“L’histoire de l’art depuis cent ans est l’histoire de ce qui est photographiable”, la storia dell’arte degli ultimi cento anni è la storia di ciò che è fotografabile. Lo diceva André Malraux nel suo Le Musée imaginaire del 1947, e la sua sentenza potrebbe oggi esser ribaltata: la storia dell’arte degli ultimi anni è la storia di ciò che è instagrammabile. Lo street artist JR, che è francese e probabilmente conosce bene sia Malraux sia Instagram, lo ha capito meglio di chiunque altro: l’arte che ha successo in questo scorcio di XXI secolo è un’arte a misura di Instagram. Che si parli d’un oscuro artista urbano di una periferia polacca o che si parli dello street artist del sistema, che può permettersi di appendere un collage in anamorfosi sulla facciata di Palazzo Strozzi, poco importa: conta far leva sulla presentabilità social della propria opera, che dev’esser immaginata fin da subito affinché renda bene sugli schermi del pubblico. Lo ha candidamente ammesso JR stesso, in un’intervista di oggi al Corriere della Sera: “Questa mia installazione”, racconta, “la si vede meglio quando la si fotografa. L’anamorfosi si vede bene solo da un punto di vista specifico, e l’ho studiato in modo che questa immagine possa essere condivisa il più possibile dai cellulari”.
Meglio, naturalmente, se è tutto in formato gigante. Proprio ieri, su queste pagine, segnalavamo il nuovo libro di Ugo Nespolo, appena uscito: leggendolo ci si sofferma su quel suo, condivisibile o meno, “senso di repulsione-attrazione per quell’arte spettacolo, esteriore, oggi tanto usata e abusata, fatta di mastodontici apparati intrasportabili esibiti sempre come gesto di forza e quindi di potere. Scoramento di fronte alle imposizioni visive di certe presenze immobili, vive - come i baracconi nelle fiere - soltanto fino al giorno del disallestimento”. Un’arte che incanta il pubblico lieto ma che non riesce a commuovere, apparati che, chiosa Nespolo, “sono sempre ininfluenti e dunque mai memorabili”. Arte di consumo (absit iniuria verbis) per un’epoca in cui tutto si consuma. Tonnellate di carta, tela, inchiostro, compensato e materiale vario che alla meglio saranno riciclate dopo aver generato milioni di like, avranno incantato il pubblico e soprattutto i collezionisti, anche se probabilmente senza lasciar grosse tracce. Naturalmente non c’è niente di male: se l’idea è quella di far arrivare l’opera a esser condivisa il più possibile sui cellulari del pubblico, allora sussiste un perfetto allineamento tra i propositi concreti dell’artista e il traguardo.
E questo malgrado La Ferita (questo il titolo dell’opera) non sia così originale o innovativa, verrebbe da pensare. L’idea di aprire uno squarcio sul palazzo per mostrare l’interno (per quanto reinventato per l’occasione da JR, che dentro a Palazzo Strozzi piazza la Venere e la Primavera di Botticelli e il Ratto delle Sabine del Giambologna: nel centro storico di Firenze tutto dev’essere immediatamente riconoscibile e rassicurante, ed è quindi giusto che si levi la consueta ode alle icone) non rappresenta niente di particolarmente innovativo, come mi fa notare l’amico Lorenzo Bonoldi, che ricorda come già nei primi anni 2000 una ditta di ponteggi al lavoro sulla facciata di Palazzo Ducale a Venezia avesse già sperimentato la trovata: per coprire il cantiere era stato installato un poster gigantesco con l’esatta riproduzione dell’interno dell’edificio, a uso di quanti non potevano veder l’esterno che subiva l’intervento. Insomma, si potrebbe pensare che sulla facciata di Palazzo Strozzi sia finita una specie di grosso banner pubblicitario, ben riuscito nel suo intento più riposto.
La Ferita di JR (foto di JR) |
I ponteggi dell’azienda Ecoponteggi sulla facciata di Palazzo Ducale a Venezia nei primi anni Duemila |
Certo: JR ha fatto anche “cose interessanti”, come si suol dire. Ha, intanto, avuto l’intuito d’inserirsi da insider nel solco della pluridecennale tradizione della fotografia di denuncia sociale. Senza però farsi coinvolgere troppo: “il mio progetto”, dichiarò nel 2006 su France 2 che lo intervistò sulla sua opera più famosa, 28 Millimeters, “non è un progetto politico o sociale, è prima di tutto un progetto artistico, motivo per cui io non sono il portavoce dei giovani di Clichy: non cerco di cambiare le cose in questo modo, è un progetto che abbiamo fatto assieme, ma sono molto contento del fatto che attraverso queste opere l’immagine di questi giovani sia bambiata”. Poi, ha strategicamente puntato fin da subito sul gigantismo, ha applicato alcuni paradigmi tipici dell’arte relazionale, ha avuto l’avvedutezza di appendere i suoi mega-ritratti a Gaza e nelle favelas di Rio de Janeiro. Col solito distacco: non vuole profondersi in un impegno diretto, ma si limita a lavorare con le comunità locali “coinvolgendo un pubblico costituito in particolare da gruppi considerati emarginati”, ha scritto la critica Suzanne Lacy, “come partecipanti attivi nella produzione di un programma o di un evento orientato al processo, e politicamente consapevole”. E così è diventato JR, e il passo verso l’istituzionalizzazione è stato breve.
Gli entusiasti gli riconoscono la capacità di dar voce alle comunità che incontra per i suoi progetti. “Più che la foto in sé”, scriveva Forbes, “quello che affascina di JR è il processo artistico e il coinvolgimento delle persone. Ogni suo progetto è un’avventura collettiva che chiama il pubblico a partecipare, e le persone giocano un ruolo vitale non solo come spettatori, ma diventano anche i soggetti e gli attori che scelgono quanto impatto avrà l’installazione”. E JR rincara: è la comunità che crea il progetto. Niente che non abbiano già fatto tanti altri fotografi attivi sullo stesso tipo di contenuti, ma la declinazione di questo modello secondo un mélange che coniuga street art e arte relazionale gli ha garantito il successo.
A Firenze evidentemente dev’esserci stato tuttavia un cambio di paradigma. Dice il direttore di Palazzo Strozzi, Arturo Galansino, che “la nuova opera di JR rappresenta un segnale forte di riflessione sulle difficili condizioni di accesso alla cultura nell’epoca del Covid-19”. In effetti, dopo un anno di arresti domiciliari quasi ininterrotti avvertivamo proprio la necessità di qualcuno che ci invitasse a riflettere su quanto sia difficile accedere alla cultura quando i governi di mezza Europa si ostinano a tenerla chiusa a chiave. Purtroppo è da un anno che riflettiamo (anzi: da molto più tempo, se consideriamo più in generale le condizioni della cultura in Italia), e a quest’opera sembra riuscir difficile l’intento di provocare: appare superficiale, banale, didascalica, accomodante. Non riesce a suggerire niente più rispetto a ciò che mostra, ovvero un divertissement a metà tra le anamorfosi di Julian Beever, lo street artist che dipinge finte voragini sulle strade delle città (ed è sempre andato molto forte sui social, peraltro), le costruzioni di Piranesi e l’estetica escheriana. Non disturba e non sconvolge: e forse mai come in questi mesi avremmo necessità d’esser disturbati per esser chiamati ad agire (in Francia, nel paese di JR, stanno occupando i teatri, con un’azione molto più provocatoria, disturbante e forse anche più artistica). Forse neppure coinvolge, se non per scattare qualche fotografia da postare su Instagram.
È un’opera che, purtroppo, sembra esser perfetta per un artworld che si è estesamente rassegnato alle imposizioni governative (ormai ben introiettate dalla cittadinanza che di fronte ai cambi delle zone di rischio reagisce come quando le dicono che da domani cambiano gli orari dell’ufficio dello stato civile in Comune), e che ormai parrebbe non aver più neppure la forza di chiedere di esser messo nelle condizioni di poter lavorare quando lo si potrebbe fare tranquillamente nel rispetto delle condizioni di sicurezza che il Covid impone, dato che oramai non ci sono più ragioni scientifiche e politiche valide per far continuare la serrata a oltranza, che si spera venga comunque levata al più presto rendendo inattuale il messaggio primigenio di JR. Che da buon stratega probabilmente aveva già pronto il messaggio alternativo nel caso in cui la sua installazione fosse arrivata coi musei già aperti, e altrettanto probabilmente ci avrebbe parlato di libertà, immaginazione creativa e partecipazione come mezzi per ripartire dopo i confinamenti.
Comunque la si voglia vedere, l’opera sembra non andare oltre la retorica da lockdown. Pare quasi la traduzione in immagini delle paternali della politica che non ha mai smesso di ricordarci quanto sia profonda la ferita dei luoghi della cultura chiusi, e che però non è possibile fare diversamente, quindi tocca contentarsi di vederla da fuori, attraverso una riproduzione. Con la sua opera, JR ci rassicura: è come se dicesse che purtroppo adesso la situazione è questa, che dobbiamo contentarci di veder l’arte da fuori, ma presto torneremo a popolare i musei. Un messaggio pop per un’arte pop che piace al pubblico, piace alla politica, piace alla stampa. E che quindi va apprezzata.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).