Giotto in aeroporto? Il vero tema è il nostro rapporto con il patrimonio


Come giudicare l’esposizione di alcuni frammenti di una vetrata disegnata da Giotto all’aeroporto di Roma? Il tema non è la fragilità dell’oggetto, ma è semmai il nostro rapporto con il patrimonio. 

Mi si chiede da “Finestre sull’Arte” un parere sulla esposizione all’aeroporto di Fiumicino di tre grandi pannelli della vetrata che stava in origine al termine della navata destra della Basilica di Santa Croce, a Firenze. Pannelli erratici che un importante storico dell’arte del secolo appena chiuso, Miklos Boskovits, alcuni anni fa ha attribuito a Giotto e che vengono oggi esposti in quel luogo del tutto irrituale per invogliare a visitare l’Italia “i milioni di passeggeri – così si è detto – che passano per quello scalo aereoportuale”. Diciamo allora subito che quei pannelli saltano d’un passo quella che è la prima e vera forma di valorizzazione del nostro patrimonio. La sua conservazione in rapporto all’ambiente. E dico questo riferendomi alla conservazione della totalità del patrimonio, ben sapendo che quelle fragili vetrate non corrono alcun pericolo perché conservate in teche infrangibili e a prova della demenza dei vandali ambientalisti. Il che significa che sono altre le domande che dobbiamo farci rispetto questa vicenda.

Restiamo alla conservazione. Visto che nessun Ministro, Soprintendente, funzionario di Regione o docente universitario ha finora realizzato un piano di conservazione programmata del patrimonio in rapporto all’ambiente che seguisse quello realizzato dall’Istituto centrale del restauro dopo l’alluvione di Firenze del 1966 si deve concludere che i viaggiatori di Fiumicino non fruiscono della valorizzazione intesa come conservazione del patrimonio, bensì vedono quelle vetrate come la esposizione di opere di Giotto non più agli Uffizi o a Musei Vaticani, ma sul fondale di un terminal aereoportuale. Da qui il concludere che quei viaggiatori sono una variante delle inedite “termiti turistiche” che danneggiano il patrimonio non più in termini fisici, ma con una mancanza al rispetto, la quiete e il culto che i nostri padri ci avevano insegnato si dovessero avere per le opere d’arte, ancor più quando onuste di gloria come sono quelle del caposcuola fiorentino. Ma se le cose stanno così, come di fatto è, bisogna riflettere su questo fenomeno. Ad esempio, riflettere sul fondamento delle ragioni per le quali Giovanni Urbani nel 1972, mezzo secolo fa, aveva scritto che: “Finché si pensa che i beni culturali trovano una loro collocazione nella politica dell’ambiente, magari solo come un’attrattiva turistica, si è ben lontani dal capire a cosa realmente servono.

I tre frammenti della vetrata di Giotto
I tre frammenti della vetrata di Giotto
I frammenti all'aeroporto di Fiumicino
I frammenti all’aeroporto di Fiumicino

I beni culturali – le antiche città, i paesaggi lavorati dall’uomo, le opere d’arte che ancora sussistono nella loro ubicazione originaria – sono praticamente l’ambiente o, per meglio dire, sono l’unico ambiente possibile per l’uomo delle ‘Scienze umane’: quell’uomo che può decidere di sé sul piano finito della Natura solo se rende compresente a se stesso, alla sua attualità, il suo passato e il suo futuro – che è l’unico modo per fare del suo ‘divenire culturale’ un fatto omogeneo alla Natura”.

Un lucidissimo cammeo, questo di Urbani, che impegna l’ambientalismo a una responsabilità morale e etica diversa dal “salviamo la foca bianca” o dalle automobili elettriche con le batterie al litio che scoppiano, portandoci da Fiumicino all’Italia intera intesa come la nazione che vanta un rapporto tra patrimonio artistico e ambiente unico al mondo, per vastità e qualità. Il che ci pone di fronte a un’altra e diversa domanda. Chiederci se esiste una differenza tra i viaggiatori che partono da Fiumicino passando davanti alle vetrate di Giotto rispetto alle le centinaia di migliaia di persone che nei weekend assalgono non solo l’Italia dei musei e delle mostre, ma anche i suoi paesaggi: le folle che scendono dalle grandi navi e invadono le Cinque terre, tanti da aver costretto le polizie locali a inventarsi dei mai visti sensi unici pedonali alternati. Tutte termiti turistiche? Ma ancora, volendo infierire, è decente che lo Stato affidi a insetti non più isotteri, ma bipedi, cioè agli assalitori dei musei e del paesaggio, il compito far quadrare una parte dei bilanci dello Stato? Oppure siamo di fronte alla triste svendita di una ultra-millenaria civiltà storica, artistica e umana di cui non sappiamo più cosa farcene? Facile è rispondere che le cose stanno un pressappoco così. Ma non del tutto se non si risponde a una subordinata a quanto finora detto. Resta infatti da spiegare perché folle di persone occupano di propria volontà i centri storici delle cosiddette città d’arte e i loro musei, ma anche i paesaggi, come si è appena detto per le Cinque terre, e perché lo facciano nonostante siano tutti o quasi ignari delle ragioni storiche e culturali di ciò che guardano. Ad esempio molto probabile, quando non certo è che se le vetrate di Fiumicino sono davvero di Giotto lo è solo il loro disegno di progetto e non l’esecuzione in colore. Prassi comune era infatti, come racconta nella metà del Quattrocento Lorenzo Ghiberti, che gli artisti eseguissero i disegni e che altri poi li mettessero in colore su tavole, vetrate, stendardi, ricami o ne facessero sculture. Sono quindi le centinaia a centinaia di migliaia di turisti meri epifenomeni del protagonismo di massa che caratterizza il nostro difficile tempo, quello degli onanisti dei social, di TikTok o dei selfie fatti al funerale della star come del Ministro o del Papa per mandarli agli amici e così via?

Un quesito non semplice da svolgere, che tuttavia trova ancora oggi una buona risposta in un passo delle “Reith Lectures” tenute nel 1960 alla BBC da uno dei grandi storici della cultura del secolo scorso, Edgar Wind, quelle confluite nel capitale volume “Art and Anarchy”. Un testo in cui lo storico dell’arte berlinese già nel 1960 aveva posto in campo il quesito di quale fosse la lezione che l’arte, specie quella contemporanea, lasciava sul pubblico: “Che cosa dovrebbe fare la nostra economia artistica per evitare sia l’eccesso e sia l’atrofia? Non ho l’intenzione di porre questa domanda agli storici dell’arte. La mia domanda riguarda il pubblico [...]. Ho sentito uomini eminenti e intelligenti discorrere sull’Arte e la Società, o sull’Arte e lo Stato [...]. Per loro, l’argomento fondamentale era che la massima diffusione possibile dell’arte può produrre soltanto un’azione benigna e civilizzatrice. [Ma vero è che, per la scienza,] una delle conseguenze della sua diffusione è la perdita di densità. Così che oggi, se una persona dispone di tempo e di mezzi, può assistere un giorno a una mostra retrospettiva di Picasso a Londra, e il giorno dopo a una mostra di tutto Poussin a Parigi; e il fatto più sorprendente è che la persona in questione sia in grado di godersi pienamente tutt’e due le manifestazioni. Quando mostre così esaurienti di artisti mutuamente incompatibili vengono accolte con uguale interesse e con identico favore, è chiaro che il pubblico che vi accorre ha ormai sviluppato una forte immunità alle esposizioni. L’arte è così bene accetta perché ha perso il suo pungiglione [quello dell’anarchia]. Penso che oggi molti [direttori di musei] siano consapevoli - sebbene non tutti siano così poco saggi da confessarlo - di rivolgersi a un pubblico il cui appetito sempre più insaziabile di arte è compensato da una progressiva atrofia degli organi ricettivi. Se l’arte talvolta strilla, non è colpa soltanto dell’artista. Tutti tendiamo ad alzare la voce, quando ci rivolgiamo a persone che stanno diventando sorde”.


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