Non è confortante l’idea che l’appuntamento natalizio con Alberto Angela rischi di diventare una tradizione, sempre ammesso che il popolare divulgatore non sia già entrato a furor di popolo tra i personaggi del pantheon festivo, assieme a Babbo Natale, alla renna Rudolph, al Grinch, all’accoppiata Dan Aykroyd-Eddie Murphy. Non è confortante perché non dovrebbe essere normale aspettare la sera del 25 dicembre per vedere un programma di divulgazione storico-artistica in prima serata sulla rete ammiraglia della Rai. E parliamo, peraltro, di un programma neanche di qualità eccelsa, di un programma che mescola divulgazione e intrattenimento, di un programma che evita accuratamente di uscire dai soliti aneddoti e dai soliti luoghi: Firenze, Venezia, Milano, Pompei, Napoli, Roma. Luoghi, peraltro, proposti sotto forma di patinatissime, levigatissime, innocue cartoline. Il problema però non è tanto la qualità del programma di Alberto Angela: il problema è che il programma di Alberto Angela è l’unica trasmissione della televisione pubblica dove l’arte ha un ruolo non marginale. E non è normale che la Rai lo tratti come un regalo di Natale.
Certo, sappiamo che esiste l’ottima e approfondita offerta di Rai 5: chi vuole vedere arte in televisione solitamente è consapevole d’avere a disposizione un approdo sicuro e quotidiano sul canale 23, dove l’offerta è di alto livello, dai documentarî originali o importati fino a quell’eccellente contenitore che è Art Night. Ma, purtroppo, non è sufficiente: la Rai, in quanto servizio pubblico, ha una responsabilità culturale nei riguardi di tutti i cittadini, non solo verso gli appassionati. Non è normale che chi desideri dalla televisione pubblica un minimo d’approfondimento culturale debba ricordarsi di sintonizzarsi su Rai 5 per evitare d’imbattersi nel palinsesto di reality, talk show, repliche di fiction e gare di cucina che caratterizza i canali generalisti. Non è normale che il servizio pubblico limiti i contenuti d’arte al canale culturale escludendo di fatto una porzione significativa del pubblico, a cominciare da quella che non conosce l’offerta di Rai 5, o da chi non ha familiarità con l’arte. Non è normale che l’arte abbia così poco spazio su Rai 1, Rai 2 e Rai 3.
Questa marginalizzazione dell’arte in tv è un fenomeno sostanzialmente nuovo, che ha assunto proporzioni sempre maggiori da una decina d’anni a questa parte, ovvero da quando la Rai ha cominciato a spostare sui canali tematici parte della sua programmazione, e che parrebbe essersi acuito dopo il lancio di RaiPlay (2016). All’epoca in cui Rai5 dava avvio alle sue prime trasmissioni (fine 2010), sui canali generalisti era ancora possibile imbattersi in una programmazione, se vogliamo, anche piuttosto ricca: Alberto Angela (che ai tempi peraltro non emanava ancora quell’aura sacrale che, per qualche motivo, oggi sembra circondare la sua figura) conduceva Ulisse, Philippe Daverio registrava quelle che sarebbero state le ultime puntate di Passepartout, tutte le settimane Flavio Caroli aveva uno spazio non irrilevante su Che tempo che fa, qualche anno dopo (2013) Francesco Bonami avrebbe cercato di portare in seconda serata l’arte contemporanea con Dopo tutto non è brutto, Vittorio Sgarbi si lanciava nelle sue incursioni sul talk Virus. Il contagio delle idee, Achille Bonito Oliva sostituiva Daverio all’ora di pranzo della domenica con Fuori quadro.
Adesso? È finito quasi tutto: tolti alcuni episodî sporadici (come la Roma tra arte e fede di Francesca Fialdini, format identico alle notti di Alberto Angela, ma ancora più soporifero), la presenza dell’arte sulla tv pubblica generalista è confinata a pochissimi spazî: c’è la rubrica d’arte di Splendida cornice, che dovrebbe essere un programma a metà tra il satirico e il culturale, affidata a un ex vj di Mtv, Alessandro Arcodia, ogni tanto si parla di arte su Geo, c’è da aspettare che ci sia una puntata dedicata a temi d’arte in Passato e presente di Paolo Mieli, e poco altro. A oggi, su Rai 1, Rai 2 e Rai 3 di solito si parla di arte all’interno di programmi o contenitori che parlano di altro, non ci sono trasmissioni interamente dedicate all’arte, né capita d’imbattersi in documentarî d’arte trasmessi su canali generalisti. E non parliamo poi dell’arte contemporanea, di cui praticamente non si parla, col risultato che a chi non è un addetto ai lavori mancano anche le conoscenze più elementari: probabilmente per la stragrande maggioranza degli italiani la storia dell’arte finisce laddove di solito fanno in tempo ad arrivare i programmi scolastici (alla Bauhaus o giu di lì), per chi ha avuto la fortuna d’aver studiato storia dell’arte a scuola.
A cosa dobbiamo questa marginalizzazione? Intanto, viviamo nell’epoca del dominio dell’intrattenimento: la televisione pubblica non deve più competere solo coi suoi storici concorrenti commerciali (Mediaset, La7), ma anche con le piattaforme di streaming e con la loro sterminata offerta on demand. Le televisioni commerciali campano di audience e quindi attirano investimenti laddove gli ascolti sono più alti, mentre le piattaforme di streaming offrono contenuti su abbonamento: naturale che entrambe puntino su programmi di facile o facilissimo accesso per massimizzare i profitti, e i programmi d’arte non rientrano esattamente tra quelli facili, o al più tra quelli per cui la maggior parte del pubblico sarebbe disposta a pagare un abbonamento. È lo stesso motivo per cui è sempre più difficile vedere sulla tv generalista programmi d’approfondimento tout court, su qualsiasi argomento: musica, cinema, politica e via dicendo. La musica s’è ridotta ai talent e alle gare dove spesso la musica stessa riveste un aspetto marginale, pensare alla politica in televisione equivale a immaginare i talk show che spesso si risolvono in pollai dove tutti si parlano addosso, e anche il cinema è confinato dentro ai contenitori. Perché la Rai dovrebbe competere al ribasso? Il punto è che la Rai vive anche della raccolta pubblicitaria: alle somme che la tv pubblica ottiene col canone (circa 1,7 miliardi di euro) vanno sommati i ricavi da pubblicità, circa 300 milioni di euro l’anno. È il motivo per cui è impossibile pretendere allo stesso tempo un innalzamento della qualità dell’offerta e un taglio del canone: sono due obiettivi che si escludono a vicenda. Il taglio dello scorso anno imposto al canone (dal 90 al 70 euro) è stato frutto di una politica populista che produce, per la televisione pubblica, l’effetto di avvitarsi ancor più alla raccolta pubblicitaria (confinando quindi sempre più gli argomenti percepiti come di nicchia ai canali tematici) col rischio di rinunciare alla qualità dei contenuti, oppure quello di tagliare sulle produzioni.
L’arte in tv sconta poi la specializzazione dei canali di cui s’è detto: col diffondersi dei canali tematici, i programmi d’arte sono stati spediti su Rai5, che è ancora percepito come l’habitat naturale per l’approfondimento storico-artistico. Non è finita qui: per chi propone arte diventa sempre più difficile conciliare il livello d’approfondimento che la materia richiederebbe e il costante abbassamento della soglia d’attenzione del pubblico. Parlare d’arte, in sostanza, diventa sempre più difficile se di fronte si ha un pubblico sempre più abituato a vedere serie in puntate che durano venti minuti, ad ascoltare podcast che durano dieci minuti, a scorrere i video degli influencer e dei content creator che sui social pretendono di esaurire un argomento in un minuto.
Esiste allora una via d’uscita? Trasmettere arte sui canali generalisti significherebbe non solo aumentare l’offerta culturale, ma anche intercettare gl’interessi d’un pubblico più vasto, rendere l’arte più accessibile e, soprattutto, adempiere alla missione di servizio pubblico. La Rai dovrebbe fregarsene dell’audience, perché la rincorsa agli ascolti non dovrebbe essere il suo obiettivo. Sappiamo che però, almeno per il momento, così non è, e tocca trovare strade intermedie. Si potrebbe allora guardare a cosa fa La7, dove, con evidenza apparentemente paradossale, l’offerta d’arte sembra più estesa rispetto a quella della Rai: nella Giornata particolare di Aldo Cazzullo si parla spesso di arte e con un format decisamente più fresco e accattivante rispetto a quello dei programmi di Alberto Angela, c’è un contenitore tutto dedicato all’arte (Artbox), c’è l’appuntamento settimanale con Jacopo Veneziani (figura alla quale, si può dire senza indugi, occorrerebbe dare molto più spazio) nel programma In altre parole. La programmazione di La7 è la dimostrazione che è ancora possibile parlare d’arte su di un canale generalista. Nessuno, ovviamente, dice che c’è da tornare alla Rai degli anni Settanta, ai programmi di Simongini, ai critici fissi in tv (non sarebbe male, ma forse sarebbe troppo ardire), né che l’arte debba avere un ruolo da protagonista che mai ha avuto nella storia della tv italiana. Ma ci sono molte altre strade. Cambiare strategia, sperimentare, osare. La televisione pubblica potrebbe e dovrebbe fare di più: rinfrescare i format, puntare su figure nuove o affidarsi a conduttori carismatici, tornare a inserire l’arte all’interno dei talk, all’interno dei telegiornali, inventare segmenti sulle mostre, sui tesori nascosti o su tutto quello che è attualità dell’arte, cercare delle connessioni tra arte e cultura popolare contemporanea, tra arte e moda, musica, cinema, trovare forme narrative più coinvolgenti. Dimostrare, insomma, che l’arte può ambire a un pubblico più largo di quello che solitamente le viene riservato. E provare a invertire quella marginalizzazione cui l’arte in tv è costretta da troppi anni.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).