Fanno notizia le sfide difficili e gigantesche che i musei stanno affrontando in questo momento, in tutto il mondo. Il Covid-19 ha tenuto chiusi musei in ogni angolo del globo e, come ci si aspettava, li ha lasciati con nient’altro che la loro presenza online. Adesso più che mai conta far ritornare quel pubblico museale che mancava e continua a mancare per svariati motivi. Google Arts & Culture sembrava la soluzione ideale ed anche se riusciva in un primo momento a funzionare come il portale d’eccellenza per i musei durante il lockdown, MuseumHack ha messo subito in chiaro che forse non è stato proprio così. Già si sapeva che le visite virtuali continuavano ad essere una percentuale piuttosto bassa sull’arco di un decennio. Fatto sta che senza una strategia digitale, la rilevanza così tanto ambita dai musei durante la crisi attuale (la stragrande maggioranza senza un pubblico di visitatori) diventa di difficile gestione. Le strategie necessarie non potranno riguardare solo le visite virtuali che sarebbe solo un tassello, anche se importante, di una gamma più ampia di soluzioni da implementare in maniera più che mai organica, passo dopo passo così da gestire in parallelo le necessità immediate da una parte e l’efficacia delle soluzioni adottate sul medio e lungo termine. Finestre sull’Arte ha fatto il punto della situazione qualche settimana fa.
Musei come il Louvre, il Metropolitan e il British Museum (solo per menzionarne alcuni), hanno la conoscenza, le risorse e le competenze per adattarsi e reagire, spesso facendo ricorso alla presenza social che hanno costruito negli anni. Anche prima dei tempi della Pandemia, sono stati quelli che esploravano una possibile identità virtuale-fisica, almeno nel loro ethos. Possiamo di sicuro citare il Metropolitan che considera la sua presenza online come la sua quarta sede (in aggiunta al Main Building, ai Cloisters e al Met Breuer). Il Museo Nacional del Prado di Madrid ha una presenza online che aspira a porsi alla testa di un’esperienza museale più aperta e accessibile in senso allargato, utilizzando i dati per migliorare la ricerca, le pubblicazioni, le iniziative editoriali, la comunicazione, più che per far sì che i dati stessi vengano rielaborati al fine di essere riutilizzati da terzi.
I fatti sono abbastanza chiari. Molto di quello che si sta discutendo nell’ambito delle soluzioni da adottare per questi tempi difficili è stato già sperimentato ed in alcuni casi implementato. E questo sicuramente il caso della reazione immediata partita più che altro da quello che i musei avevano già in cantiere che si poteva adottare. Il progetto #UffiziDecameron delle Gallerie degli Uffizi, per esempio, era niente meno che un tour online. Il suo branding ha fatto sì che venisse percepito come un piano ben preparato e guidato dal volto e dalla voce del direttore degli Uffizi in persona, Eike Schmidt. L’obiettivo dichiarato di Schmidt è stato chiaro: “Evitiamo ogni contagio tranne quello della bellezza”. Di sicuro molto attuale ed incisivo. In un certo senso, una visita guidata del direttore è una delle occasioni più rare nelle quali ci si possa imbattere dentro un museo, ma questo tipo di presenza online non è del tutto nuovo. Il progetto Museo Italia ideato dall’allora direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci, trasmesso nel 2015, è molto in linea con questo approccio. Ad ogni modo, già da qualche tempo i musei hanno cominciato a usare le dirette in streaming per mostrare le loro opere. In alcuni casi, i curatori e i professionisti dei musei hanno anche accettato domande durante le dirette, rendendo la presenza molto più coinvolgente e interattiva.
Ma è anche questo il caso all’estero? Scelgo qui il caso del MuseoX di Pechino costretto a posticipare la sua data di riapertura, e che nel frattempo ha lanciato uno spazio virtuale interattivo, dando alle persone l’opportunità di esplorare l’istituto dalle loro case. Non è uno dei tanti tour virtuali simili a quelli disponibili su Google Arts & Culture. Il sito, creato dall’artista Pete Jiadong Qiang, è impostato come una sorta di gioco dove gli utenti diventano giocatori liberati dalle leggi della fisica e dell’architettura non appena cominciano a muoversi nello spazio del museo.Il progetto non è stato concepito come una reazione alle misure di restrizione degli accessi rese necessarie a causa della pandemia del coronavirus, ma di sicuro ne è stato fatto buon uso. Come un romanzo alternativo alla tradizionale esperienza museale, il sito completa le attività fisiche del museo e, come giustamente sottolineato dal curatore del museo Poppy Dongxue Wu, cerca di rompere i modi con cui le persone fino a oggi utilizzavano i siti dei musei. Secondo le parole stesse di Dongxue Wu: “nutro sospetti su come, oggi, le piattaforme online dei musei ancora seguano le logiche del web 1.0, producendo contenuti con interattività minima... la gamification dell’esperienza rientra nell’obiettivo di stimolare la partecipazione e la curiosità”. Di sicuro si tratta di uno dei più interessanti sviluppi per quanto riguarda l’interfaccia web dei musei. E di sicuro è un progetto promettente e da seguire!
José Manuel Ballester, A place for rebirth (2009; stampa digitale su tela) |
I musei di piccole e medie dimensioni, invece, hanno lottato per respirare e alcuni dovrebbero essere encomiati per il coraggio che hanno dimostrato nel prendere in mano la situazione. Può darsi che sia il caso del principio della sopravvivenza del più forte, ma questo momento potrebbe anche essere il catalizzatore di un cambiamento della cultura che potrebbe modificare in modo permanente il modo in cui i musei definiscono se stessi e operano. Alcuni hanno scelto di ibernarsi completamente e di aspettare la fine della tempesta. Comprensibilmente, molti avvertono il forte impatto della drastica riduzione delle entrate che provengono dalla bigliettazione: meno entrate significano meno eventi e programmazione. Quelli che non hanno risorse finanziarie o governative per superare la tempesta potrebbero affrontare il rischio di chiudere. Stiamo affrontando il rischio di ritrovarci con un paesaggio museale gravemente ridotto nello scenario post-pandemico? In Olanda si parla sempre di più di un numero significativo di musei che non rimarranno chiuse in maniera permanente: sono cento musei, quasi il quarto dell’ecologia museale olandese, molti dei quali sono di piccole o medie dimensioni.
Lezioni apprese con le cattive?
La risposta, almeno in parte, arriva dall’Oakland Museum in California, e si tratta di una risposta che paradossalmente è stata pubblicata poche settimane prima che l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarasse la pandemia di coronavirus. Per questo museo, il successo si misura con l’impatto sociale. In breve, grazie ai dati in suo possesso, il museo ha deciso di evitare di concentrarsi troppo sull’incremento e la diversificazione del suo pubblico. Al contrario, il museo ha cercato di dare una risposta a una domanda molto semplice: “qual è la differenza che stiamo cercando di fare nel mondo?”.
La necessità di adattarsi, modificarsi e ripensarsi potrebbe essere questione di sopravvivenza, e uno scenario post-pandemico potrebbe lasciarci con un nuovo genere di netizen museali. Ci sono dunque tre possibili reazioni sul medio e lungo termine, che sono state discusse a lungo e che di sicuro per molti potrebbero non essere nuove.
José Manuel Ballester, A place for Annunciation (2007; stampa digitale su tela) |
A. Considera i tuoi asset come una risorsa da poter mettere a disposizione non soltanto di esperti e conoscitori
Non si tratta però di affittare le sale o di ospitare eventi avulsi dal contesto nel tuo museo. Il problema con queste soluzioni di corto raggio è che raramente sono costruite sulle unique selling proposition del museo. Si tratta invece di allargare le proprie competenze in modo da includere utenti esperti non tradizionali, e in questo modo il museo può allargare il suo pubblico potenziale, diventando rilevante per un pubblico sempre più ampio. Ci sono storie da raccontare, idee da esplorare, linguaggi da imparare, informazioni da dare... che vanno ben al di là della stretta lettura della collezione del museo.
B. Cerca l’opportunità di negoziare significato più che di dichiarare significato
Questo significa innescare un cambiamento culturale. I curatori con un background accademico nella disciplina che pertiene alle collezioni del museo spesso ritengono che sia difficile abdicare ai propri toni ufficiali quando si tratta di modellare significati e riconoscere valori. Scegliendo di negoziare un significato e dando vita a un insieme polifonico di opinioni e reazioni al di là delle versioni ufficiali, il tuo museo può aprirsi a un più allargato senso di proprietà e a esperienze partecipate che, nel tempo, possono trasformare l’istituzione-museo in uno spazio culturale pubblico.
C. Considera l’identità del tuo museo come fisica e virtuale allo stesso tempo
Con una base di esperti allargata per includere un portfolio più vario e interdisciplinare, e con le competenze curatoriali che diventano più focalizzate sul negoziare significati e sul rafforzamento delle esperienze partecipative, un’esperienza fisica-virtuale non dovrebbe essere soltanto un’ambizione dichiarata.
Potrebbe trattarsi di costruire ponti con i tuoi pubblici per raggiungerli durante momenti in cui hai una storia da raccontare che è rilevante per il momento attuale. Puoi acquisire la giusta flessibilità per fornire servizi di cui la tua comunità necessita e che possono prendere vita dalla tua principale risorsa (la tua collezione). La tua identità virtuale può essere molto più articolata e capace di assumere una portata molto più vasta, così da non includere soltanto un vasto programma di presentazioni, dirette in streaming ed esperienze interattive che sono centrate sul pubblico e utili per il momento attuale. In breve, si tratterebbe di riconoscere l’empatia come un tuo valore guida. Il tuo museo esiste per la tua comunità, e le persone che ne fanno parte diventeranno i tuoi abitanti quando tu sarai lì per loro quando sarà il momento!
Tutto queste potrebbe relegare la tradizionale visita al museo a diventare nient’altro che la frazione di una relazione molto più ampia, lunga e capace di arricchire.
José Manuel Ballester, Royal Palace (2009; stampa digitale su tela) |
Le immagini nell’articolo sono dell’artista spagnolo José Manuel Ballester.
Questa opinion piece è una versione di quella pubblicata su The Humanist Museum riportata anche dall’American Alliance of Museums come lettura raccomandata.
L'autore di questo articolo: Sandro Debono
Pensatore del museo e stratega culturale. Insegna museologia all'Università di Malta, è membro del comitato scientifico dell’Anchorage Museum (Alaska) oltre che membro della European Museum Academy. Curatore di svariate mostre internazionali, autore di svariati libri. Scrive spesso sui futuri del museo ed ha il suo blog: The Humanist Museum. Recentemente è stato riconosciuto dalla Presidenza della Repubblica Italiana cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia e dal Ministero della Cultura Francese Chevalier des Arts et des Lettres per il suo contributo nel campo della cultura.