Questo intervento sul tema della decolonizzazione culturale, firmato da Maria Camilla De Palma (antropologa di lunga esperienza con all’attivo esperienze internazionali, tra cui collaborazioni con il Getty di Los Angeles e lo Smithsonian di Washington, nonché Direttore del Museo delle Culture del Mondo del Castello d’Albertis a Genova dal 1991), è apparso in forma ridotta sul numero 1 di Finestre sull’Arte On Paper, che ha ospitato un dibattito sull’argomento con diverse posizioni di molti dei principali esperti del settore (a questo link è possibile abbonarsi alla rivista cartacea, che esce ogni tre mesi). Oggi lo pubblichiamo, in esclusiva, nella sua interezza.
Interno del Museo delle Culture del Mondo del Castello d’Albertis a Genova. Ph. Credit Musei di Genova |
“Perché, fino a poco tempo fa, è apparso ovvio che gli oggetti non occidentali dovessero essere conservati in musei europei, anche quando questo significava che nessun reperto prezioso ed importante fosse visibile nei paesi di origine?”
James Clifford, 1985
Per coloro che lavorano in ambito museale, ed in particolar modo in musei che conservano materiale extraeuropeo di Africa, Americhe ed Oceania, il dibattito odierno sulla decolonizzazione culturale non giunge affatto nuovo: dal 1970 la Convenzione UNESCO detta le misure da prendere per impedire ogni illecita esportazione, importazione e trasferimento di proprietà di bene culturale ed è alla base dei rapporti internazionali di lotta al traffico illecito. Ratificata dall’Italia nel 1978, definisce (art. 2) il traffico illecito come una delle cause maggiori di impoverimento del patrimonio culturale degli stati, e vede nella cooperazione internazionale un valido mezzo per la protezione di tutti i beni nazionali. Abbiamo inoltre familiarità con la Convenzione UNIDROT sui beni culturali rubati o illecitamente esportati, siglata a Roma nel 1995, che ha l’obiettivo di contribuire con efficacia alla lotta contro il traffico illecito grazie alla creazione di regole comuni, e di agevolare il ritorno e la restituzione di beni illegalmente sottratti, anche attraverso nuovi incentivi quali l’indennizzo. La Convenzione, inoltre, prevede (art. 13) la possibilità di essere affiancata da singoli accordi tra Stati membri che ne agevolino l’applicazione. Come supporto circoscritto alla Convenzione UNESCO del 1970, il 15 marzo 1993 il Consiglio Direttivo della Comunità Europea ha emanato la Direttiva 93/7/EEC per il ritorno di oggetti rimossi illegalmente dal territorio di uno stato membro. È considerata di primaria importanza la cooperazione tra le autorità nazionali competenti e al fine di facilitare le procedure per rintracciare e richiedere la restituzione di un bene sottratto illegalmente, traccia delle linee guida uniformi per il modulo di richiesta (art. 8), per la notifica dell’operazione alle autorità nazionali degli Stati coinvolti, per la procedura di restituzione e di indennizzo (art. 9-11).
In particolare in ambito archeologico ed antropologico statunitense, il NAGPRA o Native American Graves Protection and Repatriation Act, firmato nel 1990 e preceduto nel 1989 dal National Museum of the American Indian Act (MAIA), ha aperto una nuova era nelle relazioni tra musei e nativi americani, conferendo a questi ultimi il potere legale di richiedere la restituzione di oggetti attinenti le sfere del sacro e del segreto oltre che resti umani ossei, quando sussista la prova che appartengano alla propria affiliazione tribale. Da diversi anni anche nei musei europei, inclusi quelli italiani, vengono in visita delegazioni di gruppi nativi che hanno individuato nelle nostre collezioni materiali sensibili, frutto di quelle spoliazioni, desacralizzazioni e saccheggi che a partire da conquistadores, missionari, viaggiatori, studiosi, o saccheggiatori di tombe ed esploratori sono state condotte durante le numerose spedizioni scientifiche, naturalistiche, militari e archeologiche che si sono succedute nei secoli. Il report voluto da Macron, in merito al patrimonio culturale africano da restituire, individua in modo esemplare quattro categorie di beni da prendere in considerazione: gli oggetti sequestrati durante occupazioni militari prima dell’entrata in vigore della Convenzione dell’Aja (1899); i beni collezionati in Africa in occasione di ‘spedizioni scientifiche’; le opere donate ai musei francesi da funzionari appartenenti all’amministrazione coloniale e gli oggetti acquistati illegalmente dopo la prima decolonizzazione (avvenuta, per diciassette stati africani, nel 1960).
Tradizionalmente depositari del sapere sotto forma di oggetti/opere/reperti, i musei hanno giocato un ruolo fondamentale nel separarli dai loro produttori, ma possono oggi non essere più complici delle politiche coloniali e delle imprese ad esse associate, diventando luoghi di contestazione del potere in termini di possesso, interpretazione e detenzione del sapere.
Ritengo quindi che i musei odierni, che abitano il loro tempo in qualità di luoghi di cambiamento sociale, debbano aprirsi a processi di decentramento che cambino gli equilibri e gli assetti prestabiliti da secoli di colonialismo e post colonialismo: i musei non possono dirsi innocenti nelle loro politiche di acquisizione né nelle loro pratiche di rappresentazione dell’alterità.
Materiali Inuit restituiti dai musei danesi alle popolazioni di provenienza, crani Maori ai discendenti in Nuova Zelanda dai musei tedeschi, come, nel nostro piccolo, reperti preispanici restituiti da Genova all’Ecuador sono solo alcuni esempi di pratiche di restituzione che stanno diventando all’ordine del giorno per i musei europei delle culture - che custodiscono collezioni extraeuropee - che intendano affrontare il dilemma etico alla base della loro natura.
Il discorso si fa più complesso se parliamo per esempio del bottino dei preziosi materiali da Benin City saccheggiati dai soldati inglesi nel 1897 nell’odierna Nigeria ed ora conservati al British Museum, come ad Amburgo, o dei famosi Elgin Marbles sempre custoditi a Londra: la questione tocca equilibri ben più delicati di natura politica ed economica, la cui restituzione innescherebbe un pericoloso meccanismo a catena non più controllabile da parte di chi ha sempre detenuto potere e controllo su una parte del mondo, insieme con l’appropriazione fisica delle opere.
Per mantenere questa sbilanciata presenza di opere nei musei europei rispetto a quelle nei loro paesi d’origine, figlia di una visione del mondo diviso tra “the West and the rest”, un gruppo di direttori di musei di tutto il mondo si ispira proprio ai musei d’arte enciclopedici universali come il British Museum, ritenendo che simili istituzioni enciclopediche universali costituiscono con le loro collezioni non strumenti di un impero ma testimonianza di una tradizione; per loro le antichità sono universali e patrimonio pubblico, destinate ai musei enciclopedici del mondo quali il Louvre o il Getty, la cui missione è appunto di accogliere esempi rappresentativi dell’eredità artistica/archeologica umana, evidenziando le connessioni tra le culture e promuovendone la comprensione in termini di aspirazioni universali.
Per costoro, l’acquisizione da parte di un museo di opere prive di documentazione sulla loro provenienza non viola affatto il Codice Etico del Comitato Internazionale dei Musei (art. 2. sulle politiche di acquisizione, ICOM Code of Ethics for Museums), ma viola al contrario il respiro cosmopolita di una istituzione che fin dalle origini ha il compito di servire il pubblico garantendo la conservazione del patrimonio, il desiderio di conoscenza dell’uomo e l’accesso al sapere. Per costoro dunque le politiche UNESCO e le leggi di ogni singolo stato-nazione a favore della restituzione ai paesi di provenienza favoriscono una forma di cultura nazionalista in cui le antichità vengono usate per servire lo scopo di una singola nazione. Per costoro, invece che preoccuparci di restituire un’opera ad una nazione per la quale potrebbe non avere più significato perché non più legata culturalmente alle antiche civiltà un tempo presenti sul suo territorio oppure perché potrebbe non esserci più corrispondenza tra i confini politici odierni e quelli culturali di un tempo, l’ideale potrebbe essere ripristinare l’abitudine passata del partage, della condivisione dei ritrovamenti archeologici tra i partner dello scavo- ovviamente più potenti - e il paese ospitante – ovviamente più debole- non più praticata dalla metà del XX secolo perché ormai considerata una reliquia di un passato coloniale. E’ evidente che questa posizione mira ad evitare la spoliazione dei musei europei nascondendosi dietro il falso ideale di un fantomatico patrimonio universale. Certamente le opere d’arte ed i reperti dell’antichità sono il nostro patrimonio comune, che richiede il nostro lavoro congiunto per la sua preservazione in nome di un nuovo Umanesimo, in una umanità senza confini in cui siamo tutti migranti e membri di una o l’altra minoranza. Ciò per cui dobbiamo adoperarci è un maggiore controllo ai confini per prevenire trasporti illeciti, maggiori restrizioni sull’importazione e sull’acquisto di antichità senza una provenienza dichiarata, maggiore uguaglianza tra le leggi nazionali dei paesi.
In Italia le direttive e le convenzioni internazionali confluiscono nel Codice dei Beni Culturali e dell’Ambiente del 2004, dall’art. 75 all’86. In particolare l’Art.75 sulla restituzione stessa recita:
“I beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro dell’Unione Europea dopo il 31 dicembre 1992 sono restituiti ai sensi delle disposizioni della Sezione.”
L’art. 76 chiude sul fatto che il Ministero assicura la propria collaborazione alle autorità competenti degli altri Stati membri per il ritrovamento e la restituzione dei beni culturali appartenenti al patrimonio di altro Stato membro dell’Unione Europea.
Per arginare i traffici illeciti di beni culturali italiani e stranieri, il Segretariato Generale MiBAC collabora in stretto rapporto con il Ministero della Difesa, in particolare con il Nucleo Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale.
Tutte le Istituzioni in questione gestiscono un portale web, all’indirizzo http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/MenuServizio/TutelaCulturale/ in cui si ritrovano le linee guida operative da seguire in caso di denuncia e richiesta di restituzione di beni illecitamente sottratti. Per la procedura di richiesta di restituzione di beni presenti in Italia, ma illegalmente sottratti da altri Stati, il Ministero si avvale della collaborazione del Ministero degli Affari Esteri. Il Paese che ritiene di aver diritto alla restituzione di un bene illecitamente presente in Italia deve contattare il Ministero degli Esteri, in particolare l’Ufficio della Direzione Generale della Promozione del Sistema Paese che si occupa del recupero delle opere d’arte illecitamente esportate.
La repatriation o restituzione stabilisce nuovi contesti di azione aprendo così l’arte, l’archeologia e l’antropologia a un maggior numero di attori in campo, amplia il nostro concetto di passato e il nostro modo di interpretare la storia e richiede il grande salto nel decentrare la nostra visione del mondo.
Il processo della repatriation determina infatti la condivisione delle informazioni, una consultazione quotidiana e una restituzione periodica di materiali contemplati dalla legislazione vigente. Si tratta spesso di stabilire relazioni e riconoscere, caso per caso, la legittimità dell’altro di determinare l’esito finale dell’accordo/scambio, senza vedere questo processo in termini di perdita di materiali, di tempo o di informazioni, ma al contrario come un’opportunità di abbracciare una visione del mondo meno imperialista, più inclusiva e fondata su un sapere migliore dalle basi più solide ed ampie.
Il report voluto da Macron, per esempio, rappresenta un buon punto di partenza di un processo inevitabilmente lungo e complesso: oltre all’individuazione delle categorie di beni da considerare, il documento elenca infatti i criteri e le tempistiche necessarie per il processo di restituzione, il quale, come è auspicabile, non potrà che avvenire progressivamente e dovrà essere supportato da rigorose analisi storiche e archivistiche.
Ci vorrà molto tempo perché questo possa realmente aver luogo, per l’Italia come per i paesi dal grande passato coloniale, ma solo questo è un percorso degno dei paesi veramente civili.