Recentemente ho fatto visita al cimitero monumentale di Staglieno, a Genova. La situazione è davvero tragica, per la condizione pessima in cui versa la maggior parte dei monumenti funerari.
Staglieno è stato il banco di prova di alcuni degli scultori più importanti (non solo in città, ma in tutta Italia) da metà Ottocento ai primi del Novecento. Santo Varni, Giovanni Scanzi, Tito Sarrocchi, Giulio Monteverde, Leonardo Bistolfi, Francesco Messina, tra gli altri, hanno contribuito alla creazione di un formidabile museo a cielo aperto, che ha rappresentato un modello a livello nazionale.
Testimonianza della ricchezza delle famiglie genovesi più importanti, il cimitero genovese è imprescindibile per comprendere non solo il gusto artistico dell’epoca (e dunque quali fossero gli scultori maggiormente in voga) ma anche la diversa percezione della morte, che muta a seconda degli anni e del ceto sociale dei committenti.
L’importanza di Staglieno per i contemporanei è attestata dalle varie guide ottocentesche al camposanto e dai numerosi articoli sui periodici cittadini (dal “Caffaro” al “Cittadino” alla “Gazzetta di Genova”) che annunciavano e recensivano appassionatamente le tombe appena svelate al pubblico. Dagli interventi del maestro Santo Varni (1807-1885), ancora legato a soluzioni neoclassiche e puriste, ai primi monumenti, su tutti, di Augusto Rivalta, Emanuele Giacobbe, Agostino Allegro e Giovanni Scanzi, i quali all’inizio degli anni Settanta inaugurano la fase definita da Franco Sborgi del “realismo borghese”, queste sculture offrono un panorama completo delle mutazioni stilistiche, culturali e anche economico-sociali nella Genova di secondo Ottocento. Per non parlare, poi, delle opere più influenzate dalle nuove tendenze novecentesche, prima tra tutte il Liberty (dunque Bistolfi, ma anche notevoli artisti locali come Edoardo De Albertis).
È proprio con la morte di Sborgi, nel 2013, che si sono interrotti quasi del tutto gli studi sulla scultura ottocentesca ligure.
Ecco, dunque, la situazione per come appare oggi: quasi tutti i monumenti sono anneriti, ricoperti di guano e di calcinacci o, se va bene, di intonaco. I pochi che si possono ammirare in buone condizioni sono stati restaurati su iniziativa privata, quasi sempre straniera, e brillano, bianchi di Carrara, tra il grigiore generale. Alcuni marmi sono addirittura definitivamente danneggiati, alcuni volti scalfiti irrimediabilmente, alcune ali di angeli fatalmente spezzate.
Ha fatto molto male vedere opere celeberrime come l’Angelo Oneto realizzato da Giulio Monteverde (1837-1917) nel 1882 (e replicato in tutto il mondo, persino in un tatuaggio del calciatore David Beckham) completamente alterato dall’annerimento del marmo, oppure monumenti assai elaborati, che hanno nella sapiente integrazione tra scultura, architettura e ornamentazione (secondo un gusto neorinascimentale ben presente in città, ad esempio nella sontuosa Basilica dell’Immacolata in via Assarotti) il loro punto di forza, come la Tomba Rivara di Giovanni Battista Villa del 1895, totalmente abbandonati a se stessi e accompagnati, magari, da qualche vaso con fiori di plastica risalente agli anni Ottanta del secolo scorso.
È dunque necessario fare qualcosa al più presto, anzitutto approntando i primi restauri per i monumenti ormai pesantemente compromessi, secondariamente incentivando la ricerca scientifica in questo ambito, che purtroppo patisce ancora forti pregiudizi. Già vengono organizzate visite guidate, le quali, purtroppo, non bastano a sensibilizzare l’opinione pubblica su un problema serio e urgente nel dibattito intorno alla conservazione del patrimonio artistico e culturale genovese.
Nonostante tutto, però, e nonostante la fattispecie apparentemente deprimente di una (soprattutto questa) visita al cimitero, non è ancora arrivato il momento che la mia speranza di una nuova vita per Staglieno giaccia per sempre tra le sue sculture: è ancora possibile ridare dignità a questo luogo fondamentale, fiore all’occhiello dell’Ottocento nazionale.