Decolonizzazione culturale: è giusto restituire le opere d'arte dei nostri musei ai paesi d'origine? Seconda parte


Seconda parte del dibattito sulla “decolonizzazione culturale”: con l'aiuto di esperti del tema capiamo in che modo e se è giusto restituire oggetti e opere d'arte ai paesi ai quali sono stati sottratti.

Questo articolo rappresenta la seconda parte del dibattito sulla decolonizzazione culturale che abbiamo ospitato sulla nostra rivista. Per leggere la prima parte è possibile cliccare su questo link.

Il moaï del British Museum, al centro di un acceso dibattito sulla sua restituzione all'isola di Rapa Nui
Il moaï del British Museum, al centro di un acceso dibattito sulla sua restituzione all’isola di Rapa Nui

Beatrice Nicolini
Professore Associato di Storia e Istituzioni dell’Africa, Università Cattolica del Sacro Cuore

Per quanto riguarda le opere d’arte e, più in generale, gli oggetti che sono stati trafugati e requisiti in Italia da parte di altri paesi nella storia dell’intera nazione, non credo si possa immaginare una restituzione collettiva di una quantità di opere ingentissima dal punto di vista numerico e anche come complessità: penso che si tratterebbe di un’operazione titanica, ingestibile e inaffrontabile, da parte di qualsiasi nazione, inoltre l’Italia ha una ricchezza monumentale e artistica così grande che non riusciamo neppure a mostrare tutto ciò che abbiamo. Perciò non sarei favorevole all’idea nazionalistica della restituzione del maltolto, del bottino di guerra: trovo che sia una cosa decisamente anacronistica.

L’operazione inversa è invece un discorso molto politico, e credo anche che occorra distinguere le opere d’arte dagli oggetti di cultura materiale. Faccio un esempio: alla fine del XIX secolo, il capo degli Herero, una tribù della Namibia, fu ucciso dai tedeschi, e per dimostrare la grande efficienza militare di questi ultimi, la testa del capo fu inviata a Berlino (si trattò peraltro di una cosa che faceva anche il generale Rodolfo Graziani, italiano, che inviava Roma teste dentro le scatole dei biscotti Lazzaroni). Questa testimonianza di orrore puro, la testa del capo Herero, è stata restituita nel 1958, ovvero è rimasta a Berlino per quasi un secolo. Questo tipo di operazioni, che naturalmente non hanno a che fare con le opere d’arte, ma hanno a che fare con l’umiliazione delle popolazioni e con la brutalità assoluta da loro subita, certamente richiedono un percorso complesso e articolato che parte dalle scuse ufficiali di un paese nei confronti di un altro: a queste, in alcuni casi, è anche forse opportuno che segua la restituzione, come noi abbiamo fatto, per esempio, nel caso della stele di Axum partita da Roma per il Corno d’Africa.

In definitiva, penso che per l’Italia si tratti di un’esigenza priva di contenuto e priva di scopo. Viceversa è un’operazione molto politica che va valutato di caso in caso: il ruolo della ex potenze coloniali porta con sé un’eredità molto pesante che implica poi altre situazioni. Penso, per esempio, al caso del movimento per le reparations, molto forte soprattutto nelle comunità afroamericane, che sostiene che le nazioni che si sono arricchite grazie alla sottrazione di risorse, sia artistiche sia naturali sia umane, nei confronti di altre, siano tenute alla restituzione. E non si tratta necessariamente di restituzioni di oggetti, ma anche di corrispettivi indicati in denaro.

Maria Stella Rognoni
Professore Associato di Storia e Istituzioni dell’Africa, Università di Firenze

In Italia, che pure è stata potenza coloniale in Africa fra la fine dell’Ottocento e il 1960 (anno della fine dell’Amministrazione fiduciaria in Somalia) quello della decolonizzazione non è mai diventato argomento di discussione pubblica, come è accaduto e accade in Francia o in Gran Bretagna. Solo oggi, sullo sfondo del grande tema delle migrazioni, una parte dell’opinione pubblica italiana si sente finalmente chiamata in causa e vorrebbe poter disporre di strumenti di comprensione di un passato mai davvero affrontato e spesso rimosso.

La questione del destino delle opere d’arte africane conservate nei musei europei e americani può rappresentare, da questo punto di vista, un’occasione, soprattutto se si riesce a trasformare in un’opportunità di dialogo con le controparti africane, non solo governative. Dare voce a chi è stato privato della propria storia, anche attraverso la sottrazione di opere d’arte, è il primo passo per cambiare prospettiva. Sentiamo quindi gli esperti di arte del Benin o del Camerun, gli insegnanti delle scuole di Addis Abeba o di Kampala: quanta importanza attribuiscono loro a una possibile restituzione? Quali processi di rinnovamento e di conoscenza potrebbero attivare restituzioni meditate e condivise, o, al contrario, scelte concordate volte a una conservazione delle opere nei musei europei? Decisioni unilaterali da parte di un qualsiasi governo ex-coloniale, magari assunte per obiettivi contingenti, o anche accordi fra governi, come è accaduto e con molte difficoltà nel caso della stele di Axum fra Roma e Addis Abeba, risolvono infatti solo una parte della questione, e forse non la più rilevante.

In gioco invece c’è la possibilità di offrire (in Europa, come in Africa) spazî di discussione su un passato condiviso che ha trasformato sia chi ha subito la colonizzazione sia chi l’ha imposta e di riflettere sul presente che è frutto di quelle esperienze. D’altra parte, sono già moltissimi i progetti di musei africani che mettono al centro delle loro attività questo tipo di riflessione, ma in Europa e in Italia di questo si conosce molto poco.

Ilaria Sgarbozza
Funzionario Storico dell’Arte, Parco Archeologico dell’Appia Antica, Roma

Ricerca, confronto, collaborazione. Su questi tre sentieri dovrebbero cominciare seriamente a muoversi le istituzioni culturali italiane e straniere. Ricerca storica per far emergere vicende politiche e collezionistiche di età moderna e contemporanea, solo in parte note. Confronto tra studiosi di diverse appartenenze per stabilire chiavi interpretative comuni (o almeno compatibili) delle vicende storiche. Collaborazione tra istituti (musei in primis) per sviluppare progetti internazionali (mostre, giornate di divulgazione e approfondimento, iniziative speciali), sul tema della “decolonizzazione culturale”. La restituzione materiale e permanente delle opere potrebbe non essere l’unica soluzione. Prestiti temporanei, pubblicazioni, incontri pubblici, potrebbero configurarsi come una valida alternativa.

Pezzi d’Italia, frutto di spoliazioni in qualche caso violente, sono ovunque nel mondo; ospitati nei musei o nei palazzi storici, sono non di rado esposti con raffinatezza e appropriatezza, valorizzati e comunicati a un’ampia e varia platea di visitatori. Quanto questo ha contribuito al primato internazionale della nostra cultura, in particolare del classicismo greco-romano e delle sue eccezionali derivazioni? Proviamo a interrogarci anche su questo.

Giuliana Tomasella
Ordinario di Museologia e Critica artistica e del restauro, Università di Padova

Il tema delle restituzioni è al centro dell’interesse degli studiosi e molto dibattuto in ambito museale. Tuttavia ho l’impressione che il nostro paese non sia ancora pronto a inserirsi nel dibattito, a causa del processo di rimozione dalla memoria collettiva che ha riguardato il nostro passato coloniale. Nonostante vi siano stati, negli ultimi decennî, importanti studî storici, che hanno fatto piena luce sulle vicende legate alla colonizzazione italiana in Africa tra gli anni Ottanta del XIX secolo e la fine della seconda guerra mondiale, ben poco è passato a livello di coscienza pubblica. Neanche la clamorosa restituzione dell’obelisco di Axum (che pure ha riempito le cronache per qualche giorno) sembra aver lasciato una traccia duratura. Per questo credo che l’istituzione di una commissione ad hoc sarebbe quanto mai opportuna, pur nella consapevolezza della complessità e delicatezza del tema.

Bisognerebbe infatti chiarire, caso per caso, le circostanze in cui i reperti sono giunti nei nostri musei e agire, auspicabilmente, in un quadro di concertazione internazionale. Credo che l’allargamento del dibattito potrebbe/dovrebbe costituire l’occasione, innanzitutto, per un ripensamento critico delle modalità di esposizione dei reperti provenienti dalle nostre ex-colonie, fornendo ai visitatori dei musei (specie ai più giovani) strumenti idonei per acquisire una piena consapevolezza di tutto ciò che essi implicano. Bisognerebbe, cioè, insegnare a vedere, oltre agli oggetti in sé, la rete delle loro connessioni, lo svolgersi della loro storia, passata e recente, fare luce sul viaggio che li ha condotti fino a noi. E insegnare anche a riflettere sul loro statuto: in molti casi, infatti, il pubblico italiano è ancora influenzato da una storia dell’arte fortemente etnicizzata, che a lungo ha negato alle opere realizzate da artisti africani la definizione stessa di “arte”, relegandole (per esempio nelle esposizioni coloniali) in sezioni separate dedicate all’artigianato o all’etnografia.

Gabriel Zuchtriegel
Direttore del Parco Archeologico di Paestum

La questione della cosiddetta decolonizzazione, o del post-colonialismo, riguardo le collezioni da altri continenti è già estremamente complessa, ma la questione dell’Italia è ancora più complessa: ci sono state conquiste e forme di spoliazione e trafugamenti, un’attività che ha portato a un flusso di antichità dall’Italia agli altri paesi. L’Italia rappresenta però anche quella cultura classica le cui testimonianze non sono considerate come quelle che appartengono, per esempio, alla cultura indiana, o dell’Africa centrale, o messicana: si tratta invece, per l’Europa, di un patrimonio che in un certo senso è comune. Parliamo dunque di argomenti diversi. Il vaso a figure rosse che sta a Londra è diverso rispetto all’oggetto rituale trafugato nel Sud America: se quest’ultimo può esser associato a un discorso tipico di un rapporto tra colonizzatori e colonizzati (nel senso che un tale oggetto era visto come una cosa esotica, ma anche come l’appropriazione, da parte della colonia, di una cultura ritenuta inferiore: questa era l’attitudine dei colonizzatori), nel caso della cultura classica si può dire che il vaso si trova in un museo straniero perché chi in passato lo ha portato via dall’Italia o dalla Grecia lo ha visto come elemento di una radice originaria della nostra cultura europea.

Questo complica ulteriormente la questione: da un lato, paesi come l’Italia, la Grecia e la Turchia possono giustamente andare fieri di un patrimonio che è riconosciuto da molti altri paesi a livello mondiale, mentre dall’altro lato ciò comporta ovviamente un grande interesse anche sul livello del mercato di antichità, nel senso che in Italia siamo contenti del fatto che tutti guardino alla storia, all’archeologia, alla cultura italiana, ma l’altro lato della medaglia è che tutti vogliono avere un pezzo di questa storia, di questa cultura. E rivendicare la centralità della cultura classica può diventare quasi una giustificazione per questo tipo di atteggiamento. Penso soprattutto alla Grecia o alla Turchia: ci sono musei o collezionisti che sostengono che solo attraverso il loro intervento le opere antiche sono sopravvissute (penso, per esempio, all’altare di Pergamo). È insomma un argomento estremamente complesso, perché la discussione sulle restituzioni non riguarda soltanto il tema del colonialismo e dell’esotico, ma anche il tema della patrimonio inteso come origine comune e come culla della cultura.

Infine, c’è da fare anche un altro tipo di considerazione: ci sono casi in cui gli oggetti italiani o greci sono entrati in collezioni storiche già secoli fa, ma ci sono anche casi in cui abbiamo dubbî molto forti. Per esempio, c’è una tomba chiaramente pestana esposta al Metropolitan Museum di New York, entrata nella collezione in anni recenti, circa la quale non s’è mai saputo alcunché sulla provenienza. Inoltre, gli scavi clandestini in Italia continuano e permangono dunque i dubbî sulla legittimità dell’appartenenza di alcuni oggetti a certe collezioni.


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