Green pass obbligatorio, anche per la cultura (e non solo): dubbi e perplessità


Dai prossimi giorni potrebbe diventare obbligatorio vaccinarsi o presentare un tampone negativo per accedere a molte attività, incluse quelle della cultura. Ma i dubbi e le perplessità non sono davvero pochi.

Una premessa: gli autori di questo articolo sono convinti pro-vax e accesi sostenitori dell’estrema importanza del vaccino anti-Covid per ridurre i rischi connessi alla malattia. Siamo però meno convinti dell’idea di imporre un green pass o certificato verde per stabilire pesanti limitazioni nei confronti dei non vaccinati (a meno che non vogliano costantemente sottoporsi a costosi tamponi). Come è noto, il governo sta studiando la possibilità di introdurre un pass obbligatorio (rilasciato ai vaccinati oppure a chi avrà un tampone negativo) per poter avere accesso a diversi luoghi, compresi luoghi della cultura (ed è questa la ragione per cui scriviamo questo articolo): mezzi di trasporto, teatri, cinema, concerti, ristoranti, bar, discoteche. Il certificato sarà molto probabilmente approvato per decreto, quindi senza passare attraverso una discussione parlamentare: dunque con modalità identiche a quelle seguite per gestire tutto il corso della pandemia.

Al momento, tuttavia, le discussioni sono ancora in corso: mentre scriviamo, le regioni chiedono, per esempio, che il pass per i ristoranti e i locali al chiuso non venga introdotto in zona bianca, e che sia invece necessario sempre per accedere a discoteche e grandi eventi. Sembra invece esclusa l’introduzione del pass per accedere ai musei (in Francia, il paese da cui l’Italia ha mutuato l’idea del green pass, il pass sanitaire sarà invece necessario anche per i musei), ai monumenti, ai siti archeologici. Parrebbe invece più sicura l’introduzione del pass su treni, navi, autobus a lunga percorrenza, stadi nei quali venga superata la capienza del 25%, concerti e grandi eventi, cinema e teatri al chiuso, piscine, palestre e discoteche. Non è dato invece sapere quando le restrizioni entreranno in vigore, anche perché tanti italiani sono in attesa di ricevere la prima dose del vaccino e, dal momento della prenotazione alla chiamata, è possibile che passi anche un mese. Sono dunque aperte diverse soluzioni: certificato a più livelli (una dose per certe attività, doppia dose per altre), oppure anche modulabile sulla base del rischio regionale, e così via.

Premessa: l’efficacia del vaccino e i rischi per fasce di età

Il vaccino contro il Covid-19 è indiscutibilmente utile per ridurre i rischi di ospedalizzazione, conseguenze gravi che richiedano il recovero in terapia intensiva ed esiti fatali della malattia, con risultati naturalmente più apprezzabili nelle fasce d’età più esposte al rischio e nei soggetti fragili, mentre, come si vedrà, nei soggetti giovani e sani il rischio di reazioni avverse gravi derivanti dalla vaccinazione non è molto dissimile rispetto a quello di riportare conseguenze serie dall’infezione. Al momento (il riferimento è l’ultimo bollettino dell’Istituto Superiore di Sanità pubblicato il 14 luglio), in Italia risulta vaccinato con almeno una dose l’89,9% della popolazione con più di 80 anni (83,7% con doppia dose), il 76% della fascia 60-79 (36,1% con doppia dose), il 49,4% della fascia 40-59 (il 19,5% con doppia dose) e il 19,6% della fascia 12-39 (il 9,2% con doppia dose). Le diagnosi di Sars-CoV-2 degli ultimi trenta giorni hanno riguardato l’88,4% della popolazione non vaccinata 12-39, il 71,3% dei non vaccinati 40-59, il 47,7% dei non vaccinati 60-79 e il 35,7% dei non vaccinati ultraottantenni. Il dato di quest’ultima fascia è particolarmente interessante, dal momento che si tratta della popolazione dove è più ampia la copertura vaccinale: negli ultimi trenta giorni, sono stati diagnosticati 302 casi di Covid tra i non vaccinati (35,7%), 58 tra i vaccinati con una sola dose (6,8%) e 487 casi tra vaccinati con ciclo completo (57,5%). Ospedalizzazioni, ricoveri in terapia intensiva e decessi sono però sbilanciati sui non vaccinati, rispettivamente con il 65,5%, l’80,8% e il 65,9% dei casi (sono finiti invece in ospedale 142 vaccinati con ciclo completo, in terapia intensiva 5 vaccinati con ciclo completo, e sono deceduti 55 vaccinati con ciclo completo).

I dati dimostrano dunque che il vaccino non impedisce la circolazione del virus e neppure l’esito letale, ma riduce sensibilmente il rischio. “Se i vaccini non fossero efficaci nel ridurre il rischio di infezione”, spiega l’Istituto Superiore di Sanità, “non si osserverebbero differenze nel numero di casi tra vaccinati e non vaccinati. Le differenze osservate dimostrano che i vaccini sono efficaci nel ridurre il rischio di infezione, di ospedalizzazione, di ingresso in terapia intensiva e di decesso”. Le evidenze suggeriscono, in sostanza, che i casi di infezione nonché quelli di decorso grave della malattia sono in gran parte a carico della popolazione non vaccinata. Ciò detto, è possibile quantificare la riduzione del rischio? Il biostatistico Maurizio Rainisio, basandosi sui dati del bollettino di cui sopra, ha confermato “che i vaccini contro SARS-CoV-2 sono efficaci nel ridurre casi gravi di COVID-19 e decessi, meno nel ridurre il numero di soggetti infetti”: il vaccino, spiega Rainisio, “aiuta a ridurre i contagi del 65-80%, ma non li elimina. È molto più efficace riguardo alle ospedalizzazioni che sono ridotte del 90% circa e ancora di più per le terapie intensive e i decessi, che in tutte le fasce di età sono ridotti di più del 95% nei vaccinati rispetto ai non vaccinati”. In sostanza, conclude Rainisio, “il vaccino protegge bene da malattia grave e morte. Protegge anche dall’infezione, ma in modo meno efficace”. Ulteriori dati sono quelli che giungono, per esempio, dall’Inghilterra, dove le conclusioni sull’efficacia del vaccino sono simili.

Il biostatistico tuttavia rileva anche che “mentre l’efficacia del vaccino è praticamente indipendente dall’età, si nota che l’effetto a livello di popolazione è incomparabilmente diverso a causa della differenza di rischio tra le fasce di età. Per risparmiare un decesso tra i grandi anziani (80+ anni) è sufficiente vaccinarne 274, mentre per quanto riguarda i giovani o giovani adulti (12-39 anni) è necessario vaccinarne 167 mila (600 volte tanti)”. La domanda che ricorre soprattutto tra i giovani è: è più rischioso vaccinarsi o ammalarsi? Ad aprile, il quotidiano spagnolo El País, incrociando i dati di ospedalizzati, ricoverati in terapia intensiva e deceduti in Spagna per fasce d’età con i casi avversi da vaccini a vettore virale (AstraZeneca e Janssen: all’epoca erano gli osservati speciali), ha riscontrato che, per chi contrae l’infezione, l’eventualità di morire di Covid-19 è sempre più alta rispetto a quella di sviluppare una trombosi in tutte le fasce d’età (il calcolo di El País, tuttavia, non tiene conto delle condizioni cliniche pregresse dei casi gravi di Covid). Le cose cambiano al variare dello scenario di rischio: per esempio, in uno scenario in cui su 100.000 persone 2.000 contraggono la malattia, il rischio di trombosi è più alto del rischio di morte da Covid fino ai 39 anni d’età, e lo stesso vale per uno scenario a medio rischio (3.800 contagi per 100.000 abitanti) mentre è simile (1,6 trombosi contro 2 decessi da Covid) in uno scenario ad alto rischio (10.000 casi per 100.000 abitanti). Per la popolazione da 40 anni in su, il rischio di reazione avversa da vaccino a vettore virale è invece sempre minore rispetto alla possibilità di morire di Covid, in qualunque scenario.

Per avere ulteriori riscontri, abbiamo analizzato in maniera grossolana i dati del Canada (perché sono i più facili da reperire e i più facili da incrociare), confrontando i dati su ospedalizzazioni, terapie intensive e decessi per fasce d’età (con riferimento al bollettino del governo canadese del 20 luglio) in rapporto al rischio di reazioni avverse da vaccino segnalate (i dati si trovano sullo stesso sito). È necessario sottolineare che il rapporto canadese definisce “reazione avversa” qualunque evento indesiderato, da quelli più lievi (per esempio una reazione cutanea), fino al decesso, così come è necessario sottolineare che i numeri sono molto diversi rispetto all’Italia (in Canada finora si sono registrate 25,1 segnalazioni per 100.000 dosi, in Italia l’ultimo bollettino dell’AIFA parla di 154 segnalazioni per 100.000 dosi). Non c’è una statistica per età delle reazioni gravi, perché viene fornito il numero assoluto (il 23% del totale). Allo stesso modo, sul numero dei ricoverati non viene presentato il dato sulle condizioni patologiche pregresse (per avere un’idea vaga, ma non confrontabile, si può fare riferimento all’ultimo report settimanale della Svizzera, dove si rileva che il 15% degli ospedalizzati totali non presentava patologie pregresse). Pubblichiamo di seguito i dati grezzi senza commentarli, anche perché è molto difficile trovare dati completi sulle condizioni cliniche pregresse dei ricoverati e dei vaccinati.

Vaccinati in Italia al 14 luglio
Vaccinati in Italia al 14 luglio. Dati Istituto Superiore Sanità


Effetti del vaccino sulla popolazione al 14 luglio
Effetti del vaccino sulla popolazione al 14 luglio. Dati Istituto Superiore Sanità


Il Covid e il vaccino in Canada. Dati del governo canadese, elaborazione nostra
Il Covid e il vaccino in Canada. Dati del governo canadese, elaborazione nostra

Le ragioni del green pass

Per capire perché l’Italia sta per varare l’obbligo del green pass, è possibile fare riferimento alle dichiarazioni della scorsa settimana del commissario straordinario per l’emergenza coronavirus, il generale Francesco Paolo Figliuolo, secondo il quale il certificato potrebbe essere la soluzione per “convincere gli ultimi irriducibili” non disposti a vaccinarsi e raggiungere così la soglia dell’80% della popolazione vaccinata fissata come nuovo obiettivo per scongiurare una capillare diffusione della variante Delta. Quale sia la linea alla base dell’idea di raggiungere il maggior numero possibile di vaccinati, lo si evince da un’intervista del coordinatore del Comitato Tecnico Scientifico, Franco Locatelli, rilasciata lo scorso 16 luglio a Il Fatto Quotidiano: “lasciar correre tra i giovani una variante come la Delta, che ha grande contagiosità”, ha detto Locatelli, “significa creare le condizioni per causare un’infezione di massa. Non dimentichiamoci che esiste una consistente porzione della popolazione non vaccinata oppure vaccinata ma non immunizzata perché poco responsiva ai vaccini”.

Occorre evidenziare che la cifra dell’80% fa riferimento alla copertura vaccinale e non all’immunità di gregge, impossibile da raggiungere poiché il vaccino non ha effetto immunizzante (quelli che più si avvicinano all’immunità al 100% sono i vaccini Pfizer e Moderna che hanno un’efficacia contro il contagio del 95%). È quanto spiegava già a maggio il virologo Fabrizio Pregliasco parlando con l’agenzia ADN Kronos: secondo Pregliasco, non raggiungeremo mai l’immunità di gregge: “si tratta infatti della condizione in cui, secondo modelli matematici, risulta azzerata la diffusione della malattia, e noi non ce la facciamo, nel senso che la malattia diventerà endemica, riusciremo ad abbassare molto l’incidenza e quindi a convivere con il virus. E questo riusciremo a farlo nell’arco di 2-3 mesi”. Secondo il virologo dell’Università di Milano, “anche raggiungendo l’80% di popolazione vaccinata”, obiettivo raccomandato come target di copertura vaccinale dell’Oms Europa, “la malattia risulta quasi spenta ma non si arriva mai all’azzeramento della circolazione del virus”.

A oggi, 20 luglio, risulta coperto con almeno una dose di vaccino il 58,4% della popolazione: siamo dunque ancora lontani dall’obiettivo dell’80% ma, stando ad alcune elaborazioni del Corriere della Sera, abbiamo raggiunto una percentuale di vaccinati tale da aver ridotto la letalità su livelli simili a quelli dell’influenza stagionale. E al momento, a fronte di un massiccio aumento di casi di contagio, si registrano, grazie ai vaccini, livelli di carichi ospedalieri e di decessi di gran lunga inferiori rispetto a quelli del passato. Il primo dubbio sull’introduzione del green pass è dunque relativo a questi dati: non si comprende perché si ricorre a una misura tanto invasiva quando la situazione epidemiologica appare sotto controllo. Forse, sarebbe stato meglio prevedere incentivi per i vaccinati piuttosto che limitazioni per i non vaccinati: in alcuni paesi, per esempio, sono stati introdotti giochi a premio, bonus e lotterie per incentivare chi non vuole vaccinarsi. Ad ogni modo, se verrà introdotto il pass non è chiaro cosa accadrà al raggiungimento della soglia dell’80% di copertura: verrà abolito?

Green Pass europeo
Green Pass europeo

Focus sulla cultura

Sussistono poi i dubbi su quali saranno i luoghi dove verrà richiesto il green pass obbligatorio. I luoghi saranno individuati come quelli coi maggiori rischi di assembramento. E anche in questo caso, la cultura probabilmente sarà uno dei settori più penalizzati. Per adesso non sembra esserci l’intenzione di rendere obbligatorio il certificato verde per entrare nei musei, per andare a vedere una mostra (sebbene mostre e musei siano stati tra le attività più colpite, con lunghe chiusure durante i mesi di confinamento nonostante l’eventualità di contrarre un’infenzione al museo sia molto più remota che in altri luoghi), ma il governo si sta orientando a far ricadere almeno teatri e cinema tra le attività per le quali il passaporto sanitario sarà necessario.

Se tuttavia la guida è quella del rischio assembramenti, ci sono dati teorici ed empirici che suggeriscono i bassi rischi per pressoché tutti i luoghi della cultura, naturalmente rispettando certi parametri (è ovvio che il rischio sale in maniera consistente durante un’affollata inaugurazione di un evento in un museo). A inizio anno, l’Hermann-Rietschel-Instituts della Technische Universität di Berlino aveva condotto uno studio dal quale risultava che musei e teatri sono i luoghi più al riparo dal rischio infezione, se frequentati alla capienza del 30% e con pubblico che indossa la mascherina, il tutto con due ore di permanenza (peraltro è anche il caso di sottolineare come lo studio non tenga conto della vaccinazioni, dato che all’epoca erano appena cominciate e i dati a disposizione erano pochissimi). Lo studio dimostrava che il rischio di contrarre il Covid è, per esempio, alto più del doppio quando si fa shopping (con 10 metri quadri a persona e due ore di permanenza) rispetto a quello che si corre al teatro o al museo, ed è pari a quello che si corre stando due ore senza mascherina in un cinema al 40% della capienza.

È poi interessante rilevare come gli eventi in cui sono state rispettate le norme di base (su tutte il distanziamento) non abbiano prodotto focolai: su queste pagine abbiamo citato spesso il caso della Spagna, dove i musei e i luoghi della cultura sono stati tenuti aperti per gran parte della seconda e della terza ondata, abbiamo riportato le posizioni degli assessori alla cultura che hanno indicato come i luoghi della cultura siano modelli di riferimento per la lotta al virus, senza contare il fatto che luoghi come i cinema e i teatri non sono mai stati all’origine di focolai. Viceversa, il contagio può verificarsi laddove cadano le distanze, come dimostra il caso del Verknipt Festival di Utrecht in Olanda: tenutosi a inizio luglio, ha imposto ai suoi circa 20.000 spettatori l’obbligo di vaccino o tampone per entrare, ma ciò non ha impedito che si producesse un focolaio con circa 1.000 contagiati. Ovviamente in una situazione di diffusa vaccinazione si tratta di una situazione del tutto gestibile (anche perché riguarda giovani nella stragrande maggioranza dei casi) e che non deve destare preoccupazioni, ma è anche indice del fatto che uno dei problemi del green pass potrebbe essere il senso di sicurezza psicologicamente indotto dal patentino, rilevato peraltro anche dal Comitato Nazionale per la Bioetica. I contagi non dovrebbero però essere più un problema se, grazie ai vaccini, gli effetti del Covid diventeranno simili a quelli dell’influenza stagionale: quando ci arriveremo, a meno che non ci siamo già arrivati? C’è poi il tema dello scopo del vaccino: chi si vaccina dovrebbe farlo esclusivamente per scopi sanitari, siano essi egoistici (mi vaccino perché non voglio finire in ospedale e voglio minimizzare il rischio di ammalarmi, qualunque sia la mia fascia di rischio) o altruistici (mi vaccino perché pur rischiando poco voglio contribuire a tenere l’infezione a bassi livelli). Con il green pass si rischia di legare la scelta di vaccinarsi a ragioni che niente hanno a che vedere con l’emergenza sanitaria: mi vaccino perché voglio andare al cinema, mi vaccino perché voglio andare a teatro.

Cinema
Cinema

Problemi: obbligo sì o no, questioni pratiche, costituzionalità

Il green pass trascina con sé anche diversi altri problemi. A seconda della sua estensione, può diventare un obbligo di fatto per poter partecipare alla vita sociale (per chi non vuole vaccinarsi potrebbe essere economicamente insostenibile farsi un tampone ogni due giorni, senza calcolare la scomodità dei test). Tuttavia, l’obbligo di fatto, come rileva Aldo Rocco Vitale sul quotidiano L’Opinione, “è un modo istituzionalmente scorretto per indurre la popolazione a vaccinarsi senza le cautele giuridiche opportune che sono necessarie in uno Stato di diritto in genere e come previste dalla nostra Costituzione in particolare”. La Legge 210/92 riconosce infatti un indennizzo ai soggetti danneggiati in modo irreversibile da vaccinazioni obbligatorie: non essendo tuttavia la vaccinazione anti-Covid obbligatoria, l’indennizzo non verrebbe riconosciuto. Ci si domanda dunque perché non si è valutata l’adozione dell’obbligo vaccinale per le fasce più a rischio, a fronte del riconoscimento di un indennizzo, piuttosto che valutare l’introduzione di un obbligo de facto per tutti (probabilmente è perché si tratta di vaccini ancora in fase sperimentale). Inoltre, nota ancora Vitale, “proprio la Corte costituzionale, di recente, nel bel mezzo della crisi pandemica del 2020, ha statuito, con la sentenza 118/2020, che l’indennizzo per effetti collaterali deve necessariamente estendersi anche ai vaccini soltanto consigliati (come per ora sono quelli anti-Covid) purché, oltre l’ovvio effetto causale tra inoculazione e danno all’integrità psico-fisica, sussista un affidamento del paziente in base a una campagna pubblica di vaccinazione (requisito evidentemente presente nel caso della vaccinazione anti-Covid, specialmente se indotto dal green pass)”.

Ci sono poi questioni di natura pratica. Se ci si prenota per il vaccino, non è detto che si riesca a ottenere la propria prima dose in tempi ragionevoli (tenendo conto del fatto che quasi metà della popolazione italiana non si è inoculata neppure la prima dose). I più giovani rischiano pertanto di dover completare il ciclo vaccinale in autunno: se l’obbligo di green pass viene introdotto prima (si parla già del mese di agosto), cosa dovranno fare coloro che vogliono vaccinarsi, ma sono in attesa? Un ragazzo di 25 anni che si è prenotato e completerà il ciclo a ottobre, per due mesi dovrà sottoporsi a tamponi frequenti, se tenuto a frequentare luoghi in cui il pass è richiesto (molto banalmente, se deve prendere tutti i giorni un treno per andare al lavoro)? La logica dovrebbe suggerire l’introduzione di tamponi gratuiti (che comunque non risparmiano la scomodità a chi deve sottoporvisi) per chi si è prenotato, correndo il rischio che i no-vax impenitenti si prenotino e disdicano di continuo fino a emergenza finita per non pagare i tamponi. In caso di tamponi a pagamento, si produrrà una grave e inaccettabile discriminazione dettata solamente dai tempi burocratici, e che peraltro colpirà anche chi intende aderire alla campagna vaccinale. Se invece si attenderà che una buona percentuale di italiani si sia vaccinata, a cosa servirà il pass se verrà raggiunta o quasi la soglia di copertura dell’80%? In caso di introduzione repentina c’è poi da valutare il contraccolpo che potrebbero subire le attività già martoriate dall’emergenza: cinema, teatri, bar, ristoranti e così via. Chi è in attesa di vaccinarsi e deve farsi un tampone per andare al cinema, probabilmente sarà portato a non andare.

In merito alla costituzionalità del green pass, è utile riportare i due opposti orientamenti: quello favorevole di Giovanni Maria Flick e quello contrario di Ginevra Cerrina Feroni. Flick ritiene che “l’attuale ordinamento costituzionale consenta di rendere obbligatoria la vaccinazione, in base agli articoli 16 e 32 della Costituzione che tutelano rispettivamente la libertà di circolazione (quindi la possibilità di socializzazione) e la salute intesa come diritto fondamentale di tutti i cittadini e come interesse di tutta la collettività, soltanto attraverso una legge. È quindi giuridicamente consentita l’introduzione del Green Pass. Vi è la possibilità di pensare a una vaccinazione obbligatoria soprattutto per alcune categorie professionali che lavorano al chiuso, in posti affollati e a contatto con i fragili e i minori. A mio avviso bisogna persuadere le persone il più possibile a vaccinarsi con un’informazione adeguata; altrimenti occorre, in seguito a un parere tecnico scientifico degli organi competenti, che la politica decida se limitare non la libertà personale ma quella di circolazione. Occorre salvaguardare non solo la salute del singolo, ma anche degli altri e della collettività ed è compito della politica subordinare la socializzazione al vaccino. Solo le persone che per motivi di salute non possono vaccinarsi debbono essere esentate. La libertà del singolo in questi aspetti va coordinata con il principio della solidarietà e dei suoi doveri inderogabili, come ricorda l’articolo 2 della Costituzione”. Così invece Cerrina Feroni: “A cosa servirà il certificato verde? L’indeterminatezza potrebbe aprire ad usi sproporzionati del certificato, magari con differenze tra Regione e Regione, non solo per partecipare a un grande evento (il che può essere ragionevole), ma magari per andare al ristorante, al teatro o per esercitare diritti-doveri fondamentali, come andare a scuola o al lavoro. Il rischio cioè è che l’obbligo vaccinale, pur in assenza di legge,lo diventi in modo surrettizio. È il cuore del costituzionalismo. Ci vuole cautela”.

Cosa fanno gli altri paesi

Un ultimo sguardo, infine, a come si stanno comportando gli altri paesi. Al momento, l’unico paese che medita l’introduzione di un pass sanitario è la Francia, dalla quale, come detto, l’Italia ha copiato l’idea. Negli altri grandi paesi nessuno ha ancora avanzato proposte simili. Anzi: in Germania, la cancelliera Angela Merkel ha escluso la possibilità d’introdurre misure coercitive, appellandosi piuttosto alla ragionevolezza dei cittadini. Nel Regno Unito, lo scorso 19 luglio è stato dichiarato il “Freedom Day”, il giorno della libertà dalle restrizioni in vigore, nonostante il grosso aumento di casi (che però al momento, grazie ai vaccini, non stanno causando particolari problemi), e nonostante alcuni musei (come il British Museum e la National Gallery) abbiano mantenuto in vigore il distanziamento, l’obbligo di mascherina e la capienza ridotta, stante l’andamento dei contagi nel paese. Nessun obbligo di certificato neanche in Spagna. Tra i paesi più piccoli, un pass simile a quello che si vuole introdurre in Italia è presente, da aprile, in Danimarca: si chiama “Coronapas”, è rilasciato a chi è vaccinato, a chi è guarito da almeno un anno o a chi presenta un tampone eseguito nelle 72 ore, ed è necessario per musei, cinema, parchi divertimento, zoo, palestre, palazzetti dello sport, stadi, parrucchieri, spa, bar e ristoranti al chiuso. Insomma: praticamente ovunque. Pass simili sono stati introdotti anche in Lettonia (per cinema, spettacoli, bar e ristoranti all’interno), Austria (per ristoranti, hotel e locali notturni), Portogallo (solo per ristoranti al chiuso, e solo nei comuni più a rischio), Lussemburgo, Cipro. A breve verranno varati pass anche in Irlanda e in Grecia.

Infine, si rileva che i tassi di popolazione vaccinata non sono in alcun modo correlati alla presenza di coercizioni: ovvero, nei paesi dove sono in vigore pass per partecipare alla vita sociale non si registrano tassi di popolazione vaccinata molto più alti rispetto a quelli dei paesi dove non sussistono limitazioni per i non vaccinati. Facendo riferimento ai dati diramati quotidianamente da Lab 24 de Il Sole 24 Ore, oggi, 21 luglio, in Italia almeno il 61,70% della popolazione ha ricevuto una dose. Ecco le percentuali degli altri paesi: Francia, 54,42%; Germania, 59,24%; Regno Unito, 68,20%; Spagna, 62,10%; Danimarca, 67,38%; Lettonia, 38,42%; Austria, 57,11%; Portogallo, 64,70%; Cipro, 56,40%. Altri paesi dove non ci sono pass: Norvegia, 58,90%; Svezia, 58,34%; Finlandia, 64,35%; Svizzera, 52,10%; Belgio, 66,50%; Paesi Bassi, 67,69%.


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo





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