Da diversi anni non ha molto senso fare il classico “best of” riferito all’arte contemporanea. Questo perché stiamo attraversando, da almeno quindici-vent’anni, una fase neo-manierista e di transizione. Le liste, con il meglio dell’anno appena passato, possono servire a rinfrancare le istituzioni e le pubbliche relazioni in vista di nuove collaborazioni per l’anno che verrà, ma non possono davvero servire a farci capire molto dell’arte contemporanea e della crisi che questo ambito vasto, abusato e scivoloso, sta attraversando.
Negli ultimi quindici anni è emerso che più gli artisti sono giovani e più si rifugiano in linguaggi derivativi del secolo scorso. Il manierismo c’è sempre stato ma, nel 2024, dopo il passaggio del 2001 dal postmoderno all’altermoderno, questo manierismo va completamente a disinnescare l’opera, rendendola una sorta di complemento d’ arredo pretenzioso, quello che nel 2009 ho chiamato “IKEA Evoluta”. Ancora più grave quando le giovani generazioni sono affette dalla “Sindrome del Giovane Indiana Jones”, ossia assumono posture rigide e nostalgiche in modo ancora più evidente e marcato, con opere d’arte che fanno riferimento all’immaginario archeologico, all’informale degli anni Cinquanta, alla rielaborazione didattica dell’arte povera, agli antichi romani o al mercatino d’antiquariato sotto casa. La citazione ricade in modo feticistico su se stessa senza diventare un ponte per affrontare il nostro presente, ossia quello che è il compito fondamentale dell’arte contemporanea. Questi sono stratagemmi, più o meno inconsci, per acchiappare l’attenzione nei pochi secondi concessi in fiere e biennali, e per caricare l’opera di valori apparentemente “sicuri”, come accade oggi per tutto ciò che è antico e vintage.
Paradossalmente, l’arte contemporanea italiana e internazionale si salva solo con il recupero dei venerati maestri, ovvero il moderno, da Van Gogh agli anni Settanta, che, oltre a farci apprezzare il vecchio monile riscoperto nel forziere della nonna, permette anche al mercato dell’arte di sopravvivere. Le contrazioni del mercato contemporaneo che si sono registrate nel 2024 sono solo le conseguenze di un mercato speculativo che abbiamo visto negli ultimi anni, e che ha completamente perso quella capacità critica fondamentale per stimolare la qualità dell’arte che chiamiamo “contemporanea”, non solo perché contemporanea a noi, ma perché realizzata e ideata da artisti emersi dopo il 2000. Siamo al paradosso per cui i “migliori” artisti “contemporanei” sono quelli emersi negli anni Novanta, come il nostro Mautizio Cattelan, che però oggi hanno più di sessant’anni. Dopo il 2001 tutto si congela, anche a livello internazionale, e alla sovrapproduzione di artisti derivativi e omologati non corrisponde nessun percorso artistico realmente rilevante. Come se tutto fosse congelato e sospeso.
Il valore dell’opera sta nelle attitudini da cui precipita, sta nel “come” e non tanto nel “cosa”. Quindi se un giovane usa un’attitudine di settant’anni fa è come se volessimo curare una polmonite con tecniche di settant’anni fa. In parte funzionano: se elaboriamo Kounellis e la Transavanguardia un po’ la cosa ci piace, perché le abbiamo già negli occhi. Ma stiamo perdendo enormi opportunità. Si vendono opere a milionari e stramilionari, ma poi si appiccicano frettolosamente tematiche etiche e morali alle opere senza che queste affrontino realmente tali questioni. Esempio: per affrontare il femminismo non basta disegnare un corteo femminista.
Con mostre e biennali caotiche dove non emerge nulla, abbiamo una fiera a settimana. Le fiere caratterizzano il sistema dell’arte e diventano pericolosamente il luogo dove “seminare” e “raccogliere”. Questa situazione costringe gli artisti contemporanei ad uno strabismo che peggiora ulteriormente la qualità, per lo più in situazioni super caotiche dove vediamo migliaia di opere in poco spazio e in poco tempo. In questo caos competitivo i valori vengono livellati, tutto tende alla mediocrità, e gli artisti contemporanei, già omologati e deboli, diventano debolissimi e intercambiabili. Ecco che paradossalmente la figura dell’artista e dell’opera perdono ulteriormente importanza e centralità condannando ulteriormente tutto il sistema.
Negli ultimi anni mi sono rapportato con alcune gallerie e collezionisti. Per fare la mostra in determinate gallerie, come artista giovane o metà carriera, devi in qualche modo elaborare i linguaggi derivativi, ti devi omologare. Questo messaggio è evidente per illudere il gallerista nel riuscire a vendere qualcosa. E anche se si riesce “a vendere qualcosa”, questi artisti, essendo manieristi, sono condannati a mimetizzarsi e perdersi completamente. Quindi il risultato finale è una sconfitta per tutti: l’artista che vende tre opere e poi si perde, il collezionista che ha acquistato e poi perderà completamente di vista l’artista, il gallerista che non riuscirà a sostenere minimamente la sua galleria in futuro. In altre parole, bisogna abbassare la qualità per tentare di vendere qualcosa in un sistema che diventa un circolo vizioso.
Da molti anni è evidente come il problema sia “formativo”, per quanto riguarda artisti e curatori, ma anche “divulgativo”, inteso come la capacità di creare uno spazio di opportunità affinché il pubblico e il collezionista possano appassionarsi. L’arte contemporanea potrebbe oggi avere un ruolo politico e sociale fondamentale come palestra e laboratorio per allenare e sperimentare “nuovi occhi”, ossia cambiare la nostra visione sul mondo e di conseguenza le nostre scelte. A patto però che non diventi, come sta accadendo, un motivo di arredo di interni o di arredo urbano, o qualcosa di completamente decorativo e innocuo, utile solo per giustificare lo stipendio di alcuni curatori e raggirare collezionisti confusi e spesso illuminati solo dal loro cellulare.