini diversi dal lucro. Il Decreto, inoltre, nel definire tariffe minime per l’utilizzo delle immagini dei beni culturali, introduce un sistema di calcolo inutilmente farraginoso e complesso che mette in difficoltà utenti e istituti culturali chiamati ad adottarlo, confondendo i canali di acquisizione delle immagini con le modalità di riuso delle stesse. A differenza del PND, peraltro, il decreto in esame, non è stato il frutto di un dialogo con i professionisti e le associazioni del settore, che ne hanno evidenziato le gravi criticità, auspicando a gran voce una ripresa del dialogo sul punto. Dialogo che sinora, purtroppo, non ha trovato una risposta da parte del Ministero.
Il Decreto, inoltre, non considera la complessità sottostante all’utilizzo delle immagini dei beni culturali, che spesso si inserisce in un contesto in cui le modalità di utilizzo, salvaguardate dall’articolo 108 del codice dei beni culturali, si sovrappongono a profili economicamente rilevanti, rendendo di non facile interpretazione la presenza o meno di una finalità di lucro ai sensi della normativa di settore.
Ciò che emerge è una profonda contraddittorietà del quadro giuridico italiano che, peraltro, in un contesto ormai cambiato, non tiene conto delle enormi e, ormai imprescindibili, potenzialità del digitale affinché il diritto dei singoli a “trarre beneficio dal patrimonio culturale e a contribuire al suo arricchimento” possa effettivamente realizzarsi come affermato dalla Convenzione di Faro (art. 4).
Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 20 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper. Clicca qui per abbonarti.