Martedì scorso la rivista Apollo Magazine, una delle più autorevoli testate d’arte internazionali, ha lanciato una discussione: i musei dovrebbero esporre opere d’arte che utilizzano animali vivi?? Le risposte alla domanda sono state date da Victoria Daley, scrittrice e curatrice di Los Angeles, contraria alla pratica, e a Giovanni Aloi, direttore della rivista Art and nature, edita dalla University of Minnesota Press, favorevole. L’argomento è attuale e interessante e vi proponiamo di seguito la traduzione delle posizioni dei due critici (a cura di Ilaria Baratta), rilanciando a nostra volta la domanda: è giusto esporre animali vivi ai musei o alle mostre?
No, non è giusto: la posizione di Victoria Daley
Ciascuno può intendere questa domanda da differenti punti di vista, ma in ogni caso la risposta è la stessa: No.
Prima di affrontare questa domanda, dobbiamo partire da un presupposto insito nella domanda stessa: se un’opera che utilizza animali vivi sia veramente arte. O meglio: mostrando animali vivi come opere d’arte si demolisce il significato di arte, mentre si relegano le creature viventi all’inammissibile categoria di oggetti. Gli artisti, che sono chiamati a inventare e a interpretare, a tramutare e a trasformare, devono riconoscere che introdurre animali veri in un’opera d’arte non è un’azione artistica, ma letterale – essa nega l’atto creativo, interpretativo e immaginativo necessario alla realizzazione dell’arte. Gli animali possono essere dipinti, ma sostituire una creatura vivente, che respira, a un’opera d’immaginazione è proibito per definizione.
Il trattamento etico di animali è diventato argomento di discussione in molti settori negli ultimi decenni. Al momento, i film dichiarano che nessun animale durante le riprese è stato maltrattato. Agli animali destinati al mattatoio viene spesso offerto un trattamento migliore negli ultimi attimi delle loro brevi vite rispetto a quello che ricevono durante il resto della loro esistenza. Molti rifugi per animali portano avanti politiche per la “non-uccisione”. Gli zoo hanno modificato i loro spazi per creare ambienti più “naturali” per i loro ospiti, mentre i circhi sono stati chiusi a causa delle richieste pubbliche di mettere fine agli abusi sugli animali. I musei, tenendo una posizione d’arrière-garde, non hanno espresso politiche chiare sugli animali vivi. Forse perché artisti e musei spesso considerano se stessi esenti da varie restrizioni – sono in grado (giustamente) di presentare molte questioni controverse nel nome della libertà artistica e della libera parola. Non devono tuttavia abusare di questi privilegi utilizzando animali vivi. Quando lo fanno, trasformano il loro potere in quello di un bullo – colui il cui codice etico è la ragione del più forte. Sarebbe cosa normale considerare il tatuare maiali, colorare un cane di rosa o appiccicare computer al dorso delle tartarughe forme di crudeltà; eppure gli artisti hanno fatto tutte queste cose.
Nessun leccapiedi arrogante può assoggettare animali all’abuso, ma quando lo fa un artista, e denomina questo atto “arte”, perde il diritto di essere chiamato artista. Nella teoria post-darwiniana, nella quale l’affinità genetica tra uomo e animale è pienamente riconosciuta, relegare gli animali all’involontario servizio nel nome dell’arte sarebbe guardato con avversione, non permesso.
Il mondo dell’arte è tipicamente favorevole a estendere i diritti a quanti esseri viventi possibile; stranamente però ci sono quelli che sostengono una filosofia di dominazione, soggiogamento e controllo macho, specista sugli esseri senzienti che non hanno da dire niente a riguardo. Come il sessismo o il razzismo, lo specismo è qualcosa che deve essere superato, non una moda artistica da sostenere. Ricordiamoci che un tempo anche il problema dell’abolizione della schiavitù ha tormentato l’umanità. Gli uomini hanno perso molto tempo – e vite – battendosi su questioni che adesso ci sembrano ridicole (trattiamo sempre con sufficienza il passato, non capendo che lo stiamo vivendo). I benefici, col senno di poi, spesso ci rendono ciechi al presente; non c’è dubbio che i nostri discendenti si guarderanno indietro e condanneranno i nostri pensieri sgarbati e le abitudini che non abbiamo preso in seria considerazione – tra cui l’utilizzo di animali vivi nell’arte come metafore, simboli, sostegni e strumenti.Se spiegazioni e moralità non riescono a convincere, allora per nessun’altra ragione, se non per mera bontà, i musei non dovrebbero rifiutarsi di esporre animali vivi? Finché non comprenderemo veramente le emozioni degli animali, non sarebbe prudente – e cortese – estendere a loro il beneficio dei nostri dubbi? Già portano il peso dell’essere mangiati, soggetti a esperimenti, tolti dai loro habitat, cacciati per sport o per prendere parti del loro corpo, clonati, obbligati a lottare, gareggiare ed esibirsi – perché gli artisti devono allargare le fila di coloro che infliggono tormento? Dobbiamo considerare gli animali vivi provviste d’arte? L’arte prevale adesso sul regno animale e ha la priorità sulla vita stessa? Se i musei sostengono l’inclusione degli animali nelle opere d’arte che espongono, rispondono a queste domande con un “Sì”. Devono essere incoraggiati a rispondere con un No convinto.
Pierre Huyghe, Untilled (2012-2013) |
Wim Delvoye, Linda (2006) |
Sì, è giusto: la posizione di Giovanni Aloi
La libertà di parola si è dimostrata storicamente uno strumento potente per l’emancipazione delle minoranze oppresse. Più recentemente, tuttavia, nell’epoca dei social e della post-verità, sembriamo dimenticare troppo facilmente il principio basilare che dovrebbe governare la sua pratica: la responsabilità.
Lo scorso autunno, l’inclusione voluta di tre opere con animali in una retrospettiva di arte cinese contemporanea al Guggenheim di New York ha condotto a proteste senza precedenti. Dogs That Cannot Touch Each Other (2003) di Sun Yuan e Peng Yu è un’opera video nella quale dei pitbull imbrigliati a tapis roulant lottano l’uno contro l’altro in un feroce inseguimento; A Case Study of Transference (1994) di Xu Bing documenta una performance nella quale due maiali si accoppiano davanti a un pubblico e Theater of the World (1993) di Huang Yong Ping è un recinto dove insetti, lucertole, serpenti e ragni si mangiano a vicenda.
Dopo le proteste, il museo ha diramato un comunicato stampa che ha affermato: “La libertà di espressione è sempre stata e rimarrà un valore di primaria importanza per il Guggenheim”. Ciò nonostante, “Art and China After 1989: Theater of the World” è proseguita senza le opere che hanno provocato le proteste. Adesso il recente acquisto del museo dell’opera di Xu Bing, in aggiunta alla riproposta dell’esposizione al Guggenheim Bilbao, sta riaccendendo controversie. È una deliberata provocazione? Un pianto disperato per avere pubblicità? O un’allusione politica alle voci dell’arte internazionale – incluso Ai Weiwei – che criticano il museo per essere crollato sotto pressione? Il Guggenheim spera che il paese della corrida trovi queste opere meno fastidiose?
Dai cavalli legati di Jannis Kounellis del 1969 e dall’incontro performativo con un coyote in una galleria di New York di Joseph Beuys del 1974 alle mucche e ai serpenti sospesi in formaldeide di Damien Hirst negli anni Novanta del Novecento, gli animali, bene o male, attirano un sacco di attenzione. Sfidano la purezza modernista che ancora giace nel cuore di una galleria. In molte produzioni classiche e contemporanee gli animali rappresentano la nostra ombra – l’irrazionale, l’imprevedibile, l’istintivo e il primordiale.
Considerando quanto è cambiata l’arte negli ultimi anni, non sorprende che il pubblico ora potrebbe trovare qualche opera sgradevole. Tuttavia l’inusuale risonanza della controversia del Guggenheim (oltre 800.000 firme raccolte) ha complicato la questione. Da un lato necessitiamo di tenere conto della differenza di comportamenti relativi all’etica animale di paesi culturalmente e geograficamente remoti; dall’altro lato l’urgenza imposta sulle questioni attuali dal cambio climatico e dall’estinzione di massa sta velocemente spostando i comuni quadri di riferimento. Con la crescente consapevolezza che il nostro rapporto con la natura è stato caratterizzato da improduttivi cliché, si giunge a un nuovo livello di conoscenza, comprensione e responsabilità.
In queste opere, gli animali sostituiscono loro stessi. Sono nazioni, popoli o anonime pedine in un sistema capitalistico; animali come umani: ormai è un vecchio gioco e non è più interessante. L’allegoria, la sfera dell’arte classica, oggi richiede un orientamento più sofisticato per coinvolgere e impressionare il pubblico. Il pubblico di oggi tiene lo sguardo fisso attraverso il flebile velo metaforico e tutto ciò che vede è l’abuso animale. Inoltre, le opere di Sun Yuan e Peng Yu, Xu Bing e Huang Yong Ping trasformano implicitamente il visitatore in un sadico voyeur. È necessario vedere animali che si mangiano a vicenda per contemplare la sconsideratezza del capitalismo? Osservare due maiali che si accoppiano è un modo nuovo e sfumato per concepire gli affari internazionali? Tormentare i cani è un modo creativo per riflettere su potere e controllo? La Cina ha molta più arte contemporanea interessante e stimolante da proporre e qualche opera di queste si trova infatti nell’esposizione del Guggenheim.
Tuttavia non dovremmo generalizzare: non tutte le opere che utilizzano animali sono da demonizzare. Le opere di Beatriz da Costa, Mark Dion, Pierre Huyghe, Céleste Boursier-Mougenot e Ren Ri, per elencarne alcuni, parlano differentemente al pubblico contemporaneo perché il loro tema è il rapporto uomo-animale. La presenza di animali in una galleria è giustificata dal significato dell’opera e offre in modo attivo l’opportunità di dare seria considerazione alla nostra esistenza con loro. Questi artisti acquisiscono conoscenze sugli animali e garantiscono che la galleria è adatta al loro benessere; le loro opere coinvolgono, provocano, re-immaginano ed educano. È improbabile che queste possano avere le stesse proteste delle opere esposte al Guggenheim.
Xu Bing, A case study of transference (1994) |
Huang Yong Ping, Theater of the world (1993) |
Jannis Kounellis, Senza titolo (1969) |
Joseph Beuys, I like America and America likes me (1974) |
Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living (1991) |
Céleste Boursier-Mougenot, From here to ear (1999-in corso) |
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.