L'alluvione delle competenze: una storia che parte dalla conservazione


A fronte delle tragedie ambientali che sempre più spesso colpiscono l’Italia, con morti, dispersi, migliaia di senzatetto, centinaia di milioni di danni e così via, è utile fare una storia di come tutto questo sia potuto accadere: una storia che parte dalla conservazione del patrimonio culturale.

A fronte delle tragedie ambientali che sempre più spesso colpiscono l’Italia – di questi giorni la quarta alluvione in due anni di parte dell’Emilia, Bologna compresa – con morti, dispersi, migliaia di senzatetto, centinaia di milioni di danni e così via, credo sia utile fare una storia di come tutto questo sia potuto accadere. Una storia che si può far partire il 4 novembre del 1966 quando l’Arno straripa a Firenze e manda sott’acqua uno dei patrimoni storici e artistici più importanti dell’Occidente. Un patrimonio di cui fanno parte anche 230 dipinti su tavola di diverse dimensioni e varie provenienze dalle chiese cittadine la cui conservazione pone un problema tecnico molto complesso che l’Istituto centrale del restauro risolve in un modo del tutto innovativo. Decidono infatti il suo direttore Pasquale Rotondi e il suo vice Giovanni Urbani che quei dipinti imbibiti di acqua limacciosa non siano sottoposti a un restauro, farlo avrebbe significato danneggiarli in modo irreparabile, ma si debba intervenire su di loro senza toccarli. Quel che l’Icr fa disponendo che si provveda a una loro lenta e programmata deumidificazione. Fanno così dotare la enorme Limonaia del Giardino di Boboli di un impianto di condizionamento progettato alla bisogna dall’Istituto di Fisica tecnica dell’Università di Roma nelle persone di Gino Parolini e Marcello Paribeni, e vi fanno ricoverare le 230 tavole mantenendo all’interno della Limonaia un tasso di umidità relativa ambientale tale da evitare un essiccamento troppo rapido delle tavole dipinte e che ne riporti il contenuto di acqua del legno dal 100% a un fisiologico 10%.

Un intervento che si conclude in alcuni mesi con un perfetto risultato conservativo e che diviene il precedente diretto di quella “conservazione programmata e preventiva del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente” cioè di quella azione che sarà la radicale innovazione portata dall’Icr nella tutela materiale del patrimonio artistico e che trova la sua applicazione nel “Piano pilota per la conservazione preventiva e programmata dei beni culturali in Umbria” presentato a Perugia nel 1975. Piano pilota alla cui realizzazione subito si oppongono violentemente soprintendenti, professori e uomini politici perché si trattava di un progetto “pericoloso”. Pericoloso non per il suo essere stato finalizzato da Rotondi, Urbani a creare un aumento del potere burocratico dei suoi attori, ma perché a realizzare un ben definito e concreto progetto di tutela del patrimonio artistico che obbligava i funzionari ministeriali a lavorare in stretta collaborazione con organismi scientifici e università non solo italiane e anche giovandosi dell’aiuto dei laboratori di ricerca dell’industria. Nel caso quelli dell’Eni che sostanzialmente ancora era quello con una finalità pubblica creato da Enrico Mattei. Eni che, nel caso, fonda una società di engineering, la Tecneco, per dare un appoggio di carattere metodologico e organizzativo al Piano pilota di cui oltretutto Rotondi e Urbani avevano previsto (altro pericolo) dei molto ridotti tempi e costi per la sua attuazione: 24 mesi e 1.400 milioni di vecchie lire (oggi 8,8 milioni di euro). Da qui aver prontamente ignorato quel progetto il Ministero dei beni culturali, fondato in quello stesso momento dal giornalista fiorentino passato alla politica Giovanni Spadolini, sfuggendo, diciamo così, a lui e ai suoi consiglieri, ché la conservazione programmata in rapporto all’ambiente di Rotondi e Urbani era (e resta) l’unica azione di tutela per poter in concreto salvaguardare il patrimonio artistico italiano nella qualità che lo rende unico al mondo: la sua infinita, ultramillenaria e meravigliosa stratificazione sul territorio. Da qui l’impietoso giudizio dato da Sabino Cassese sul nuovo ministero spadoliniano all’atto stesso della sua presentazione nel dicembre del 1974 definendolo “una scatola vuota che non indica una politica nuova e non contiene una riforma della legislazione di tutela”. Mentre Luigi Covatta, che di quel Ministero fu Sottosegretario e che ha il non piccolo merito di aver promosso l’unica azione politica in linea con la conservazione programmata in rapporto all’ambiente, la creazione di una “Carta del Rischio”, ne parlava come dell’unico Ministero dell’Italia repubblicana “fondato durante le vacanze di Natale”.

Alluvione di Firenze del 1966
Alluvione di Firenze del 1966

Perché questa lunga premessa per parlare delle alluvioni della Emilia-Romagna? Per una ragione molto semplice. Cioè che il “pericolo” di doversi misurare con come realizzare in concreto un lavoro organizzativo fondato su impeccabili dati tecnico scientifici non riguardava solo la conservazione materiale del patrimonio, ma toccava anche la politica del territorio. Infatti, il 29 giugno del 1973 l’Eni presenta a Urbino la “Prima Relazione Nazionale sulla situazione ambientale del Paese”, una iniziativa nata sotto gli auspici della Presidenza del Consiglio, coordinata del Ministro per la Ricerca Scientifica e Tecnologica e chiusa dall’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone. Prima relazione che nei suoi tre volumi, più uno finale di cartografia tematica, raccoglie un vasto lavoro di ricerca patrocinato da organizzazioni politiche e scientifiche d’assoluta rilevanza internazionale come l’Onu, l’Ocse, la Cee, il Mit, la Nasa e quant’altri, con cui si affrontano alcuni dei principali punti di crisi che l’ambiente aveva iniziato a mostrare nei principali nei principali paesi industriali del mondo in causa del rapidissimo sviluppo economico avvenuto nel secondo dopoguerra. Aggressione ambientale che interessa anche l’Italia, ma in un modo molto diverso da ogni altra nazione. Cioè colpendo un patrimonio artistico che non ha paragoni per pervasività e importanza storica e culturale con nessun altro luogo del mondo. Ciò che spiega la ragione per la quale una intera sezione di quella “Prima Relazione” venga dedicata al “Patrimonio dei beni culturali” affidandone la elaborazione all’Icr, allora indiscusso punto di riferimento nel mondo, e chiamando Urbani, nel frattempo passato a dirigere l’Icr, a coordinare un lavoro di ricerca che verteva sullo stato di conservazione del patrimonio italiano e la sua tendenza evolutiva nel periodo 1969-1972. Si occupava invece della parte tecnico scientifica e organizzativa relativa a ambiente e ecologia di nuovo l’Eni e sempre per il tramite della Tecneco. Ne esce un documento programmatico al solito fortemente “pericoloso” per la politica. Bastino i tre punti che cito subito sotto traendoli da quella “Prima Relazione”. Punti in cui si mettono in campo indirizzi di metodo mai attuati e si parla di problemi ancora oggi del tutto attuali e, al solito, irrisolti come inesorabilmente dimostrano le alluvioni da cui siamo partiti. Tre punti in cui si prevedeva di operare:

  1. una valutazione di massima della natura e dell’entità dei principali fattori di modificazione ambientale (fattori c.d. “naturali”, attività di produzione, attività di consumo), con eventuali disaggregazioni a livello sia settoriale che regionale;

  2. un’analisi dello stato attuale dei principali “sistemi” ambientali individuabili nel Paese (alta montagna; boschi e foreste; parchi e riserve naturali; lagune e stagni salmastri; acque interne; fasce costiere; zone ad agricoltura intensiva; aree di concentrazione metropolitana; patrimonio dei beni culturali);

  3. una illustrazione delle attività e degli interventi adottati nel 1972 per la difesa dell’ambiente ad opera degli organi dello Stato (Parlamento, Amministrazioni Centrali, Magistratura), delle Regioni ed Enti locali, delle imprese, delle Università, dei centri di ricerca e di altri operatori; con riferimento all’attività legislativa e regolamentare, all’evoluzione della giurisprudenza, all’andamento della spesa pubblica e privata, alle attività di ricerca scientifica, insegnamento universitario ed informazione di massa, agli accordi, convenzioni ed iniziative di carattere internazionale;

Né soluzioni tecnocratiche, come taluni potrebbero dire visto che il fondamento di pensiero dato alla questione ambientale viene collegato “alla necessità di una armonica composizione delle irrinunciabili esigenze della tutela degli equilibri ecologici da una parte, e della disponibilità di servizi ambientali (di ogni genere: produttivi, ricreativi, culturali, scientifici) dall’altra”. Un principio generale che fa scattare il pericolo di far funzionare il sistema ambiente obbligando la politica a esercitare competenze di specie e a farne rispettare i dettami. Basti che una delle proposte contenute in quella “Prima Relazione” era di creare una “contabilità ambientale” così da esercitare un generale controllo della spesa pubblica per l’azione di tutela dell’ambiente, quindi anche della tutela del patrimonio artistico. Ma nonostante l’indiscutibile qualità del lavoro di ricerca prodotto sia dal Piano Umbro che dalla “Prima relazione” tutto viene fatto cadere nel nulla. E qui va forse ricordato che tutto ciò accadeva a ridosso del movimento del “68” che vedeva nella politica una azione di democrazia diretta, la “immaginazione al potere” per citare solo uno dei molti infantili slogan allora urlati per le strade. Così che per non perdere di vista il vasto e inconsapevole elettorato che si poneva su quelle posizioni tra umorali, dilettantesche e tristemente comiche, all’atto della presentazione a Urbino della Prima relazione scende in campo addirittura Giovanni Berlinguer il quale interviene affermando che:

Alluvione di Venezia del 2019. Foto: gruppo negozianti di Venezia
Alluvione di Venezia del 2019. Foto: gruppo negozianti di Venezia
Alluvione dell'Emilia del 2023. Foto: Cesare Barillà
Alluvione dell’Emilia del 2023. Foto: Cesare Barillà

“La funzione della impresa pubblica [nel caso l’Eni] non può essere dunque quella che si è configurata nella Prima relazione: se essa “vuole sostituirsi alle Regioni e ai Comuni nel delineare l’assetto del territorio o nel gestire i beni indivisibili della collettività come il suolo e le acque”, se l’impresa pubblica vuole “diventare agenzia ambientale dello Stato”, essa incontrerà dalle forze politiche e culturali dai poteri regionali, dall’interno stesso dell’amministrazione pubblica una insormontabile opposizione”.

Un intervento che si commenta ampiamente da solo e che trova sponda nel mondo universitario. Infatti un etruscologo della Università di Perugia si avventura a pubblicare su “l’Unità” un articolo di grande violenza e altrettanta pochezza di contenuti scientifici con cui così stronca il Piano umbro dell’Icr:

“Il Piano pilota dell’Umbria si è rivelato nei suoi due volumi di bassissimo livello culturale e largamente disinformato. Di fatto è un preciso attentato alle proposte avanzate dalle forze di sinistra, e in particolare dal nostro partito [comunista italiano], per una più democratica gestione dei beni culturali (...). In sostanza si affida a forze tecnocratiche [la Tecneco] – sia pur connesse con il capitale pubblico [l’Eni] – la gestione della tutela: l’operazione rappresenta una manovra grossolana, priva di qualunque fondatezza culturale, per consegnare intere fette dello spazio operativo pubblico a gruppi privati nel nome di una rozza ideologia manageriale”.

Pronunciamenti di future rivoluzioni che hanno purtroppo avuto seguito in azioni politiche i cui risultati organizzativi e tecnico scientifici sono oggi sotto gli occhi di tutti e che appaiono in particolare inaccettabili in Emilia perché questa avrebbe dovuto essere il modello di come la sinistra, una volta arrivata al governo dell’Italia, l’avrebbe governata. Un governo del territorio emiliano che, nella realtà dei fatti, ha operato come hanno fatto tutte le amministrazioni pubbliche italiane. Cioè tombando torrenti e fossi poi regolarmente scoppiati alluvionando chi aveva costruito con regolari permessi le proprie case, cementificando centinaia di chilometri quadrati di suolo agricolo, ossia, in anni più recenti, per recuperare l’elettorato green, non ha controllato la “riforestazione amazzonica” degli Appennini, quindi ha favorito movimenti franosi sempre più incontrollabili, non ha pulito gli alvei dei fiumi favorendone l’esondazione e tutto il resto di cui ci aveva detto mezzo secolo fa Marcello Colitti, stretto collaboratore di Mattei e uomo di formazione cattolica che fu il responsabile dell’Ufficio Studi dell’Eni negli anni Prima relazione Nazionale sull’Ambiente:

“Bastarono i dieci minuti dell’intervento di Giovanni Berlinguer alla inaugurazione della ‘Prima relazione sull’ambiente’ per fare naufragare tutto. Cioè per segnare l’atto di morte del tentativo dell’Eni di conquistare un ruolo istituzionale nel settore dell’ecologia. Un grande lavoro e un’équipe di qualità risultarono sprecati. La relazione sui problemi dell’ecologia nel paese non fu più rifatta e la ‘Tecneco’, la società che era stata appositamente creata entro l’ambito Snam Progetti per occuparsi di quei problemi, fallì prima di nascere. Da allora, al discorso ecologico italiano è mancato [e continua a mancare] un elemento fondamentale: un centro di rilevazione e di elaborazione che abbia i mezzi per operare e la capacità tecnica e imprenditoriale, oltre alla credibilità verso il pubblico”.


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