Guardando e riguardando il telamone di Agrigento, che tanto scalpore ha creato nel mondo degli archeologi (molto meno in quello degli architetti, e non è un caso), mi sono tornate a mente le figure retoriche del mundus inversus raccontate dal grande Tullio De Mauro ai tempi dei miei studi universitari. Un mondo alla rovescia, praticato anche nelle arti grafiche, in cui ruoli e funzioni di esseri viventi e oggetti si invertono: per cui, ad esempio, è l’uomo a trascinare l’aratro guidato dal bue, oppure il ricco pietisce un tozzo di pane al desco di un mendicante, ecc.
In linea di principio il telamone, quale elemento architettonico, ha una funzione statica di sostegno, e infatti è raffigurato in atto di sorreggere con le braccia il peso di ciò che sta sopra di lui, usualmente il tetto di un edificio. Qualcosa di molto pesante insomma. A volte lo si trova con tratti meno massicci, altre volte più marcati, altre volte ancora appena abbozzati. Il mondo antico non aveva bisogno di dettagli estetici che a noi sembrano indispensabili per riconoscere a prima vista un telamone e coglierne i riferimenti mitologici.
Ad Agrigento, nella ricomposizione dei telamoni (quello nel museo, e quello con il nuovo allestimento all’aperto), avviene il rovesciamento di cui parlavo in apertura: il telamone non è solidamente piantato a terra per reggere il peso sopra la sua testa, ma è in qualche misura “sospeso”. Fluttua, leggero. Non so se cogliere un riferimento alla prima delle Lezioni Americane di Calvino, forse sarebbe troppo. Certamente l’allestimento tradisce la reale funzione architettonica dell’originale (c’è una letteratura scientifica ampia sull’argomento della “reale funzione architettonica” dei telamoni rinvenuti, alla quale si rimanda). E se entrambi i telamoni di Agrigento sono “sospesi”, quello del museo per lo meno è collocato al di sotto del soffitto della sala, per cui la scelta museografica adottata permette di renderne la funzione più comprensibile.
Il telamone collocato all’aperto nel parco archeologico sfugge invece alla comprensione funzionale. Sta lì, appeso e basta. Nel supporto che lo ospita si potrebbe forse cogliere la citazione delle incisioni del telamone composte nel corso del XIX secolo. Ma la citazione non regge comunque il paragone: non si tratta solo di un giudizio estetico, perché il suo essere “brutto”, sentimento largamente espresso tra le voci che si sono espresse sull’opera, resta nella sfera del giudizio personale.
Se entriamo nel campo più specifico della tecnica del restauro, dobbiamo farlo ricordando che in questo ambito esistono scuole di pensiero diverse. Nel tempo, hanno prevalso orientamenti opposti. Tagliando il pensiero in maniera piuttosto grossolana, diciamo che nella restituzione dell’antico alcuni sostengono la necessità di armonizzare l’opera ricostruita rispetto al suo contesto specifico, trovando il modo di minimizzare l’impatto visivo delle opere contemporanee necessarie alla ricostruzione. Al contrario, altri sostengono che il contemporaneo non solo non vada nascosto, ma vada evidenziato anche in maniera dirompente.
Quel che è certo è che in questo caso non si è scelto di ricercare armonia e continuità con il contesto e con il paesaggio della Valle dei Templi. Questo monolito scuro che si erge tra gli ulivi verdi, la terra marroncina e il bianco sporco dei reperti circostanti non accompagna silenzioso l’opera che contiene e sostiene. La prevarica tanto nel campo largo (le immagini delle riprese video dei diversi servizi televisivi dedicati sono impietose) quanto nel campo stretto (il telamone è sospeso, e sotto i suoi piedi c’è un ampio spazio scuro in contrasto con la pietra del gigante che certo non passa inosservato). Impatto nel paesaggio non trascurabile.
E poi c’è la questione dei pezzi che compongono il gigante: anche se qualcuno ha provato a negare l’operazione di assemblaggio da opere diverse, è stato lo stesso Alessandro Carlino a chiarire che si tratta di “elementi lapidei omogenei per struttura e ritrovamento” appartenenti forse a più di un telamone. Con alcune integrazioni che, coerentemente con la scelta di non cercare una mimetizzazione nel contesto fatta per il “contenitore” del telamone, non ricercano a loro volta una mimesi con gli altri pezzi: il materiale è diverso e si vede. Discutibile (molto) la lavorazione del volto. Tutto questo rende il paragone con la “Creatura del dott. Frankenstein” (definizione che ha avuto molto successo sui social network) non offensivo, ma puntuale. E se qualcuno si offende, propendo per l’ipotesi che non abbia letto il libro di Mary Shelley, ma si sia fermato alle citazioni cinematografiche. Quasi verrebbe da immaginare che il telamone rialzato, soffrendo per le critiche ricevute, possa rivolgersi ai suoi creatori come il Lucifero di Milton nel Paradiso Perduto: “Sono stato forse io a chiedervi, o Creatori, di dotarmi di questo volto sgraziato? Sono stato io a spingervi a staccarmi dal suolo per sospendermi, pesante e sgraziato, nell’aere?”.
Nel Comunicato Stampa del telamone di Agrigento, che enfaticamente annunciava “si rialza il gigante di pietra”, si ricordano le figure rilevanti del progetto di valorizzazione: Roberto Sciarratta, direttore del parco, architetto; Carmelo Bennardo, curatore del progetto di musealizzazione, architetto; Alessandro Carlino, esperto scientifico del progetto, architetto. L’organigramma del Parco Valle dei Tempi riporta i nomi di: Rosario Maniscalco alla “Gestione siti dipendenti, progettazione, valorizzazione, promozione, manutenzione e restauro”, laurea in giurisprudenza e master in gestione aziendale; Giuseppe Avenia al “Museo archeologico regionale di Agrigento Pietro Griffo”, laurea in economia e commercio. Il “Bilancio di Previsione 2023-2025” al capitolo sul “Personale del Parco”, riporta testualmente: “La suddetta dotazione organica, oltre ad essere notevolmente insufficiente per l’espletamento di tutti i compiti istituzionali, sia amministrativi che tecnici, risulta in atto carente di diverse figure professionali fondamentali quali l’architetto paesaggista, funzionari direttivi tecnici e amministrativi, istruttori tecnici, collaboratori ed operatori da utilizzare per la custodia dei monumenti, delle aree e delle esposizioni”. Non una parola sugli “archeologi”. Tornando al progetto del telamone, Alessandro Carlino, architetto, dichiara: “L’archeologia necessita non di critiche, ma di confronto, ed è quello che c’è stato all’interno del Parco, negli ultimi vent’anni, nel nostro gruppo di lavoro. Il telamone in piedi non è frutto della trovata ingegnosa improvvisata di uno solo studioso, ma si sviluppa dentro un’indagine collettiva sedimentata nel tempo”.
A prescindere dal fatto che il “gruppo di lavoro” di Alessandro Carlino comprenda almeno un archeologo o meno, è evidente che ad Agrigento mancano archeologi nella “stanza dei bottoni”. Ma questa frase può essere formulata anche in maniera più ampia: praticamente in tutti i parchi archeologici siciliani mancano archeologi in ruoli funzionalmente determinanti. E qui si verifica un altro rovesciamento, e capiamo che in Sicilia, regione autonoma, piace fare le cose al contrario. Evidentemente far gestire i parchi archeologici agli archeologi, fenomeno pressoché generalizzato nel continente, sembrava cosa troppo scontata.
Per una casualità temporale lo svelamento del telamone del Parco Archeologico della Valle dei Templi si sovrappone all’uscita (imminente) degli Atti del Convegno Parchi Archeologici. Analisi e proposte (2022) curato dalla storica dell’arte e giornalista Silvia Mazza. In quella occasione presentai un contributo che si intitolava Parchi archeologici e archeologi nei parchi. Un rapporto difficile. In quella sede, evidenziai la puntuale trasgressione della normativa nazionale in materia di coinvolgimento delle specifiche professionalità autorizzate ad intervenire sui beni culturali ai sensi dell’art. 9bis del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. E, con buona pace di tutti gli “interpreti” della normativa nazionale in salsa regionale, quella normativa va applicata senza se e senza ma. Sui beni culturali siciliani devono intervenire, per parte di competenza, archeologi, storici dell’arte, archivisti, ecc.
E se la normativa è chiara, lo è altrettanto l’intendimento della comunità scientifica, supportata da quella politica. Nel 2012 Francesca Ghedini fu invitata a presiedere una commissione ministeriale che produsse delle fondamentali “linee guida per la costituzione e la valorizzazione dei parchi archeologici” (emanate poi con D.M. del 18 aprile 2012). In uno dei passaggi si proponevano cose che in Sicilia evidentemente considerano troppo semplici, come ad esempio la constatazione che nei parchi archeologici “appare fondamentale la presenza di personale quantitativamente e qualitativamente adeguato, in particolare per quanto concerne gli incarichi di direzione scientifica e quelli del comitato scientifico, che deve essere composto di esperti con documentate competenze ed esperienze nella disciplina archeologica coerente con il tema principale del parco”.
Allarghiamo il campo. Area archeologica di Segesta: Direttore e responsabile “Gestione siti dipendenti, progettazione, valorizzazione, promozione, manutenzione e restauro”, Luigi Biondo, architetto. Parco archeologico di Lilibeo-Marsala: Direttore, Bernardo Agrò, architetto. Parco archeologico di Selinunte, Cave di Cusa e Pantelleria: Direttore e responsabile “Gestione siti dipendenti, progettazione, valorizzazione, promozione, manutenzione e restauro”, Felice Crescente, agronomo. Parco archeologico di Morgantina e della Villa Romana del Casale di Piazza Armerina: Direttore, Liborio Calascibetta, architetto; Responsabile “Gestione siti dipendenti, progettazione, valorizzazione, promozione, manutenzione e restauro”, Rosario Vilardo, architetto.
Mi fermo qui, perché proseguire oltre sarebbe pleonastico e avvilente (mentre scrivo, peraltro, apprendo dalla stampa dell’istantanea revoca – dopo due giorni – della nomina di un dirigente al Parco Archeologico di Siracusa sotto inchiesta per detenzione illegale di beni del patrimonio archeologico). Chiaramente il problema non sono i singoli professionisti elencati, che saranno certamente ottimi professionisti nel proprio ambito. Il tema è la totale e persistente resistenza della Regione Siciliana ad applicare la normativa nazionale sui beni culturali. Quando va bene, si cerca una giustificazione a questo in una presunta autonomia regionale in merito, smentita anche dagli organi costituzionali. Molto spesso, soprattutto di recente, non viene ritenuto necessario nemmeno provare a cercare una giustificazione, con atteggiamenti sprezzanti per i quali occorrerebbe citare per intero la famosa battuta del Marchese del Grillo.
E mi fermo qui anche perché proprio al pietoso stato di degrado della Villa Romana del Casale di Piazza Armerina pochi giorni fa ha dedicato un’inchiesta una delle più importanti firme storiche del Corriere della Sera, Gian Antonio Stella. Il quale ha spesso dedicato attenzione all’archeologia italiana, e al mancato utilizzo dei professionisti nel proprio ruolo di competenza da parte della Regione Siciliana. Il 24 luglio del 2013, ad esempio, in un articolo dedicato allo sfruttamento del lavoro degli archeologi da parte di Italgas, allargando il campo alla Sicilia scriveva che “Per decenni i tesori d’arte siciliani sono stati visti non come una ricchezza da tutelare e una straordinaria opportunità turistica ma come uno stipendificio dove piazzare più amici possibili”.
Sulla Villa del Casale hanno già detto quasi tutto Gian Antonio Stella prima, e Andrea Carandini dopo. Cito Stella: “Diciotto milioni furono stanziati, una manciata d’anni fa, per i restauri della maestosa residenza del IV secolo nel cuore della Sicilia (…). Senza un solo archeologo che possa dir la sua. Che se ne fa un assessore regionale alla Cultura come l’attuale (Francesco Paolo Scarpinato, maresciallo dell’Esercito diplomato alla scuola alberghiera e convinto che ‘il 25% dei beni culturali al mondo è in Sicilia’) d’un archeologo messo in un sito archeologico?”.
Ecco, che se ne fa la Regione Siciliana degli archeologi? Apparentemente nulla. Abbondano qui da noi all’Associazione Nazionale Archeologi le segnalazioni di cantieri edili e per opere pubbliche privi di controllo da parte di archeologi. I parchi archeologici sono affidati alla gestione di qualsiasi figura professionale ad eccezione degli archeologi. Una gestione per la quale il più importante archeologo italiano vivente, Andrea Carandini, arriva a pronunciare (con riferimento a Piazza Armerina) parole definitive: “Il mondo ci perdoni questo deprimente degrado che imbarazza la repubblica davanti al globo”.
Come è evidente, in Sicilia sembra banale il mondo in cui ognuno fa quello per cui si è preparato per anni con studi specifici. E quindi, in un rovesciamento di concetti, al Presidente della Regione Siciliana, Renato Schifani, pare opportuno dire che l’innalzamento del gigante di Pietra ad Agrigento “Certifica la grande attenzione del governo regionale per la tutela e la valorizzazione dell’immenso patrimonio artistico e culturale che la nostra Isola custodisce”. Tutela e valorizzazione affidate però a professionalità diverse da quelle previste dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Per il telamone si sprecano le iperboli: “rappresenta uno dei migliori biglietti da visita di Agrigento Capitale della cultura”, dice Schifani; “un nuovo ambasciatore internazionale di un sito archeologico unico al mondo”, afferma Scarpinato, assessore regionale ai Beni Culturali.
Io credo che il miglior biglietto da visita per la Capitale della Cultura sarebbe una doppia valorizzazione: valorizzare le competenze specialistiche per valorizzare il patrimonio culturale. Che è quello che, negli ultimi dieci-quindici anni, si sta finalmente facendo su tutto il territorio nazionale. La Regione Siciliana proceda al più presto ad indire un concorso per rimpinguare la dirigenza regionale di archeologi e professionisti della cultura veri, ciascuno nel proprio ambito di competenza. Le Convenzioni Europee di La Valletta e di Faro hanno tracciato una strada chiara che evidentemente in Sicilia la politica fatica a recepire.
Occorre uscire dal fantasioso mundus inversus nel quale si trova la gestione dei beni culturali in Sicilia e riportare l’archeologia al centro del progetto culturale: l’archeologia è un asset strategico del paese. Non petrolio da sfruttare, magari inquinando. Non tesoro da cavare, magari pensando a come monetizzare. Ma risorsa da gestire e restituire alla comunità e ai territori come energia pulita: dalla cultura si genera, in un processo sostanzialmente infinito, nuova cultura. Il patrimonio culturale deve fare proprio questo, ispirare nuova cultura. E per farlo, servono professionalità competenti e attente.
Il telamone sospeso ad Agrigento e la Villa Romana del Casale a Piazza Armerina sono qui a ricordarci, in maniera diversa, che per i beni culturali siciliani proseguire sulla strada attuale comporta dei rischi concreti. Il rovesciamento di ruoli e funzioni è al centro della cultura, molto italiana, del carnevale: il quale, però, dura solo una settimana. Poi arriva la Quaresima, e si fa penitenza. E forse è il caso che in Sicilia qualcuno cominci a pensare a qualche fioretto riparatore. Poenitentiam agite.
L'autore di questo articolo: Alessandro Garrisi
Archeologo e presidente dell'Associazione Nazionale Archeologi.