Nell’ambito della Regione Umbria, e nel corso degli ultimi tre decenni, le istituzioni hanno promosso una serie di campagne di restauro, recuperi e iniziative di varia impostazione, coinvolgendo diverse forze indirizzate allo studio e alla salvaguardia del patrimonio storico-artistico. Puntando soprattutto sugli anni di passaggio fra Quattrocento e Cinquecento, si sono illustrate le molteplici facce di una cultura figurativa che trovava rispondenze determinanti nella personalità di un artista di sicuro rilievo, e a lui, infatti, sono state dedicate a distanza di vent’anni due grandi mostre, Perugino il divin pittore (2004) e Il meglio maestro d’Italia. Perugino nel suo tempo (2023); due occasioni di ricerca che sono state integrate, a distanza e in una fase intermedia, dalla mostra dedicata a Firenze al Verrocchio, il maestro di Leonardo (2019), dove un settore significativo offriva una sintetica recensione degli allievi e dei collaboratori del Verrocchio, fra i quali fu sicuramente il Vannucci.
Il programma rievocato nei saggi introduttivi del Catalogo della mostra del 2004 poneva in luce alcuni approfondimenti sui nomi di artisti più e meno noti, in una ricostruzione che aveva al centro il ruolo emergente del Perugino, e che poneva in primo piano il rapporto fra arte e società, fra i metodi di lavoro adottati nelle botteghe e l’articolazione di un linguaggio visivo dove s’intrecciavano le ambizioni del potere e le esigenze della fede. Un quadro orientato secondo diverse forme di verifica e di rilettura delle strutture visive, che aveva i risultati più brillanti e innovativi nella ricostruzione di alcuni monumentali polittici perugineschi, esempi eccellenti di ricerca storico-artistica fondata sulla integrazione fra storia e filologia.
La mostra che si è aperta e conclusa nell’anno in corso rivela già nel titolo l’intento di allargare lo scrutinio a una serie di canali aperti a ventaglio, in parte presenti nel Catalogo precedente, e proponendo una espansione, anche cronologica, verso esiti ulteriori. Tanto impegno ha prodotto un volume imponente, indubbiamente fitto di contributi ma di non facile consultazione per chi voglia perseguire una visione d’insieme, e di difficile lettura per la limitata maneggevolezza del volume stesso e per la dimensione esigua dei caratteri. Nondimeno ritengo sia utile dedicare all’opera alcune considerazioni spregiudicate, esito di una lettura faticosa ma positiva, pur se le condivisioni si alternano a passaggi che presentano aspetti problematici. Il mio sarà un resoconto parziale, specificamente orientato in rapporto alle mie aree di studio.
Un riepilogo delle vicende che, fra Tre e Quattrocento, hanno visto intrecciarsi in Italia le ostilità e le alleanze fra i principali centri di potere, una esplorazione attenta sia della biografia del Vannucci, sia del relativo profilo storico-critico, aprono la serie di contributi comprendente saggi di diverso spessore. Emergono fra gli altri le analisi dell’architettura dipinta nell’opera di Perugino e affini, significative nel caso delle tavolette della nicchia di San Bernardino, completate da un esauriente corredo grafico e svincolata da quello che a mio avviso è stato in passato un ozioso problema autoriale; problema che peraltro si riaffaccia nelle schede, e con scarso risultato.
La ricostruzione del percorso del Vannucci si scinde opportunamente nell’analisi fra la diramata attività in Umbria e quella svolta a Firenze e a Roma, con molteplici approfondimenti: l’organizzazione delle botteghe, i metodi di lavoro (indagini sorrette dai preziosi rendiconti dei restauri, dalle notizie sui materiali, dalle vicende dei pezzi esposti); la convivenza delle diverse équipe di frescanti attivi sui palchi della Sistina, vista attraverso il filtro del probabile coordinamento del Perugino; le peculiarità di alcune strutture figurative stabili, come il Paesaggio, componente importante del repertorio peruginesco, o la tipologia dei San Sebastiano trafitti da rare frecce, proposta dal Vannucci in diverse versioni. Ho delle perplessità sul Paesaggio come esito di un processo tendenzialmente mentale, poiché la formula base nasce a mio avviso da un’intensa esperienza visiva associata a una selezione di elevato taglio professionale; così in rapporto al santo martire registro alcune ridondanze di lettura: la finezza dei perizomi che avvolgono i fianchi del Miles dei peruginesco non è tanto frutto di elaborazione creativa, quanto evocazione dei Crocifissi medievali e dei loro panni pregiati; immagini ben presenti in Umbria, e oggetto di profonda devozione.
La mostra si espande quindi in altre direzioni: il successo della pittura del Vannucci, ovvero il diffuso ma variegato ‘peruginismo’, al quale è dedicata una raffinata sintesi storico-culturale, la espansione del fenomeno in Emilia e Lombardia, a Siena, a Napoli, e il sottile divario tra due orientamenti figurativi di area umbra, quello pianamente conservatore di Giovanni Santi e quello più robusto e originale del Vannucci. Estensioni che culminano nella considerazione dell’attività tarda del pittore, e soprattutto della perdita di consenso, sia a livello storico, sia nell’ambito della letteratura artistica, indagata nelle varie flessioni.
Un programma diffuso, dunque, che presenta qualche discontinuità nei risultati. Ciò si avverte proprio in relazione al nucleo centrale della problematica affrontata, ovvero nei testi dedicati al protagonista assoluto della vicenda, e cioè Pietro Perugino, laddove si afferma il gioco ambiguo delle attribuzioni. Nella mostra del 2004, a margine dell’attività del giovane Perugino, si era avviato un percorso tendente a visualizzare quel profilo di un Verrocchio maestro-manager-imprenditore già da più parti delineato; percorso ripreso con qualche lacuna nell’ambito della mostra dedicata ad Andrea (2019), e invece contraddetto nella più recente circostanza. Fra gli esempi possibili, segnalo quello emblematico di due tormentate Madonne berlinesi, che, con un ultimo rimbalzare di nomi, vengono inopinatamente riunite e ricondotte a una esecuzione del Verrocchio (figg.1,2): pur appartenendo i due dipinti all’area di uno stile condiviso dai collaboratori del maestro, i quali usavano per i dettagli dei volti e delle mani gli stessi modellini grafici e plastici, la smaltata staticità dell’una (da associare al Perugino) si distingue rispetto alla vibrante vitalità dell’altra, che è di ascendenza lippesca e pertinente a un’altra presenza importante nella bottega di Andrea, ovvero Botticelli. Si torna, cioè, attraverso Perugino, a un Verrocchio superdotato e tuttofare, avvezzo al calore della fornace e alla fusione dei metalli, abile nel modellare sul trespolo la terra e lo stucco, ma impegnato anche nel prolungato lavoro al cavalletto, fra tavolozza, mestiche e pennelli.
Nella scia del tirocinio presso il Verrocchio, si affermano altre variazioni di attribuzione, e i dipinti trasferiti verso Perugino e il suo ambito trovano un frequente punto di riferimento negli effetti di una “luce cristallina”: si tratta di una formula-grimaldello che, con vari adattamenti, si ripete nei testi di alcuni autori, fra saggi e schede, per quanto nello stesso Catalogo altri contributi analizzino pratiche di bottega legate a una saggia e probabilmente redditizia collaborazione: un metodo di lavoro che implicava un concorso di “mani” diverse, e che dovrebbe suggerire prudenza nella individuazione dello stile e nell’esercizio dell’attribuzione.
Vengo ancora al protagonista, il Vannucci, al quale è assegnata un’altra opera cui pertiene una lunga e complessa vicenda bibliografica, e che è oggetto di una doppia acrobazia, la variazione sull’autore del dipinto e sulla identificazione del personaggio. È il caso del celebre Ritratto virile degli Uffizi, di cui si ricostruisce la storia (con qualche lacuna) e di cui s’indaga con puntiglio la stesura pittorica (fig.3); dati che purtroppo risultano spesso a doppia faccia, validi per una come per altre opzioni: torna in campo la presenza dei “lustri” sulla pelle, una componente ritenuta di pertinenza fiamminga, mentre si tratta di un procedimento diffuso che appartiene alla pittura fiamminga ma non solo a quella, e anche al disegno, che accomuna tutti i maestri che si dedicavano agli studi lumeggiati a biacca, Perugino, Botticelli, Filippino, Lorenzo di Credi e tanti altri. Sconcerta quindi tanta disinvoltura nel sorvolare su passaggi così altisonanti, da Lorenzo di Credi a Raffaello, poi, visto il silenzio degli specialisti del Sanzio e la distanza rispetto alla svolta attributiva proposta da Bellosi, da Raffaello al Perugino, ovviamente tacitando un nome, quello di Lorenzo di Credi, il cui stile peraltro s’intravede nell’angustia della stanza e della finestrella, e nella clausola cogente delle mani serrate, elementi che, per parte mia, ho più volte sottolineato. Si tratta di un problema difficile che vede da un lato un riscontro fisionomico soddisfacente solo fra i due autoritratti sicuri del Vannucci (la piega discendente agli angoli delle labbra, i capelli radi e appena mossi, il fisico asciutto) ovvero l’effigie giovanile nell’Adorazione dei magi, 1475 circa, e quella matura nel trompe l’oeil del Collegio del Cambio, 1496-1500 (figg.4-5); mentre l’immagine di uno degli astanti nella sistina Consegna delle chiavi (1482), caratterizzato da una decisa pinguedine e dai capelli neri e ricci si presta solo parzialmente al confronto con il Ritratto degli Uffizi, e dunque non offre un terzo e decisivo elemento all’ipotesi della identificazione con il Vannucci, nonostante la costante dell’ovale allentato e del doppio mento (figg.6-7); le date delle opere, alcune certe, altre presunte, non collimano con l’età relativa alle diverse effigi, e comportano più di un dubbio, pertanto è possibile che la serie di immagini non sia omogenea, e riguardi due persone diverse; ovviamente con ampio margine di dubbio.
In ogni caso l’assegnazione del Ritratto virile al Perugino trascina con sé il consenso per un altro discutibile cambio di attribuzione, quello che riguarda l’Autoritratto di Lorenzo di Credi della National Gallery di Washington, già trasformato da tempo e con pari disinvoltura in Ritratto di Lorenzo di Credi di mano del Perugino (in realtà la lieve torsione della testa sul collo è propria di chi si ritrae guardandosi in uno specchio, fig.8): la scheda del Catalogo 2023 fortunatamente riporta la scritta cinquecentesca perduta (?) nel corso del trasporto dalla tavola alla tela, che identificava esplicitamente il dipinto come effigie di Lorenzo di Credi, “pittore eccellentissimo” eseguito nel 1488 allorché l’autore aveva trentadue anni e otto mesi. La identificazione della data di nascita di Lorenzo nell’anno 1456 ha ricevuto una conferma ineccepibile da una recente ricerca d’archivio, e dunque non è corretto citare l’iscrizione ma contemporaneamente ignorarne la testimonianza. L’occhio del conoscitore può travolgere i dati che accompagnano questo spoglio e patetico Autoritratto, idealmente congruente con ciò che sappiamo della umbratile personalità del Credi? Giorgio Vasari, che nelle notizie dedicate a Lorenzo (almeno quelle controllabili) non sbaglia mai, dice che lo stesso pittore “fece molti ritratti…e quando era giovane fece quello di sé stesso”, inoltre ritrasse il Perugino e il Verrocchio... del resto la trama pittorica di Lorenzo, pur raffinata, resta ancorata a un tirocinio tradizionale, mentre quella del miglior Perugino (vedi il Ritratto di Francesco delle opere) evoca forme ‘impalpabili’, ed è radicalmente innovativa.
Ho citato quelle che, con altri casi isolati, rappresentano parziali sbavature nell’ambito di una ricerca che ha in ogni caso ampliato il quadro della pittura umbra fra XV e XVI secolo, dal Bonfigli al Caporali a Pinturicchio a Piermatteo d’Amelia, espandendosi al di là dei confini dell’Umbria e del XV secolo, e valorizzando anche episodi poco noti come quello di un Perugino designer, responsabile della progettazione di quello che fu uno splendido porta-vivande destinato all’arredo di una tavola imbandita, una nave d’argento eseguita per i Priori perugini di cui resta purtroppo solo la descrizione verbale. I passaggi discutibili che ho ritenuto di segnalare temo siano legati a una fiducia eccessiva nel riscontro morfologico, visibilmente espresso nel Catalogo da un ritaglio dei particolari, adottato sezionando perizomi o scollature ingioiellate e affastellando cavità orbitali; una misura ragionevole, a volte utile e perfino necessaria, quando però non si lasci troppo margine all’estro creativo del grafico, e non si giunga a tagliuzzare, e perfino ad affettare un dipinto come si fa con una baguette.