Ecco cos'è stato il primo G20 Cultura: un primo passo, ma di lato


Il primo G20 della cultura che si è tenuto a Roma è stato nella peggiore delle ipotesi un'occasione persa, nella migliore un passo avanti, ma di lato. Tanti i temi fondamentali, ma esclusi. È comunque qualcosa che ci sia un primo documento.
Ecco cos’è stato il primo G20 Cultura: un primo passo, ma di lato Il primo G20 della cultura che si è tenuto a Roma è stato nella peggiore delle ipotesi un’occasione persa, nella migliore un passo avanti, ma di lato. Tanti i temi fondamentali, ma esclusi. È comunque qualcosa che ci sia un primo documento.

Così si è concluso il G20 Cultura: con un documento in 32 punti approvato all’unanimità, la “Carta di Roma” come l’ha orgogliosamente definita il ministro Dario Franceschini. Un documento che, come riportano le comunicazioni ufficiali, “chiede il pieno riconoscimento e l’integrazione della cultura e dell’economia creativa nei processi e nelle politiche di sviluppo; esorta i governi a riconoscere la cultura e la creatività come parte integrante di agende politiche più ampie e a garantire ai professionisti e alle imprese culturali e creative il dovuto accesso alla occupazione, alla protezione sociale, alla innovazione, alla digitalizzazione e alle misure di sostegno al imprenditorialità; condanna la distruzione deliberata del patrimonio culturale; esprime profonda preoccupazione per il crescente saccheggio e il traffico illecito di beni culturali e le minacce alla proprietà intellettuale; riconosce il traffico illecito di beni culturali e le minacce alla proprietà intellettuale come gravi crimini internazionali collegati al riciclaggio di denaro, alla corruzione, alla evasione fiscale e al finanziamento del terrorismo; riconosce il ruolo della cultura e il suo potenziale nel portare a soluzioni per affrontare il cambiamento climatico; riconosce l’importanza della digitalizzazione per la conservazione, l’accesso, il riutilizzo e l’educazione; riconosce l’importanza del turismo culturale sostenibile per affermare il valore della cultura come risorsa per il dialogo e la comprensione reciproca tra gli individui e per la conservazione del patrimonio culturale”.

Temi ricchissimi, vasti, complessi. Al termine della breve conferenza stampa conclusiva, viene chiesto al ministro Franceschini, unico relatore, se ci siano stati punti in cui c’è ancora distanza tra le parti, se quindi in alcuni punti del documento si sia dovuto trovare un compromesso. La risposta è chiara: “no, sintonia totale su tutto”. Quindi paesi caratterizzati dalla soppressione sistemica dei diritti umani, come l’Arabia Saudita, si trovavano in sintonia con le democrazie europee su punti come “il valore della cultura come risorsa per il dialogo e la comprensione reciproca tra gli individui” o “l’uguaglianza di genere e l’emancipazione femminile”. Il che, probabilmente, consente di avere la chiave di comprensione di questo summit, e di questo documento. 

Immagini dal G20 Cultura. Foto: Ministero della Cultura
Immagini dal G20 Cultura. Foto: Ministero della Cultura


Immagini dal G20 Cultura. Foto: Ministero della Cultura
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Immagini dal G20 Cultura. Foto: Ministero della Cultura
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Immagini dal G20 Cultura. Foto: Ministero della Cultura
Immagini dal G20 Cultura. Foto: Ministero della Cultura


Immagini dal G20 Cultura. Foto: Ministero della Cultura
Immagini dal G20 Cultura. Foto: Ministero della Cultura


Immagini dal G20 Cultura. Foto: Ministero della Cultura
Immagini dal G20 Cultura. Foto: Ministero della Cultura

Partiamo da un presupposto fondamentale: questa riunione inserisce stabilmente la cultura nelle riunioni del G20, e questo è un ottenimento importante, che permetterà alle venti maggiori economie globali di parlare periodicamente di cultura. Ma la sensazione è che le buone notizie finiscano qui, e per una riunione costata moltissimo, sia per quanto riguarda le cerimonie, sia per quanto riguarda la chiusura di musei statali al pubblico, sembra davvero un peccato. Le parole del ministro che chiudevano l’evento consentono di capire i perché profondi del summit. Il ministro, mentre racconta la straordinaria bellezza dei luoghi dove si è tenuto il summit (Colosseo, Palazzo Barberini, Villa Borghese), spiega che grazie a questa riunione si conferma che “l’Italia gode di una leadership riconosciuta a livello internazionale” nel settore culturale. Parla poi di una “curiosa coincidenza” che ha fatto corrispondere la riunione al momento in cui l’Italia torna a essere il Paese con più patrimoni UNESCO al mondo: in realtà coincidenza non è affatto, dato che l’UNESCO non ha mai bocciato un bene proposto dall’Italia (dati i cospicui finanziamenti che il nostro paese offre all’organizzazione) e dato che le date delle riunioni del comitato che avrebbe dovuto approvare i nuovi patrimoni UNESCO erano note da tempo. Dunque era anzitutto questo: dimostrare, rivendicare una leadership.

Una leadership in alcuni specifici ambiti, come quello della protezione del patrimonio attraverso l’utilizzo di forze dell’ordine con competenze specifiche (il nucleo tutela del patrimonio dei Carabinieri, che infatti interviene durante i lavori). Per quanto riguarda gli ambiti in cui questa leadership non c’è, semplicemente questi non vengono presi in considerazione nei lavori: è il caso della prevenzione fatta attraverso una tutela diffusa e uffici periferici funzionanti (nessun funzionario di Soprintendenza è stato invitato a intervenire), o della buona occupazione come strumento per una tutela e valorizzazione efficace (sindacati e lavoratori in genere sono stati tenuti anch’essi rimossi dall’evento). Su altri temi, pur di rivendicare una supposta leadership, si compiono salti mortali notevoli: a parlare del ruolo della formazione abbiamo Vincenzo Trione, professore ordinario e giornalista del Corriere della Sera, che da due anni è presidente della contestatissima Scuola del Patrimonio, costosa fondazione che elargisce un titolo post-post-lauream unico in Europa e di utilità e funzione dubbia. Tutto questo però i presenti stranieri non lo sanno, nessun’altra istituzione formativa interviene, ed ecco quindi che nel documento finale troviamo la Scuola del Patrimonio come ipotetico capofila di una rete internazionale di istituti formativi d’eccellenza. I presenti internazionali non sanno neppure quanto siano sfruttati e sottopagati alcuni degli operatori che li accolgono, e parlano di diritti umani e inclusione senza sapere che nelle ore del summit il caso emerge con tutte le sue contraddizioni attraverso una denuncia al Fatto Quotidiano. La bolla inizia a incrinarsi.

La sintonia tra i presenti è totale, ma c’è da chiedersi chi siano gli ospiti a cui è stato chiesto di intervenire. Oltre ai venti ministri, abbiamo il premier Mario Draghi (che pochi minuti dopo si lascerà andare a un commento sugli “esperti” che sta facendo molto rumore), la direttrice generale dell’UNESCO Audrey Azoulay, il direttore (scientifico) del Museo Egizio di Torino Christian Greco; e poi, oltre al generale dei Carabinieri, diversi dirigenti delle Nazioni Unite che si occupano di droga, crimine e dogane, il segretario generale dell’INTERPOL; i presidenti di grandi organizzazioni internazionali come ICOM (organizzazione che sta vivendo una discussione interna ricca e tesa, neppure menzionata all’evento), ICOMOS e ICCROM; e poi, per parlare di transizione digitale, un rappresentante dell’OCSE, uno di un’associazione giovanile interna al G20 (Y20), diversi direttori di commissioni europee su partecipazione e innovazione. In breve, mancavano i tecnici, e gli unici rappresentanti di istituzioni italiane intervenuti sono il generale Riccardi, un militare, il direttore Greco, dipendente di una fondazione privata, e il capo di Gabinetto del ministro, Lorenzo Casini. In quattro ore di discussione circa (la sera del 29 c’erano solo interventi e un concerto) probabilmente non si poteva fare altrimenti, ma trovare la sintonia escludendo una parte considerevole, maggioritaria, del mondo e del settore su cui si va a deliberare, ha comunque un significato e una rilevanza, purtroppo, limitata. 

Fuori dal Colosseo, la mattina del 29 luglio, un presidio di lavoratori e attivisti chiedeva ascolto, chiedeva di trattare i temi resi urgenti dalla pandemia: le condizioni di lavoro e il ruolo del patrimonio nella società, in una società senza turismo di massa. Nulla di tutto ciò è stato trattato: nel documento si parla, ancora in una chiave economicistica e di crescita perpetua, di “pratiche di produzione e consumo più sostenibili”. Produzione culturale, non servizio. I lavoratori che si pensava di aver lasciato alla porta erano però dentro il Palazzo, e raccontavano ai giornali in che condizioni lavorassero: meno di 5 euro l’ora. Un fuorionda, catturato dal web, rivela che Dario Franceschini conta di finire il completamento dell’arena del Colosseo “in tempo per le elezioni del ‘23”, in una gestione culturale votata al consenso che è sempre stata sussurrata e ipotizzata dai critici del ministro ma mai resa così esplicita. Quando si tiene il mondo alla porta, il mondo in qualche modo entra: anche nella Carta di Roma, che nasce già vecchia, a causa di queste scelte. Ma che potrà, molto probabilmente, presto essere superata in summit che scelgano di affrontare i nodi più complessi. 

Nel frattempo, abbiamo un documento in cui, in una profusione di buone intenzioni, venti paesi diversissimi tra loro si impegnano su alcuni temi culturali. Un passo di lato, ma perlomeno è un passo. 


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Leonardo Bison

L'autore di questo articolo: Leonardo Bison

Dottore di ricerca in archeologia all'Università di Bristol (Regno Unito), collabora con Il Fatto Quotidiano ed è attivista dell'associazione Mi Riconosci.





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