Il restauro della Basilica Ulpia? Non proprio entusiasmante


Molto si parla in questi giorni della conclusione dei lavori con cui si è rimessa in piedi “filologicamente” una piccola parte del colonnato della Basilica Ulpia. Con risultati non proprio entusiasmanti. Il punto di vista di Bruno Zanardi.

Molto si parla in questi giorni della conclusione dei lavori con cui si è rimessa in piedi “filologicamente” una piccola parte del colonnato della Basilica Ulpia che giaceva a terra da secoli e secoli nell’area dei Fori Imperiali a Roma e i gradoni che le stanno dietro. Diciamo subito che il risultato estetico non è entusiasmante. Ma sul “bello”, come si sa, quot capita tot sententiae. Un detto che meno vale tuttavia sul piano storico, quindi filologico. Sia perché quel frammento di colonnato e quei gradoni così come li vediamo oggi non sono mai esistiti. Sia, soprattutto, perché di Templi, Fori, Colonne onorarie, Teatri e quant’altro di antico rovinato a terra è colma non solo Roma ma l’intera Italia. Cosa facciamo allora? Sull’esempio “ulpiano” li ricostruiamo tutti come mai sono esistiti e così buttiamo in burla l’Italia del Grand Tour, quella dei Richardson, come di Goethe o di Forster per fare pochi nomi? E, con loro, rendiamo un gioco anche la Roma “quam magna fueris integra, fracta doces” di cui ha scritto oltre mille anni fa Ildeberto de Lavardin, o quella del “De fortunae varietate urbis Romae et de ruina eiusdem descriptio” di Poggio Bracciolini, e qui siamo nel intorno al 1430? Ci riduciamo anche noi a scrivere che Apollodoro di Damasco era “l’archistar” di Traiano? Domande che passo volentieri, prima all’ex sindaco di Roma Marino che, almeno così si dice, di fronte alla enorme cifra di milione e mezzo di euro che gli dava un oligarca russo stretto amico di Putin ha dato il via a tutto questo, poi all’ex Ministro Franceschini la cui “economia della bigliettazione” aleggia all’orizzonte della speciale “disneyland pretesa filologica” appena descritta, e domande che estendo anche all’attuale Sindaco Gualtieri e al nuovo Ministro Sangiuliano.

Infine, per tutti loro e per i lettori di “Finestre sull’Arte aggiungo un testo del 1981 di Giovanni Urbani in cui egli parla anche del Colosseo, così che si possa capire che già quarant’anni fa c’era qualcuno che, del tutto inascoltato, ci diceva che la conservazione del patrimonio storico e artistico dell’Italia e degli italiani è una cosa seria.

Colonna Traiana e Basilica Ulpia (prima del restauro)
Colonna Traiana e Basilica Ulpia (prima del restauro)
Basilica Ulpia dopo il restauro
Basilica Ulpia dopo il restauro

La scienza e l’arte della conservazione dei beni culturali, di Giovanni Urbani (1981)

(in G. Urbani, Intorno al restauro, Milano, Skira, 2000, pp. 43-48)

Credo che assegnando al mio intervento il tema “scienza e arte della conservazione” l’intenzione sia stata di farmi riflettere sulla natura dei rapporti che, allo stato attuale dell’attività conservativa, intercorrono tra i tre soggetti che hanno voce nello specifico: lo scienziato, lo storico e il tecnico del restauro.

Direi che si tratta di rapporti piuttosto buoni, ma che sarebbero decisamente migliori se ciascuno dei tre soggetti venisse liberato una volta per tutte dal dubbio di svolgere un ruolo strumentale rispetto agli altri due, ovvero dalla tentazione di assegnare a costoro questo stesso ruolo.

Per fare degli esempi: non credo che l’archeologia abbia molto da guadagnare dalle suddette “scienze sussidiarie”, che poi non sono altro che degli strumenti di analisi o di misura, come la termoluminescenza o il carbonio 14, escogitati per tutt’altre esigenze e poi risultati applicabili al campo archeologico solo per un caso fortunato. D’altra parte, dall’applicazione all’archeologia di questi strumenti si sono forse avvantaggiati i costruttori degli stessi, ma non sono certo provenuti progressi sostanziali per le scienze nel cui ambito questi strumenti erano stati concepiti e realizzati. Press’a poco la stessa cosa può dirsi della generalità delle tecniche d’indagine oggi applicabili nel campo di nostro interesse. A parte la legittima soddisfazione che può derivare ai ricercatori che per primi ne hanno sperimentato il nuovo tipo d’impiego, e naturalmente a parte il beneficio delle soluzioni così apportate ad alcuni nostri problemi, si tratta in ogni caso di contributi per così dire a senso unico, che cioè non solo non si traducono in progressi della ricerca di base in campo chimico o fisico, che sarebbe forse troppo pretendere, ma nemmeno riescono a determinare le condizioni per la nascita d’una disciplina scientifica autonoma, come a lungo abbiamo sognato che potesse essere la ricerca conservativa.

Con questo, non si tratta certo di abbandonare la partita, ma solo di rendersi consapevoli dei limiti del contributo che possiamo aspettarci dalle scienze sperimentali, fintanto che ad esse non sappiamo assegnare che una funzione strumentale o sussidiaria.

Sul piano dei rapporti di lavoro, da questa situazione deriva una certa difficoltà di dialogo tra specialisti dei beni culturali e scienziati.

Convenuto che l’obiettivo comune è la conservazione materiale dell’opera d’arte, allo scienziato viene subito richiesto di non interessarsi dell’opera d’arte in quanto tale, ma del puro aggregato di materia di cui essa è costituita. Col risultato che allo scienziato, passato il momento gratificante di sedere a consulto attorno all’oggetto famoso e per lui insolito, non resta che tornarsene al suo laboratorio per verificare se, su quel particolare aggregato di materia, è possibile ripetere il tipo di esperienze che gli sono abituali, questa volta però con la riserva mentale che le conoscenze acquisibili non esauriscono, come di regola nel suo lavoro, la realtà ultima dell’oggetto d’indagine, che invece resta riservata alle riflessioni dell’umanista e alle manipolazioni del restauratore.

A queste condizioni, non c’è da meravigliarsi se, fatta e ripetuta un certo numero di volte il tipo d’esperienza, lo scienziato inclina sempre meno a un lavoro da cui non s’aspetta più che produca modifiche sostanziali nel modo in cui la conservazione delle opere d’arte è pensata e messa in pratica da storici e restauratori.

Per modificare questa situazione e far sì che lo scienziato svolga un ruolo non solo strumentale e sussidiario, occorrerebbe con tutta evidenza che questi fosse tenuto responsabile, come lo storico e il restauratore, anche della realtà ultima dell’opera d’arte, cioè dell’opera d’arte in quanto tale e non solo dei suoi materiali costitutivi.

Con questo non si vuole certo dire che lo scienziato debba trasformarsi in uno storico dell’arte o in un restauratore. Gli esempi di una simile versatilità, per fortuna abbastanza rari, non sono finora approdati che a esiti di un magari civile, ma molto poco utile dilettantismo. Il coinvolgimento dello scienziato dovrebbe piuttosto avvenire su un piano bensì comune agli altri due specialisti, ma che abbastanza stranamente non sembra avere finora raccolto l’attenzione che merita da nessuna delle parti in causa.

Mi riferisco al concetto di “stato di conservazione”, cioè a qualcosa che dovrebbe pur costituire il momento centrale di una riflessione portata su una attività che si qualifica come conservativa, e che ciò nonostante risulta tuttora così poco approfondito da non poter essere tradotto che in criteri di giudizio del tutto soggettivi e inverificabili, come appunto è quando si dice di un’opera d’arte che il suo stato di conservazione è buono, mediocre o cattivo.

Qualcuno potrebbe obiettare che a contentarsi di questo tipo di giudizio sono gli storici e restauratori, mentre lo scienziato che caratterizza lo stato chimico o fisico di alcuni campioni dei materiali che costituiscono l’opera d’arte, perviene di fatto proprio a quell’obiettività e precisione di giudizio di cui lamentiamo la mancanza. Sennonché, dello stato di conservazione di ciascun prodotto o manufatto noi a rigore possiamo giudicare con precisione solo in rapporto alla particolare funzione che prodotto e manufatto sono chiamati a svolgere, e che svolgono più o meno bene appunto a seconda del loro stato di conservazione materiale. Ma allora, se è indubitabile che, almeno dal punto di vista della nostra epoca storica, funzione primaria dell’opera d’arte è di stimolare la nostra sensibilità estetica, c’è da temere che il giudizio dello scienziato sullo stato di conservazione dei materiali costitutivi dell’opera d’arte risulti del tutto inutilizzabile, non solo da parte dello storico e del restauratore, ma dello stesso scienziato che, finito l’esame dei suoi campioni, torni davanti all’opera d’arte per verificare se lo stato più o meno avanzato di deterioramento dei materiali esaminati, trovi riscontro in una maggiore o minore capacità dell’opera di svolgere la propria funzione di stimolo della sensibilità estetica.

C’è il rischio non solo che lo stato della materia, come accertato coi mezzi di laboratorio, non trovi nessun riscontro nello stato dell’opera d’arte come accertato de visu col sentimento estetico, ma addirittura che a un grado estremo di deterioramento della materia, faccia riscontro il massimo dispiegamento delle potenzialità estetiche dell’opera.

Faccio l’esempio d’un Renoir che dovrebbe ancora essere nei depositi del Museum of Modern Art di New York, adagiato in piano, come lo vidi quasi trent’anni fa, sul fondo di una grande scatola di cartone che veniva aperta con mille cautele e quasi trattenendo il fiato, ogni volta suscitando nel riguardante un’emozione estetica che andava parecchio al di là di quella, pur considerevole, che qualsiasi altro Renoir avrebbe suscitato. E questo perché, una decina d’anni prima, la casa del proprietario del Renoir era andata praticamente distrutta da un incendio, le cui fiamme avevano però giudiziosamente evitato d’investire il dipinto, che comunque per il gran calore si era ridotto praticamente in cenere, restando tuttavia leggibilissimo come Renoir. Un Renoir anzi unico, date le circostanze, e perciò in un certo senso ammirevole al di sopra della media.

Domanda: quale è il rapporto che intercorre, in un caso del genere, tra la funzionalità propria dell’opera d’arte e lo stato di conservazione dei suoi materiali? Non si tratta di un paradosso ma piuttosto d’una regola, se si considera che la stessa domanda possiamo porcela di fronte a qualcosa di assai meno raro e insolito come un rudere. Facciamo il caso del Colosseo: chiunque è in grado di giudicare che il suo stato di conservazione è pessimo; tuttavia, nessuno saprebbe dirci se e in quale misura la nostra comprensione del Colosseo come testimonianza storica e come opera d’arte è compromessa da questo pessimo stato di conservazione. Si può addirittura azzardare che, ai fini della nostra comprensione storica ed estetica del monumento, non avrebbe alcuna rilevanza se questo perdesse all’improvviso due o dieci dei suoi archi, o magari crollasse per intero.

Ma se le cose stanno così, che senso ha il rituale per cui, se appena l’archeologo si accorge che è venuta giù una pietra del Colosseo, si rivolge al chimico perchè ne analizzi i prodotti di deterioramento, e al restauratore perché rincolli in qualche modo la pietra alla parte da cui si è staccata?

Facciamo l’ipotesi che l’archeologo sia seriamente determinato a trarre delle conclusioni dai risultati delle analisi, in vista di un incarico al restauratore un po’ più impegnativo del semplice rincollaggio della pietra, diciamo pure un incarico di restauro di tutto il Colosseo. Come metterà in rapporto lo stato di solfatazione della pietra e quanti altri risultati di ricerca gli riuscirà di ottenere da geologi, strutturisti ecc., con un progetto globale di restauro che non si risolva in una semplice cosmesi superficiali del monumento, ma ottenga di rallentarne in misura rigorosamente definita il naturale processo di deterioramento?

Non possiamo eludere il problema dicendoci che una simile decisione da parte dell’archeologo di qualsiasi archeologo costituisce un’eventualità assai improbabile per mancanza di fondi, inerzia delle amministrazioni e simili. Riconosciamo piuttosto che è il tipo di rapporto che noi intratteniamo con i monumenti del passato, cioè il rapporto basato, come ho già detto, sulla conoscenza storica e sul godimento estetico, a renderci se non soddisfatti del pessimo stato del Colosseo, quanto meno incapaci di progettarne e di attuarne una conservazione efficace. Perché questa senza dubbio comporterebbe sostanziali modifiche dell’aspetto e dell’uso attuale del Colosseo, modifiche non richieste, e anzi forse paventate come “snaturanti”, dal tipo di considerazione storico-estetica in cui teniamo l’arte del passato. Eppure, da cosa dipende se da parte di tutti, compresi gli archeologi e gli storici dell’arte, è avvertita in maniera sempre più pressante l’esigenza di assicurare la “conservazione materiale” dell’arte del passato?

Non possiamo pensare che si tratti d’un imperativo categorico, senza rapporto a ciò che l’arte del passato rappresenta nella nostra concezione della storia dell’uomo. Diciamo piuttosto che nella nostra concezione della storia dell’uomo, in un’epoca in cui l’uomo comincia ad avvertire la terribile novità storica dell’esaurimento del proprio ambiente di vita, certi valori che, come appunto l’arte del passato, testimoniano della possibilità che il fare umano sia integrativo e non distruttivo della bellezza del mondo, cominciano ad assumere, accanto a quella cognita di oggetti di studio o di godimento estetico, la nuova dimensione di componenti ambientali antropiche, altrettanto necessarie, per il benessere della specie, dell’equilibrio ecologico tra le componenti ambientali naturali.

Se le cose, come credo, stanno così, allora è ben comprensibile che, anche se non ha rilevanza sul piano della comprensione storica e del godimento estetico, il cattivo stato dei nostri monumenti susciti in noi la stessa apprensione e volontà di recupero che sentiamo di fronte alla natura devastata. Così come è ben comprensibile che, di fronte al degrado delle nostre città, ci divenga intollerabile che a “tirare la volata” del sempre più rapido processo di deterioramento dell’ambiente urbano, sembrino essere proprio i monumenti, e cioè quei valori in cui invece, per un altro verso, andiamo riconoscendo le condizioni prime per una vita urbana a misura d’uomo. Un riconoscimento che, con tutta evidenza, non può più limitarsi a prendere atto del monumento per così dire a distanza, cioè come oggetto di studio o di contemplazione estetica, ma deve tentare di riportarlo nella dimensione di un oggetto d’esperienza attuale; in altri termini: nella dimensione di un prodotto ancora aperto al fare umano, su cui cioè, con azioni necessariamente nuove e diverse, possiamo riacquisire e ripetere l’esperienza dell’unica forma di attività che non ha mai devastato il mondo: l’attività creativa.

In altri tempi, quando l’esperienza dell’attività creativa pervadeva quasi ogni aspetto della vita della collettività, e perciò prendeva forma non solo nel grande monumento artistico, ma nell’intero organismo della città, la conservazione del prodotto creativo poteva attuarsi come un processo vitale: con la sostituzione spontanea di nuovi prodotti creativi a quelli consunti dal tempo o comunque usciti dall’uso.

La conservazione che noi possiamo attuare non può purtroppo far conto su questa capacità di autorigenerazione, cioè non può esplicarsi con la creazione di nuove opere d’arte, ma solo col mantenimento a tempo indeterminato di quelle esistenti. Siamo con ogni evidenza nell’ovvio. Ma dovrebbe essere altrettanto ovvio che così ci assegniamo un compito a rigore ineseguibile o comunque a termine, dato che è legge indefettibile della termodinamica che nulla possa conservarsi immutato a tempo indeterminato. La scelta è allora tra due diversi processi di mutamento: quello che è comunque nella forza delle cose, e che prima o poi dovrà necessariamente concludersi con la scomparsa di ciò che avremmo voluto conservare; ovvero un mutamento che sia il prodotto di una conservazione finalmente efficace, cioè capace di ripetere l’esperienza creativa del passato non in termini di fare artistico, che ci sono definitivamente preclusi, ma in termini d’immaginazione scientifica e d’innovazione tecnica.

Facciamo ancora una volta il caso del Colosseo. L’improbabile decisione di tentarne il restauro sarebbe oggi comunque vanificata da due ostacoli insuperabili: la nostra incapacità di riferire in termini oggettivi del suo stato di conservazione, e quindi l’incongruenza di un intervento, di qualsiasi tipo d’intervento, che pretendesse di riparare a uno stato di conservazione non definito.

Tutto porta dunque a credere che se la scienza ha un servizio da rendere al restauro, questo servizio è di mettere in chiaro cosa debba intendersi per stato di conservazione. Se è misurabile la velocità con cui si allontanano le galassie a milioni d’anni luce, così come, all’estremo opposto, il tempo di dimezzamento della radioattività di un materiale, non si vede perché non debba esserlo la velocità con cui si deteriora il Colosseo, il passo tenuto dall’informe per prevalere sulla forma. Misura anomala quant’altre mai, perché da riferire “in qualche modo” a ciò che nell’opera non è assoggettabile a un calcolo razionale: la qualità artistica. E infatti facile immaginare, sempre nel caso del Colosseo, quanto poco tale qualità risentirebbe della perdita anche di tonnellate di materiale, e invece l’effetto devastante d’una fenditura, per quanto minima, che s’aprisse su una statua di Michelangelo (con in più la variante dell’entità dell’offesa: se arrecata a un volto o a un panneggio ...).

È però anche da considerare se queste difficoltà concettuali bastino a vanificare l’ipotesi d’una misura portata su stato di conservazione e velocità di degrado, ora che la scienza ha appena cominciato a confrontarsi con l’informe e col caos. Perciò diciamo che la soluzione del problema conservativo va cercata entro questo nuovo campo di speculazione teorica. Impresa che quanto a immaginazione creativa non sarebbe da meno di quella dell’arte del passato, così finalmente conservata nell’unica maniera che importa: come matrice di una rinnovata esperienza del fare creativo, e non più solo come oggetto di studio e di contemplazione estetica. Oggetto che non può certo essere abolito o riformato dall’innovazione scientifica, ma al quale questa riuscirebbe forse ad aggiungere ciò che studio e contemplazione non sono in grado di assicurare: l’integrazione materiale del passato nel divenire dell’uomo e delle cure impostegli dal suo essere al mondo.


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