Seguo ormai da mesi l’account Facebook di Jerry Saltz: trovo che filtrare la società statunitense attraverso l’occhio di un critico d’arte sia un modo decisamente interessante per provare ad approfondirne la conoscenza. L’altro ieri, all’indomani dell’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti d’America, Saltz ha pubblicato uno dei più appassionati commenti che mi sia capitato di leggere su un evento destinato, con altissimi margini di probabilità (anzi: diciamo pure con sicurezza), a cambiare le sorti del pianeta nei prossimi anni. Quello di Saltz è un commento che sta a metà tra la disillusione e l’autocritica, tra lo sconforto e la presa di coscienza di una realtà che riguarda una classe intellettuale che non solo si trova "al di fuori del mainstream", come il critico americano suggerisce, ma che è anche incapace di provare a comprendere il mainstream: “pensavo di aver compreso il funzionamento del sistema, dei meccanismi della politica, ma mi sbagliavo”. I media, come sostiene Glenn Greewanld in un articolo pubblicato su The Intercept, hanno trascorso mesi a dipingere i supporter di Trump (oltre che quelli della Brexit) come “primitivi, stupidi, razzisti, xenofobi e irrazionali”. Non che ciò manchi di corrispondere a realtà: il problema è che probabilmente abbiamo dimenticato, o almeno sottostimato, uno dei principî fondamentali della sociologia, quello dell’omofilia, con la conseguenza che ci siamo isolati dal resto del mondo pensando che la Brexit fosse un’eventualità impossibile e che Trump fosse un fenomeno passeggero buono per farsi due risate in compagnia.
Donald Trump. Photo credit |
Il mondo dell’arte, ovviamente, ha preso molto male la notizia della vittoria di Trump. Eppure, per quanto il mondo dell’arte appaia lontano da quello dell’elettorato di Donald Trump (e poco importa che si tratti di un ragazzino che condivide sui social i meme razzisti pro-Trump, un insospettabile professionista che supporta la white supremacy e che pensa che la vera minoranza siano gli uomini bianchi eterosessuali, o un operaio deluso e colpito dalla delocalizzazione), è possibile avanzare un’immagine che ci possa fornire qualche spunto di discussione. L’elettore medio di Trump è dunque quello che, trovandosi dinnanzi a un’opera d’arte contemporanea in maniera più o meno fortuita (per esempio, capitando di fronte a una nuova installazione nella piazza della sua città, o trovandone una riproduzione fotografica su un social network) si lancia nei più classici commenti del genere “ma è arte questa?”, “potrei farlo anche io”, “bisognerebbe dargli fuoco”, e così via. Su questa immagine torneremo tra non molto: per ora continuiamo dicendo che quando Edgar Wind, nel suo fondamentale Art and anarchy del 1963, scriveva che era ormai diventato raro trovare qualcuno che, di fronte a un’opera che parlasse un linguaggio non familiare, si limitasse a bollarla come prodotto di un cialtrone incapace di dipingere, non poteva prevedere che l’alfabetizzazione figurativa avrebbe conosciuto dei pesanti limiti negli anni a venire, e che l’arte, e con essa l’educazione all’arte, iniziassero a scomparire progressivamente dai programmi dei leader politici più influenti.
Questa scomparsa ha interessato, come del resto era ampiamente prevedibile fin dagli inizi della campagna elettorale, anche i programmi di Donald Trump e di Hillary Clinton. E malgrado la totale assenza dell’arte dai loro programmi elettorali, The Art Newspaper ha provato a indagare sinteticamente, in un articolo uscito dieci giorni fa, l’atteggiamento dei due principali candidati alla Casa Bianca nei confronti di arte e cultura. Se Hillary Clinton si è attestata su posizioni non dissimili da quelle che interessano i principali attori del dibattito politico nostrano attorno ai beni culturali (l’arte come “volano di sviluppo economico” e attrattore per il turismo), Trump, dal canto suo, non solo non è mai intervenuto sull’argomento, ma parrebbe non aver mai avuto neppure l’interesse a parlare di arte e cultura. Di conseguenza, tutti gli analisti si sono dichiarati preoccupati per il futuro dell’arte sotto un’eventuale presidenza di Trump (e le preoccupazioni, ovviamente, sono diventate più che mai vive il giorno della vittoria). Già quest’estate Philip Kennicott sul Washington Post, tenendo conto del disinteresse di Trump per l’arte, del suo supporto a Putin, e del fatto che oggigiorno la creatività è spesso connessa alle tematiche dell’immigrazione, della giustizia sociale, della diversità culturale, preconizzava un futuro a tinte fosche, arrivando a immaginare un “abbozzo di come il mondo dell’arte dovrà adattarsi a una nuova realtà politica”: seguiva il racconto, realisticamente proiettato nel futuro, di una comunità costretta a fare i conti con la censura e con sistematici tagli alle sovvenzioni per l’arte e la cultura, con fondi che vengono piuttosto dirottati a sostegno di un’arte fortemente right-winged.
Lo scenario immaginato da Kennicott potrebbe essere verosimile. Una delle colonne portanti della cosiddetta alt-right, la “destra alternativa” spina dorsale dell’elettorato di Trump (Angela Manganaro sul Sole 24 Ore ha condotto un’interessante analisi di questa componente politica per la quale si fatica a trovare un esatto corrispettivo italiano) è rappresentata dal sito Breitbart, network informativo il cui amministratore delegato è quello Stephen Bannon che ha curato, da protagonista numero uno, la campagna elettorale di Trump. Su Breitbart abbondano articoli che criticano, anche in modo feroce, retrogrado e sconclusionato, il National Endowment for the Arts (NEA), l’agenzia statale americana che sovvenziona i progetti artistici: è stata a più riprese tacciata di fare propaganda di sinistra, di garantire supporto a mostre ritenute blasfeme, e quando nel 2012 l’attore Alec Baldwin, in un’intervista, auspicò un aumento dei fondi per il NEA, un editorialista di Breitbart replicò sostenendo che “invece di suggerire che i soldi vengano spesi per cause più importanti come la lotta all’AIDS o la ricerca contro il cancro, Baldwin presumibilmente vorrebbe tagliare le spese militari così che noi possiamo buttare un miliardo di dollari in sussidi per artisti che non saprebbero sopravvivere sul libero mercato [...] Se per lui è così importante, perché non si mette d’accordo con i suoi amici di Hollywood per finanziare [a proprie spese] l’arte?”. Seguivano commenti degli utenti, molti dei quali ricolmi d’insulti nei confronti di Alec Baldwin. Questo è, insomma, il grado di considerazione che i media a favore di Trump nutrono, a grandi linee, nei confronti dell’arte e della cultura. Ma non finisce qui.
Si faceva prima l’esempio dell’osservatore occasionale dell’arte contemporanea che si prodiga in semplicistici commenti banalizzanti circa l’eventualità che l’opera che ha davanti a sé possa essere o meno ascritta alla categoria dell’arte: quest’immagine è probabilmente la più vicina al rapporto tra Donald Trump e l’arte che possiamo immaginare. Ci sono un paio di precedenti illuminanti che possono essere d’aiuto. Il primo rimonta agli anni Ottanta ed è stato raccontato in modo particolarmente esauriente da Max Rosenthal in un articolo pubblicato quest’estate su Mother Jones. Si parla delle circostanze in cui nacque, a New York, la Trump Tower, sede della Trump Organization, la società di cui il nuovo presidente degli USA è amministratore delegato. Senza dilungarci troppo (chi vorrà approfondire potrà giovarsi del link all’articolo originale, oltre che del racconto, altrettanto particolareggiato, che si può reperire nel libro Trump: The Saga of America’s Most Powerful Real Estate Baron di Jerome Tuccille), quando Trump volle edificare la sua torre non si curò del fatto che, sul sito prescelto, insisteva un edificio del 1929, il Bonwit Teller Building, che ospitava in facciata alcuni fregi e sculture che costituivano interessanti testimonianze del liberty newyorchese. Trump si accordò col Metropolitan Museum per donare all’istituto le sculture art déco della facciata, ma quando seppe che il distacco avrebbe comportato un ritardo dei lavori di due settimane, non ebbe pazienza di attendere: gli operai furono costretti a rimuovere le sculture a colpi di martello pneumatico, col risultato che finirono in frantumi e che il mondo dell’arte e della cultura non poté credere al trattamento che Trump aveva riservato a quelle opere. Fu chiesto un commento ad Ashton Hawkins, vicepresidente del Met, che si limitò a constatare che “sculture di tale qualità sono rare e avrebbero avuto molto senso nelle nostre collezioni”.
Una delle sculture del Bonwit Teller Building |
L’altro precedente risale invece al 1999, in occasione di una mostra al Brooklyn Museum, nell’ambito della quale veniva esposta un’opera intitolata The Holy Mary Virgin, realizzata da uno dei massimi esponenti degli Young British Artists, Chris Ofili. La “crociata” contro la mostra partì dall’allora sindaco di New York, Rudolph Giuliani, che per primo si scagliò contro l’opera di Ofili, rilasciando lo stesso commento che avrebbe potuto rilasciare una qualunque persona totalmente digiuna di arte oltre che di buon senso: "se posso farlo anch’io, non è arte". Trump, deciso a supportare Giuliani, ci andò giù ancor più pesante: “Non è arte, è uno schifo, è roba degenerata e non dovrebbe essere finanziata dal governo”, aggiungendo che “se fossi Presidente, farei in modo che il National Endowment of the Arts non accordasse sostegno a operazioni di questo tipo”. Superfluo ricordare quali tristi immagini storiche evochi l’espressione “arte degenerata”, superfluo ricordare che dall’altro ieri è dalle sue decisioni che dipenderà il futuro del National Endowment of the Arts, e superfluo anche evidenziare che la mostra del Brooklyn Museum, in realtà, non ricevette alcun finanziamento pubblico: l’episodio è però ulteriormente sintomatico della sensibilità artistica di Donald Trump.
Chris Ofili, The Holy Mary Virgin (1996; carta, pittura a olio, glitter, resina e sterco di elefante su lino, 243,8 x 182,9 cm) |
Certo: si tratta di vicende ormai lontane nel tempo. Ma la preoccupazione di quanti operano nel mondo dell’arte e della cultura appare quanto mai condivisibile. Sono passati appena due giorni dalla vittoria di Donald Trump, che per i prossimi quattro anni sarà, piaccia o meno, il presidente degli Stati Uniti d’America. Hrag Vartanian, co-fondatore di Hyperallergic, uno dei blog d’arte più influetti e letti nel mondo, ha scritto, senza mezzi termini, che “l’incubo è arrivato” e che la “visione di un’America piena di speranza potrebbe essere morta”. Il mondo dell’arte potrebbe trovare un rimedio superando le divisioni che lo caratterizzano e offrendo l’immagine di una comunità che proceda stringendo nuove partnership, sfidando i vecchi modelli superati, facendo qualcosa di nuovo, di migliore e di diverso. Il nostro settore si trova di fronte a una sfida del tutto inedita, ed è limitante pensare che questa sfida riguardi soltanto gli Stati Uniti: si dovranno trovare i modi per affrontarla.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).