Franceschini dalla A alla Z. Super ripasso di quello che ha fatto da ministro, cosa tenere e cosa buttare


Un super ripasso, dalla A alla Z, di ciò che Dario Franceschini ha fatto per la cultura quando è stato ministro tra il 2014 e il 2018.

Come ormai tutti sanno, Dario Franceschini è stato nominato ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo del governo Conte II. Dario Franceschini, di professione avvocato civilista, è nato a Ferrara nel 1958, ha ricoperto per qualche mese, nel 2009, l’incarico di segretario del Partito democratico ed è uomo delle istituzioni di lungo corso: deputato per cinque legislature consecutive (il suo ingresso in Parlamento risale al 2001, e da allora la sua presenza alla Camera dei deputati non si è mai interrotta), è stato anche sottosegretario alla presidenza del consiglio (dal 1999 al 2001, governi D’Alema II e Amato II), ministro per i rapporti col Parlamento tra il 2013 e il 2014 (governo Letta) e ministro per i beni culturali (dal 2014 al 2018, governi Renzi e Gentiloni).

Franceschini succede ad Alberto Bonisoli del Movimento 5 Stelle e, sicuramente, continuerà ciò che aveva lasciato in sospeso nel 2018 (anche perché l’azione di Bonisoli non ha interrotto quella di Franceschini, ma si può dire che si sia posta in diretta continuità, pur se con qualche modifica nel frattempo). Vale dunque la pena fare un ripasso di quello che Franceschini ha fatto al ministero della cultura e del turismo (il turismo, peraltro, torna sotto la competenza del Ministero dei Beni Culturali, come lo era stato dal 2013 al 2018, per poi essere accorpato, dal 2018 fino alla fine del governo Conte I, al Ministero dell’Agricoltura) durante i due governi precedenti, con un riassunto dalla A alla Z delle principali misure che hanno modificato l’assetto del ministero.

Dario Franceschini. Ph. Credit Paolo Cerroni
Dario Franceschini. Ph. Credit Paolo Cerroni

Art Bonus
L’Art Bonus è il credito d’imposta riconosciuto a chi effettua erogazioni liberali per sostenere il patrimonio culturale pubblico: il credito è pari al 65% dell’importo donato. È stato introdotto con un decreto legge del maggio 2014 (poi convertito in legge nel luglio dello stesso anno), sotto il governo Renzi. Con l’Art Bonus, una delle misure positive nate con Franceschini, l’Italia si è allineata al resto d’Europa (dove il credito d’imposta per le donazioni a sostegno della cultura è una prassi). A inizio 2019, Art Bonus aveva consentito di raccogliere, dalla sua introduzione (quindi nell’arco di quattro anni), la cifra di 320 milioni di euro. Al tema del mecenatismo e anche all’Art Bonus abbiamo dedicato il dibattito del numero 2 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper, e in quell’occasione Carolina Botti, responsabile di Art Bonus, sosteneva che “sulla base dei risultati ottenuti in questi primi anni di applicazione si ritiene che la legge abbia riscosso un grande successo a tutti i livelli: sia da parte degli enti potenziali beneficiarî, sia da parte dei mecenati”, ma che ci sono anche “aspetti migliorabili che riguardano da un lato l’allargamento dei potenziali beneficiarî e delle raccolte fondi ammissibili (al momento circoscritte prevalentemente ai beni culturali pubblici ed ai soggetti dello spettacolo finanziati dal FUS), dall’altro al limite di spettanza del credito d’imposta annuo per le imprese (oggi 5 per mille dei ricavi)”. In generale anche altri interventi (di esperti come Stefano L’Occaso, Patrizia Re Rebaudengo, Michele Trimarchi) concordavano sulla sostanziale positività dell’Art Bonus, e il sostegno all’iniziativa è bipartisan. Certo, le cifre raccolte sono ancora molto lontane da quelle di un paese come la Francia (dove solo nel 2016 il mécénat culturel ha garantito allo Stato ben 500 milioni di euro, benché lì il credito d’imposta per la cultura abbia una storia più lunga) e occorrerebbe estenderlo alle microdonazioni (giusto per avanzare uno degli aspetti migliorabili), ma è comunque uno dei provvedimenti più interessanti tra quelli varati sotto Franceschini.

Biblioteche e archivî
Biblioteche e archivî sono stati le vere cenerentole del ministero Franceschini. Si sono prodotte situazioni molto gravi, che ancora aspettano di essere risolte (i finanziamenti per gli archivî, denunciava Arianna Di Cori in un articolo pubblicato su Repubblica nel febbraio del 2018, erano passati dai 18 milioni del 2007 ai 4 milioni del 2005, e gli organici dimezzati). E i problemi non riguardano solo le biblioteche periferiche, ma anche quelle più importanti: può valere da solo l’esempio della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, che a luglio del 2018 (quindi appena un mese dopo che Franceschini lasciò il ministero) denunciava di rischiare il collasso a causa dei tagli al personale. A quella data, la BNCF contava su 149 addetti su di un totale di 185 che dovrebbero far parte dell’organico. E ancora, nel 2016 la presidente dell’Associazione Nazionale Archivistica Italiana, puntava il dito contro la “mancanza di fondi per gestire il quotidiano, la routine e addirittura le attività di sopravvivenza di queste istituzioni” (gli archivî), a cominciare, per esempio, dall’Archivio di Stato di Roma, dove mancava anche il personale in grado di occuparsi dei documenti antichi. Su questo fronte c’è stato però anche un aspetto positivo, ovvero la liberalizzazione delle riproduzioni digitali di libri e documenti, un provvedimento che studenti e studiosi attendevano da anni.

Cinema
Nel 2016 Dario Franceschini ha aumentato i finanziamenti al cinema ma ha anche introdotto degli strumenti automatici di finanziamento criticati da molti dal momento che distribuivano una larga parte dei finanziamenti (circa il 70%) sulla base di criterî determinati da algoritmi, mentre il rimanente è assegnato da commissioni formate da funzionarî ministeriali. Franceschini aveva poi introdotto l’iniziativa Cinema2Day, l’ingresso scontato al cinema a soli 2 euro, molto apprezzato, ma durato poco.

Direttori
Una delle azioni più caratterizzanti del MiBACT targato Dario Franceschini è stata la creazione dei venti musei autonomi (in seguito elevati a trenta), diretti da personalità individuate tramite concorso internazionale. L’autonomia finanziaria e gestionale, che si è andata dunque ad aggiungere all’autonomia scientifica, ha rivoluzionato l’assetto dei musei italiani, e dei passati direttori soltanto uno venne confermato all’epoca dei rinnovamenti (era il 2015 e l’unico direttore che mantenne il suo posto dopo la riforma Franceschini fu Anna Coliva alla Galleria Borghese di Roma). In sostanza, veniva completamente rinnovata la classe dirigente dei musei. Il lavoro di alcuni è stato molto apprezzato (Eike Schmidt, Gabriel Zuchtriegel, Serena Bertolucci, Flaminia Gennari Santori), mentre molte critiche sono state rivolte ad altri direttori: per esempio a Peter Assmann, direttore del Palazzo Ducale di Mantova, che pur avendo lavorato con molti più fondi a disposizione rispetto alla situazione precedente, è stato accusato d’incuria (un articolo su Il Fatto Quotidiano del maggio 2017 lanciava dure critiche contro la gestione di Assmann), o a Cecilie Hollberg, criticata per non aver risolto i problemi delle code alla Galleria dell’Accademia e quelli relativi ai disagi derivanti dal caldo (il nuovo impianto di condizionamento sarà comunque montato a breve), o ancora a James Bradburne, criticato per la situazione venutasi a creare a seguito del guasto dell’impianto di climatizzazione nel gennaio del 2017, o per la vicenda relativa alla cosiddetta Giuditta di Tolosa, un dipinto di proprietà privata attribuito a Caravaggio (Bradburne fu accusato di lanciare, tramite museo pubblico, un’operazione che avrebbe potuto portare a una vendita sul mercato, ragion per cui ci furono malumori nel comitato scientifico della Pinacoteca di Brera, tanto che lo storico Giovanni Agosti rassegnò le proprie dimissioni). Certo, in ogni gestione ci sono stati aspetti positivi e negativi (a Brera sono state riammodernate quasi tutte le sale, per esempio, e sono state lanciate interessanti iniziative come i Dialoghi), ma comunque quasi tutti i direttori hanno potuto contare su risorse e spazî d’autonomia che i loro predecessori potevano soltanto sognare: naturale dunque che gli aspetti positivi abbiano prevalso.

Esportazione
Franceschini è ricordato anche per la riforma dell’esportazione dei beni culturali, vicenda che qui su Finestre sull’Arte abbiamo seguito a lungo e che è stata criticata da molti esponenti del mondo dei beni culturali, ma anche accolta con favore da altri. La riforma, contenuta nel ddl concorrenza definitivamente approvato nell’agosto del 2017, prevedeva l’aumento da 50 a 70 anni della soglia per la valutazione della Soprintendenza ai fini della concessione dell’attestato di libera circolazione (le opere meno vecchie di 70 anni non devono quindi essere passate al vaglio dei funzionarî prima di essere esportate), l’introduzione di una soglia di 13.500 euro sotto la quale le opere possono liberamente circolare dietro autocertificazione (le soprintendenze possono fare controlli a campione), l’introduzione di un “passaporto” per le opere, di durata quinquennale, per agevolare l’uscita e il rientro delle opere stesse dal e verso il territorio nazionale. Gli analisti si sono divisi: i critici hanno lanciato strali contro la riforma accusando Franceschini di aver allentato i limiti della tutela e aprendo dunque all’uscita dall’Italia di beni importanti, mentre i favorevoli hanno espresso apprezzamento per una riforma che avrebbe potuto favorire il mercato delle opere d’arte.

Feste
La gestione del MiBACT di Franceschini è ricordata anche per la proliferazione di feste ed eventi privati nei musei (dure critiche furono rivolte, per esempio, a James Bradburne a causa dell’inciviltà degli ospiti del “Ballo di Brera” che affollarono il cortile del museo nel 2017 lasciando vistosi segni della loro presenza, o ancora ad Eike Schmidt, nel 2016, quando a Palazzo Pitti si tenne una festa privata: il museo affermava si trattasse di una cena aziendale ma alcuni ospiti parlarono di un addio al celibato). Le feste nei musei vengono organizzate per aumentare gli introiti e ormai sono pochi i musei che vi rinunciano. La nostra rivista ha sempre tenuto una linea costante su questo tema: sì agli eventi privati nei musei, purché non arrechino disturbo ai visitatori (ovvero non ci siano chiusure nei normali giorni d’apertura per consentire i preparativi o lo svolgimento delle feste), vengano organizzati il più lontano possibile dalle opere, e garantiscano lauti incassi al museo. Purtroppo in casi come questi gli ideali debbono necessariamente scontrarsi con una realtà nella quale le risorse a disposizione sono poche e i musei devono ricorrere a tutti i mezzi (leciti) per poterle far crescere.

Guide turistiche
Tra Dario Franceschini e le guide turistiche non è che corra proprio buon sangue. L’apice dello scontro si è toccato nel 2015, quando il ministro invitò le guide turistiche ad “andare in Slovenia” dopo che la Confesercenti Toscana aveva organizzato una manifestazione a Firenze per chiedere al ministro garanzie sulla specializzazione delle guide. All’origine dei dissidî, un decreto di Franceschini che autorizzava le guide straniere (non abilitate per l’Italia) a esercitare comunque la loro professione nel nostro paese: si riteneva che così facendo si applicassero le regole europee in materia di circolazione dei lavoratori. Ma ci sono stati anche altri provvedimenti che hanno fatto storcere il naso alle guide, che spesso hanno criticato il ministro, reo a loro avviso di promuovere una deregulation della professione. Più in generale, sono stati molto burrascosi i rapporti tra Franceschini e i professionisti della cultura. A lungo questi ultimi hanno chiesto a Franceschini i decreti di costituzione degli elenchi dei professionisti dei beni culturali: sono arrivati soltanto nel maggio 2019, sotto il ministero di Bonisoli.

Home page
Ovvero siti web, tecnologie informatiche, strumenti innovativi: sotto Franceschini, la digitalizzazione non è andata avanti a passo speditissimo anche se alcune migliorie effettivamente ci sono state, e anche in questo caso trainate dai musei autonomi, che grazie alla loro autonomia finanziaria hanno potuto, quasi ovunque, rinnovare i loro siti e digitalizzare parte delle loro collezioni. Siamo però ancora molto indietro: nel 2016, l’Osservatorio per l’Innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali rilevava che, su 476 musei italiani (tra cui erano comunque inclusi anche musei non statali), solo il 57% era fornito di sito web e il 52% di account social. Franceschini è però passato alla storia anche per Verybello, il sito che in occasione di Expo 2015 doveva raccogliere gli eventi culturali che si tenevano in Italia: costato 35.000 euro, criticatissimo per la sua arretratezza e la sua sostanziale inutilità, è morto dopo appena due anni di vita.

Ingressi gratuiti
Franceschini è il ministro delle domeniche gratuite: è sotto di lui che venne introdotto il provvedimento che consentiva a tutti, senza alcuna distinzione, di entrare gratis al museo la prima domenica del mese. Un provvedimento criticato da molti (noi di Finestre sull’Arte, per esempio, ci siamo sempre battuti perché le domeniche gratuite fossero abolite e al loro posto venisse rivista la scontistica sui biglietti), e poi rivisitato dal ministro Alberto Bonisoli con un intervento sicuramente migliorativo, che ha mantenuto le domeniche gratuite invernali e cancellato quelle estive, concentrando le gratuità in un’unica settimana a marzo, periodo di bassa affluenza. Un’iniziativa, quella della settimana dei musei gratuiti, effettivamente apprezzata da molti direttori dei musei. In più, Franceschini ha anche cancellato le riduzioni per gli over 65, che adesso nei musei statali sono tenuti a pagare il biglietto intero: una mossa che gli ha alienato le simpatie di una vasta pletora di pensionati.

Lavoro
Quello del lavoro è il principale problema dei beni culturali. Per lavorare a pieno regime senza intoppi, servirebbe che il ministero contasse su 25.000 dipendenti. Attualmente, la riforma Bonisoli appena varata prevede una dotazione organica di 188 dirigenti e 18.976 lavoratori. Il MiBAC prevede di qui a tre anni migliaia di pensionamenti, e una delle urgenze è quella di bandire al più presto concorsi per rimpinguare le forze del ministero. In questo senso, Franceschini ha fatto molto poco, limitandosi al concorsone per 500 funzionarî del 2016, insufficiente persino a coprire i pensionamenti. Le lacune di organico hanno prodotto situazioni spiacevoli in quasi tutti i musei italiani: alla Galleria Nazionale di Parma, costretta a chiudere le sale, al già citato Palazzo Ducale di Mantova (dove le stanze d’Isabella d’Este sono state spesso aperte sulla base della disponibilità d’organico), ai Musei Nazionali di Lucca e alla Galleria Nazionale di Palazzo Spinola a Genova (dove ci sono state a lungo chiusure nei giorni festivi). In generale, sugli orarî d’apertura molti musei hanno dovuto scontrarsi con le incognite del momento. Ancor peggio va nelle soprintendenze, che hanno visto emorragie di funzionarî passati ai poli museali. E la riforma Bonisoli non ha risolto questi problemi.

Musei piccoli
I musei piccoli sono stati i grandi bastonati della riforma Franceschini. Quelli che hanno avuto la fortuna di ricadere sotto un polo museale trascinato da un museo capace di portare visitatori e incassi hanno retto il colpo, gli altri invece sono risultati tra gli sconfitti. Questo per una ragione semplice: in regime di musei non autonomi, i fondi erano ripartiti in maniera più equa e uniforme. Valga l’esempio del fondo di solidarietà (quello a cui tutti i musei statali italiani contribuiscono con una quota: il totale viene poi destinato ai musei più bisognosi): prima della riforma Franceschini il fondo di solidarietà prevedeva che ogni museo destinasse una quota variabile, stabilita a posteriori e comunque non superiore al 30% degli introiti netti della biglietteria, mentre la riforma ha introdotto il 20% per tutti. Una percentuale che però non tiene conto dell’effettivo divario dei visitatori (i trenta musei più visitati in Italia richiamano il 70% dei visitatori). Ad ogni modo, il gap dei visitatori tra grandi e piccoli musei, dopo la riforma Franceschini, è andato aumentando costantemente, e questa corsa non si è ancora arrestata: la media dei visitatori nei trenta musei più visitati conosce di anno in anno tassi di crescita sempre maggiori (perché del resto è sui grandi musei che si sono concentrati i maggiori sforzi della riforma Franceschini), mentre la media dei visitatori nei musei “piccoli” o è diminuita, o è cresciuta a ritmi molto più blandi.

Numeri
I numeri sono quelli che alla fine di ogni anno il ministro Franceschini snocciolava per dimostrare i successi del ministero da lui guidato. Su questa rivista abbiamo però sempre sottoposto i numeri a letture ponderate, dimostrando la crescita del divario tra musei grandi e musei piccoli di cui al punto precedente, e altre situazioni. Per esempio, il fatto che l’aumento dei visitatori nei musei sia ottenuto soprattutto grazie ai non paganti (probabilmente quelli che hanno preso d’assalto i musei durante le domeniche gratuite: nel 2018 si è registrato un aumento di quattro milioni e mezzo di visitatori gratuiti contro un aumento di circa 900mila paganti), il fatto che il grosso degli aumenti si concentri in pochi musei (nei musei dove si entra sempre gratis, nel 2018 l’88% degli aumenti si è concentrato solo su tre musei), gli incassi che sono sì aumentati ma soprattutto per effetto di un rincaro del prezzo medio del biglietto, mai così alto come negli ultimi anni. Nel 2018, in particolare, è stato siglato il record storico del rincaro del prezzo medio del biglietto: 9,19 euro (per la prima volta veniva sfondato il muro dei 9 euro), un rincaro del 14,12% sull’anno precedente, il più alto di sempre (chissà se il settore dei musei è l’unico che ha un’inflazione a doppia cifra). Del resto, dal momento che sono state istituite le domeniche gratuite e molti aspettano quel giorno al mese per visitare i musei statali, occorreva trovare delle risorse aggiuntive: lo si è fatto aumentando un po’ ovunque i prezzi dei titoli d’accesso al museo.

Omaggiati
Ci riferiamo ai diciottenni, che sono stati gentilmente omaggiati di cinquecento euro da spendere per prodotti e attività culturali. “I diciottenni sono un simbolo”, dichiarava nel 2015 Matteo Renzi, “vorrei che andassero a teatro. Diamo un messaggio educativo come Stato, quello che le mostre sono un valore bello. Diciamo ai ragazzi che sono cittadini e non solo consumatori”. Con buona pace dei diciassettenni o dei diciannovenni. Si è trattato di un’iniziativa che ha accolto (e continua ad accogliere) grande favore da parte dell’Associazione Italiana Editori, ma che è stata anche criticata da molti, per via della sua natura: un contributo a pioggia, per un numero vastissimo di attività (per esempio, anche un concerto di Jovanotti ricade sotto gli eventi per cui si può utilizzare il buono), sottoutilizzato rispetto agli stanziamenti previsti, e che ha anche alimentato un piccolo mercato di “contrabbando” con alcuni adolescenti che hanno rivenduto il loro bonus.

Poli museali
La riforma Franceschini ha sganciato, per la prima volta nella storia, i musei dalle Soprintendenze: una trentina di musei, come visto, ha ottenuto autonomia gestionale e finanziaria, gli altri invece sono stati raggruppati su base regionale e hanno drenato funzionarî dalle soprintendenze. Nel comunicato con cui Franceschini annunciava l’istituzione dei poli, spiegava che “i poli museali regionali assicurano sul territorio l’espletamento del servizio pubblico di fruizione e di valorizzazione degli istituti e dei luoghi della cultura in consegna allo Stato o allo Stato comunque affidati in gestione, provvedendo a definire strategie e obiettivi comuni di valorizzazione, in rapporto all’ambito territoriale di competenza, e promuovono l’integrazione dei percorsi culturali di fruizione, nonché dei conseguenti itinerari turistico-culturali”. Spesso però sono mancate politiche capaci di raccordare i musei ai territorî, ma non solo: in una nota del marzo 2017, Debora Tosato della Cgil ha denunciato lo squilibrio tra i poli che possono contare su musei capaci di esercitare forte appeal sul pubblico e quelli che invece non hanno questa forza (“i direttori dei poli museali che non possono permettersi di contare sui grandi numeri delle città turistiche – e pertanto sulla facoltà di guadagnare denaro con gli introiti derivanti dai biglietti – vivono nell’ansia di coprire le spese ordinarie di mantenimento e manutenzione dei musei”, scriveva Tosato. “Per sopravvivere, taluni hanno pertanto scelto di incrementare le concessioni d’uso ai privati, demandando sempre di più l’offerta culturale a eventi che nulla hanno a che fare con il profilo scientifico, la storia e le collezioni dei musei. Ciò significa trasformarli in contenitori e non considerare prioritario l’investimento nell’attività scientifica e nell’autentica valorizzazione dei beni culturali”).

Qualità dei dati
Una delle principali critiche mosse al MiBAC è quella di non profilare il suo pubblico in maniera abbastanza approfondita. Oggi sappiamo che i musei attirano un certo numero di persone, di cui però non conosciamo la composizione: non sappiamo da chi è composto il pubblico, quali sono le percentuali dei visitatori che tornano a visitare un museo, quali le loro aspirazioni, quali le criticità. A livello locale e a livello privato ci sono delle interessanti case history di musei che sono stati in grado di profilare il pubblico in maniera accurata e a definire, grazie ai dati raccolti, delle politiche culturali e delle politiche di marketing molto performanti (un caso di cui abbiamo parlato su queste pagine è quello di Palazzo dei Diamanti a Ferrara). Il problema della qualità dei dati sul pubblico, tuttavia, va oltre Franceschini: il ministro ferrarese, per migliorare la situazione, ha semplicemente fatto quello che hanno fatto coloro che lo hanno preceduto e seguito. Ovvero: niente. E questa è una delle principali priorità che dovranno guidare la prossima azione di governo: meglio si conosce il pubblico, meglio si potrà migliorare l’offerta.

Rivoluzione
“Rivoluzione” è stato il termine che Dario Franceschini ha utilizzato a lungo per riferirsi all’assetto del MiBACT da lui introdotto. E in effetti il ministero è stato rivoluzionato: musei autonomi, poli museali slegati dalle soprintendenze, soprintendenze uniche, riforma dell’esportazione. La rivoluzione però non ha toccato molti aspetti: l’arte contemporanea e la ricerca, per esempio, altri due argomenti toccati in maniera molto marginale dalla riforma Franceschini. Anche questi dovranno essere due aspetti ai quali rivolgere maggiori attenzioni.

Servizî pubblici essenziali
Una delle decisioni più controverse del ministero targato Franceschini è stata l’inclusione dei musei nei servizî pubblici essenziali. Questa scelta maturò nel settembre del 2015, a seguito di un preciso episodio: un’assemblea sindacale (ovviamente comunicata per tempo e nel rispetto della legge) dei lavoratori del Colosseo, che da circa un anno non percepivano le indennità per le aperture straordinarie. Franceschini, al grido di “la misura è colma” (la colpa dei lavoratori era infatti quella di aver tenuto chiuse le porte del Colosseo e dei siti annessi per tre ore, dalle 8:30 alle 11:30, e soprattutto quella di aver indetto la loro assemblea in un periodo piuttosto turbolento per i lavoratori dei musei), quello stesso giorno propose, in sede di consiglio dei ministri, l’inserimento dei musei tra i servizî pubblici essenziali, e così fu. Che si trattasse d’una misura tesa più a punire i lavoratori mettendo dei paletti al loro diritto di sciopero che a rendere più efficienti i musei, ci è sempre sembrato evidente dal fatto che la situazione delle aperture dei musei non sia migliorata, anzi: molti sono stati i musei costretti a serrare temporaneamente le porte a causa di carenze d’organico. “Se la cultura fosse un servizio pubblico essenziale”, sottolineava Daniela Pietrangelo del collettivo Mi Riconosci nel maggio di quest’anno, “non vedremmo migliaia di comuni italiani privi di biblioteche, archivi inaccessibili e musei chiusi in tutto il Paese. Si è posto il diritto alla visita turistica davanti al diritto alla cultura”.

Tutela e valorizzazione
Il 30 agosto del 2014, nell’annunciare trionfalmente la riforma del MiBACT, Franceschini asseriva che la riorganizzazione permetteva di superare “la contrapposizione ideologica tra tutela e valorizzazione”: in realtà, questa contrapposizione veniva proprio introdotta dalla riforma, dal momento che prima le due azioni ricadevano sotto le competenze di un unico ente, le soprintendenze, che erano responsabili anche per i musei (secondo un’ottica molto sensata, dal momento che la stragrande maggioranza dei musei italiani nasce con forti legami con il suo territorio). La scissione avvenuta a seguito della riforma Franceschini, con i musei che sono stati slegati dalle soprintendenze e radunati nei poli museali, oltre a sancire per decreto la contrapposizione (dal momento che la tutela veniva messa in capo alle soprintendenze, e la valorizzazione ai musei autonomi e ai poli museali), ha svuotato, come in molti hanno denunciato, le soprintendenze, dal momento che diversi funzionarî sono finiti a lavorare nei poli museali. Questa scissione ha avuto effetti piuttosto drastici in alcune zone d’Italia, si pensi, per esempio, al centro Italia colpito dal sisma del 2016: solo pochi giorni fa, su queste pagine, lo storico dell’arte ed ex sindaco di Matelica, Alessandro Delpriori, denunciava il fatto che nelle Marche ci sono soltanto due funzionarî storici dell’arte a occuparsi del territorio, perché gli altri sono passati ai musei. E Delpriori ha definito “devastante” l’effeto che la riforma ha prodotto su queste zone. Anche su questo punto occorrerà fare delle approfondite riflessioni.

Uniche
Ovvero, le soprintendenze a seguito della riforma Franceschini: prima erano separate per competenze, mentre dal 2015 l’architettura, le arti, il paesaggio e l’archeologia sono state tutte messe in capo alle soprintendenze “olistiche” (così venivano chiamate all’epoca). La ratio del provvedimento era la semplificazione dei rapporti tra cittadino ed ente, ma secondo i critici (per esempio gli accademici dei Lincei che a gennaio 2019 hanno firmato una lettera indirizzata al ministro Bonisoli proprio sul tema delle soprintendenze uniche), queste misure non hanno consentito di raggiungere livelli di efficienza ottimali nella tutela del patrimonio e hanno generato confusione di ruoli. Le contraddizioni derivanti dalla riunione di competenze tanto diverse sotto un unico ufficio sono state risolte dalla riforma Bonisoli (è stato uno dei provvedimenti più interessanti dei decreti promossi dal ministro pentastellato): con le misure introdotte da Bonisoli, il responsabile delle autorizzazioni, dei pareri, dei visti, dei nulla osta sarà il funzionario competente per materia, chiamato “responsabile di area” (ovvero: l’archeologo si occuperà di archeologia, l’architetto del patrimonio architettonico, lo storico dell’arte dei beni storico-artistici), mentre il soprintendente unico introdotto dalla riforma Franceschini, se vorrà emanare un provvedimento che si discosti dall’istruttoria condotta dal responsabile di area, dovrà informare la Direzione generale Archeologia, belle arti e paesaggio.

Volontariato
Altro grande cruccio del ministero di Franceschini è stato lo scriteriato uso del volontariato come surrogato del lavoro, come più volte abbiamo denunciato su queste pagine. In questo caso, Franceschini non ha fatto alcunché per migliorare la situazione, anzi, se possibile l’ha favorita: ricordiamo in particolare le sue parole di apprezzamento per le Giornate FAI di Primavera (possibili grazie al largo impiego di volontarî che accompagnano e guidano i visitatori tra i beni gestiti dal Fondo Ambiente Italiano), definite dall’allora ministro come “la dimostrazione di come pubblico e privato insieme possono fare un lavoro davvero importante di valorizzazione e tutela del patrimonio culturale”. Ovviamente è scontato sottolineare che la tutela e la valorizzazione non possono e non devono basarsi sulle prestazioni di volontarî, ma sul lavoro di professionisti titolati, qualificati e retribuiti. Alberto Bonisoli ha dato un giro di vite contro queste storture e si è sempre dichiarato contro l’abuso del volontariato, ma il problema comunque persiste e sarà uno dei principali punti da risolvere di qui a breve.

Zittire
Con il decreto ministeriale del 23 dicembre 2015, contenente il “Codice di comportamento” dei dipendenti del ministero, il MiBACT di Franceschini ha introdotto per i dipendenti l’obbligo di informare il loro dirigente riguardo ai rapporti con la stampa. In particolare, il comma 8 dell’articolo 3 recita: “Il dipendente - fatto salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e dei cittadini - si astiene da dichiarazioni pubbliche, orali e scritte che siano lesive dell’immagine e del prestigio dell’Amministrazione ed informa il dirigente dell’ufficio dei propri rapporti con gli organi di stampa. Le attività di informazione si realizzano attraverso il portavoce dell’organo di vertice politico dell’Amministrazione dall’Ufficio Stampa, le attività di comunicazione attraverso l’Ufficio per le Relazioni con il Pubblico, nonché attraverso eventuali analoghe strutture”. Di fatto, i funzionarî del MiBAC, al momento, per parlare con la stampa chiedono prima l’autorizzazione ai loro dirigenti. Questa misura nasce ufficialmente per evitare che i dipendenti ministeriali possano fare un uso strumentale della stampa o ledere l’immagine del ministero, ma molti osservatori hanno ridefinito il dm del 23 dicembre 2015 come il “decreto bavaglio” (in quanto non consentirebbe ai lavoratori del MiBAC di esprimere dissenso nei confronti della gestione: i diretti interessati dai provvedimenti, in sostanza, sarebbero stati zittiti, anche perché nelle circolari fatte uscire per comunicare ai dipendenti degli organi del ministero la ricezione del dm, veniva chiaramente imposta l’autorizzazione preventiva dell’ufficio stampa o del dirigente prima di poter parlare con la stampa), e hanno chiesto a gran voce la revoca (l’ultima, poche settimane fa, è stata Margherita Corrado del M5S, ma la lista non è corta).


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo





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