Credo che la questione non ruoti soltanto attorno alla semplice necessità di attirare più pubblico o di intercettare nuovi segmenti di visitatori, quanto piuttosto all’esigenza di offrire loro modi alternativi di avvicinarsi a un patrimonio che, spesso, è di difficile accesso. Proponendo spunti interpretativi che utilizzano linguaggi moltiplicati (musica, danza, performance), il museo si trasforma in un luogo più accogliente, meno respingente: in una parola, plurale. Siamo ormai consapevoli che lo spazio museale abbia bisogno di essere ripensato. In quanto istituzione viva, spazio aperto che si nutre di condivisione, esso è soggetto al cambiamento.
Rimane ovviamente un luogo di mostre e di oggetti, ma deve essere sempre di più uno spazio sociale, di relazione e scambio, un luogo dove stare e dove poter vivere esperienze, e deve rivendicare la sua dimensione rituale e simbolica attraverso un coinvolgimento profondo dei visitatori.
Di riflesso, anche il concetto di mostra deve essere rimodulato in chiave più contemporanea e organica: una mostra non è soltanto intrattenimento o educazione, ma diventa soprattutto tempo per sé. Nella mia intenzione (e, da circa due anni, anche nella pratica che esercito al MAO Museo d’Arte Orientale di Torino) la mostra si è trasformata in un dispositivo mutevole, un crocevia primigenio da cui si diramano percorsi che offrono al pubblico occasioni di partecipazione autentica. E questo non sta accadendo solo al MAO, l’istituzione che dirigo: il processo è lungo e complesso, ma credo che sia ormai avviato a livello globale e non si fermerà.
Per quanto riguarda le collezioni invece, il concetto chiave è quello di attivazione, che si realizza in maniera naturale attraverso progetti espositivi, ma anche attraverso eventi performativi, incontri, concerti, occasioni di dialogo, riflessione e conoscenza che possono assumere le forme più diverse. Quello museale passa così dall’essere uno spazio di conservazione, studio, divulgazione e analisi, a spazio sperimentale, una sorta di laboratorio che consente di conoscere e osservare il passato, di immaginare il futuro e di incubare la costruzione di nuove identità.
Le collezioni non sono inamovibili, anzi, rappresentano piuttosto occasioni di creazione, condivisione e confronto. Per questo è importante che i visitatori possano assistere alla vita del museo nel suo svolgimento: osservare i restauratori all’opera su oggetti antichissimi e preziosi, o assistere a lavorazioni che svelano i meccanismi che stanno dietro al funzionamento della macchina museale (garantendo ovviamente la sicurezza e la tutela delle opere), desacralizza il museo riportandolo a una dimensione più vitale e, in qualche maniera, più umana.
In questa evoluzione è centrale anche il ruolo di mediazione e di traduzione dei servizi educativi, che facilitano il dialogo con la comunità, con gli studenti, i bambini e le persone con bisogni speciali e rendono possibile il difficile processo di accesso e di inclusione, in un’ottica di museo per tutti.
Tutti gli eventi possono quindi potenzialmente essere compatibili con il museo: non si tratta di decidere se un linguaggio sia meglio di un altro, più o meno adatto, più o meno consono, quanto piuttosto se esso sia capace di innescare una sintesi dialettica, un dialogo orizzontale fra visitatori e museo, e di stimolare il pensiero critico con cui osserviamo fenomeni, avvenimenti, oggetti e la loro narrazione.
Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 22 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper. Clicca qui per abbonarti.
L'autore di questo articolo: Davide Quadrio
Davide Quadrio è direttore del MAO - Museo d'Arte Orientale di Torino.