Quando si parla delle relazioni tra il movimento Black Lives Matter, l’ondata di protesta senza precedenti cominciata sulla scorta delle uccisioni di George Floyd, Breonna Taylor e Ahmaud Arbery per mano della polizia o di persone collegate alle forze dell’ordine, e il Black Arts Movement degli anni Sessanta e Settanta, il problema è che la situazione negli Stati Uniti sembra cambiare giorno dopo giorno. Qui, per un sinistro scherzo del destino, la pandemia, la crisi economica, la minaccia di un autoritarismo di destra entro i confini nazionali e all’estero e lo scoppio di una feroce protesta di massa, ci hanno portato a fare nuovamente esperienza del 1918, del 1938 e del 1968 contemporaneamente. E, ovviamente, sebbene sia impossibile non considerare quelli che sono stati momenti simili di sconvolgimento sociale, le proteste nate a seguito delle morti di Floyd, Taylor e Arbery non hanno davvero precedenti negli Stati Uniti.
L’equivalente più vicino potrebbero essere le tante sollevazioni delle comunità nere che esplosero in tutti gli Stati Uniti dopo l’assassinio di Martin Luther King nel 1968, nel contesto dei movimenti Black Power e Black Arts. Tuttavia, nel 1968 coloro che protestavano erano per la stragrande maggioranza afroamericani, e le stesse sollevazioni erano confinate ai quartieri abitati dalle comunità nere nelle aree urbane. Le proteste odierne, dapprima pacifiche, ma non di rado sfociate nella violenza, sono molto più multietniche e multirazziali, benché con una leadership nera. Si sono verificate anche nelle località più improbabili, con centinaia (e talvolta migliaia) di persone che hanno marciato o si sono radunate anche in piccole città rurali, in tutte le regioni, oltre che nelle aree urbane.
Il Black Art Movements degli anni Sessanta e Settanta rimane ancora un’importante pietra miliare per capire come gli afroamericani (e altre persone negli Stati Uniti) comprendono ed elaborano questo momento politico. Quando il New York Times ha chiesto al poeta contemporaneo nero Kwame Alexander che cosa stesse leggendo per misurarsi con il momento, questa è stata la risposta: “sto leggendo poesie del Black Arts Movement, perché sono state capaci di rispecchiare in maniera creativa il malcontento delle masse furiose che sono scese in piazza negli anni Sessanta e Settanta, perché sono politicamente galvanizzanti, perché ci ricordano quanto sia bello e buono essere neri. Sono tutte cose che ci servono in questo momento” (“The Poems That Poets Turn to in a Time of Strife”, New York Times, 11 giugno 2020).
Minneapolis, proteste del movimento Black Lives Matter dopo la morte di George Floyd, 19 giugno 2020. Ph. Credit Juneteenth March for Justice |
Il problema della violenza della polizia contro le persone di colore, per cui spesso queste ultime hanno visto (e continuano a vedere) la polizia più come un esercito occupante dentro le loro comunità che come i tutori di una legge imparziale, era già centrale anche per il Black Arts Movement. Praticamente tutte le sollevazioni urbane degli anni Sessanta, prima dell’assassinio di Martin Luther King, nacquero da incidenti che si verificarono a causa della violenza della polizia, o per arresti ingiusti, e qualche volta la polizia attaccò anche gli attivisti del Civil Rights Movement. Naturalmente c’erano anche altre cause: le condizioni abitative precarie, la mancanza di opportunità di lavoro, un’istruzione di livello inferiore, la disparità nell’accesso alla sanità e così via, ma il conflitto con la polizia fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Gli artisti che fecero parte del Black Arts Movement non erano certo i primi artisti afroamericani ad affrontare il tema. Nel racconto Bop di Langston Hughes, del 1949, il protagonista Simple, ovvero il famoso uomo comune di Harlem, sosteneva che le sonorità del bebop nascevano dall’episodio di un ufficiale di polizia che picchiava un nero con un manganello. Ad ogni modo, fu il Black Arts Movement che marcò con forza la violenza e la resistenza dei neri alla violenza della polizia come strumenti di potere razziale nell’immaginario collettivo.
Il Black Arts è stato un movimento d’avanguardia che cercava di raggiungere un pubblico vasto più che una piccola nicchia. Le attività e le istituzioni del Black Arts comparvero in quasi tutte le comunità e in quasi tutti i campus dei college statunitensi che avessero un significativo numero di persone di colore. Anche se le manifestazioni regionali e locali del Black Arts Movement (laboratori, teatri, librerie, gallerie, scuole, letture di poesie, murali, concerti, compagnie di danza, musei, riviste, giornali e così via) furono in contatto tra loro e spesso collaborarono, ogni singola comunità aveva caratteristiche particolari.
Le convizioni politiche dei partecipanti al Black Art Movements variavano dal marxismo rivoluzionario al nazionalismo culturale neo-africanista, e a volte queste istanze si combinavano secondo modalità apparentemente improbabili. Comunque, nonostante questo ampio spettro di convizioni spesso conflittuali, a livello generale si condivideva l’idea della liberazione degli afroamericani e quella del diritto degli afroamericani a determinare il loro destino. Solitamente era anche diffusa l’idea di sviluppare o di recuperare un’autentica cultura nera che fosse collegata al folklore afroamericano, o alla cultura popolare afroamericana. In breve, questa cultura avrebbe dovuto essere di massa, rivoluzionaria, e paradossalmente tradizionale.
Il Black Arts Movement rappresentò le sollevazioni contro la polizia (e contro il sistema rappresentato da questa violenza) come lotte popolari per la liberazione dei neri e per l’autodeterminazione. Queste lotte non erano sempre viste come politiche e fisiche, ma spesso erano culturali e simboliche. Gli stereotipi sui neri furono frequentemente rovesciati: per esempio, un’opera del 1963 di Jeff Donaldson, artista proto-Black Arts, intitolata Aunt Jemima and the Pillsbury Doughboy, raffigura una collaboratrice domestica di colore che resiste all’attacco di un poliziotto. La donna potrebbe anche essere un’attivista del movimento dei diritti civili. In sostanza, Donaldson, fondatore dell’importante collettivo artistico Africobra, ha umanizzato l’immagine mitologica della cuoca nera che decora le scatole dei suoi prodotti da forno per gli scaffali dei supermercati, rivitalizzandola in quanto simbolo dell’orgoglio nero e dell’autoaffermazione. Allo stesso modo, il dramma teatrale The Bronx is Next della poetessa e drammaturga Sonia Sanchez (1968) mette in scena un dramma nel dramma, nel quale un poliziotto bianco interpreta il ruolo di un abitante nero di Harlem e i rivoluzionari neri vestono i panni della polizia: un ulteriore ribaltamento dei tipi sociali nel contesto delle rivolte urbane degli anni Sessanta. La resistenza dei neri alla polizia e alla violenza della polizia contro la comunità è quindi non soltanto una protesta contro i poliziotti razzisti (per quanto sia comunque un aspetto importante), ma è una ribellione contro un più vasto sistema di oppressione e disumanizzazione, e verso l’autodeterminazione collettiva.
Jeff Donaldson, Aunt Jemima and the Pillsbury Doughboy (1963) |
Oggi non viviamo nel 1968. Eppure, le parole “I can’t breathe”, che sono tra le ultime pronunciate da George Floyd mentre veniva soffocato dal ginocchio del poliziotto di Minneapolis Derek Chauvin (e che sono le stesse parole pronunciate da Eric Garner, un nero soffocato a morte da un poliziotto di New York nel 2014), sono diventate un grido di battaglia. Ma anche se questo grido di sicuro sottolinea che la violenza della polizia contro le persone di colore è un rilevante problema sociale, allo stesso tempo solleva un complesso di problematiche di sistema affrontate dagli afroamericani e che non possono essere far notate attraverso i normali canali politici. Come ha scritto di recente Keeanga-Yamatta Taylor, “che la società dei bianchi approvi o disapprovi, non importava negli anni Sessanta e non importa adesso: quello che importava è che i meccanismi formali del cambiamento sociale non sono riusciti a funzionare, costringendo gli afroamericani ad agire per se stessi” ("Of Course There Are Protests. The State Is Failing Black People”, New York Times, 29 maggio 2020). Anche se i tempi sono diversi, il Black Arts Movement e le sue immagini iconiche di scontri violenti tra i neri e la polizia come simboli dell’oppressione del sistema, la resistenza degli afroamericani all’oppressione, e l’imperativo dell’autodeterminazione sono le basi per la comprensione sociale delle uccisioni di Floyd, Taylor e Arbery, e delle proteste.
L'autore di questo articolo: James Smethurst
Esperto di cultura afroamericana, docente al Dipartimento W.E.B. Du Bois di Studi Afroamericani all'University of Massachusstes Amherst. Ha scritto diversi saggi sul Black Arts Movement. Il suo più recente libro è Brick City Vanguard: Amiri Baraka, Black Music, Black Modernity (2020).