L’opinione che il mondo dei musei ha riservato al destino dei monumenti all’indomani delle proteste del Black Lives Matter potrebbe essere descritta come pura indignazione. Ma nonostante ciò, sceglierei la fotografia di Julia Rindleman come una prova di cultura materiale sulle proteste del Black Lives Matter. Per come la penso, quest’immagine rappresenta il paradosso intrinseco tra, da un lato, le libertà e i traguardi raggiunti da una società, e dall’altro la lotta che continua senza sosta. Lo rappresenta così (e, aggiungo io, lo fa in maniera eccezionale): le due ballerine di Rindleman (le quattordicenni Kennedy George e Ava Holloway) sono in piedi, vestite con un tutù nero, davanti al monumento al generale confederato Robert E. Lee segnato con graffiti e scritte alla vernice spray poco prima della sua rimozione. Al di là dei graffiti e della vernice spray (un incubo per i conservatori), il monumento, e come lui altri 1.700 monumenti confederati che si trovano in tutta l’America, oltre a dar forma all’eroe militare o al leader che rappresentano, sono diventati simboli di oppressione. Infatti, l’affermazione di Kennedy e Ava è diretta all’eredità contestata che è oggi simboleggiata dal monumento a Lee, e che è stata oggetto di dibattito fin dal momento in cui è stata concepita l’idea di erigere un monumento a un confederato. Nella sua lettera al generale Thomas L. Rosser datata 1866, Lee condivideva le sue preoccupazioni sull’innalzamento di monumenti ai confederati, riconoscendo che simboli del genere avrebbero rallentato la formazione della nazione, anziché “accelerare il suo completamento”.
La fotografia di Julia Rindleman |
Le parole di Lee dovrebbero essere prese come un monito, benché riconosciute relativamente tardi? E allora, in che modo il patrimonio contestato potrebbe essere capito e valorizzato al di là delle reazioni emotive che portano alle rimozioni e agli abbattimenti?
Non c’è una risposta diretta a questa domanda, e le sei strategie suggerite da Hyperallergic per affrontare il tema dei monumenti e dei memoriali controversi certamente rappresentano un valido punto sui possibili scenari. Le strategie proposte spaziano dal non fare niente, al rimuovere, al ricollocare, al ricontestualizzare. I musei sono citati come possibili luoghi di conservazione, ma non tutti sono d’accordo. I musei di sicuro sono molto più che luoghi sicuri dove presentare il patrimonio contestato e la cultura materiale.
Ph. Credit Niv Singer |
L’altra faccia della medaglia
Sul fronte opposto, i musei, certamente spinti in questo senso dalle proteste del Black Lives Matter, si sono attivati come mai era successo prima d’ora nella strategia del Rapid Response Collecting. L’idea alla base di questa strategia è stata messa a punto dal Victoria and Albert Museum nel 2014 (con precedenti da rintracciare nel progetto History Responds portato avanti dalla New York Historical Society). Il Victoria and Albert Museum descrive il Rapid Response Collecting in questo modo, sul suo sito web: “gli oggetti contemporanei vengono acquisiti in risposta a momenti importanti della storia recente che hanno a che fare con il mondo del design e della produzione. Molti degli oggetti sono diventati degni di nota perché hanno fatto progredire quello che il design può fare, oppure perché rivelano verità su come viviamo”.
A cavallo della crisi mondiale che stiamo vivendo, sempre più musei hanno cominciato a intraprendere azioni di Rapid Response Collecting. Un recente articolo di Sarah Cascone su artnet.com fornisce delucidazioni validissime sul Rapid Response Collecting. Aaron Bryant, curatore della fotografia e delle collezioni di cultura visiva contemporanea al National Museo of African American History and Culture dello Smithsonian di Washington, considera l’oggetto come un portale, una specie di mezzo per connettere la storia e il pubblico. Anche Peggy Monahan, direttrice dello sviluppo dei contenuti all’Oakland Museum of California, sottolinea l’eccezionalità della circostanza di essere consapevoli di vivere un momento molto significativo. Concordo sul fatto che il Rapid Response Collecting sia un passo avanti nell’affrontare lo squilibrio percepito nelle pratiche di sviluppo delle collezioni museali. E poiché l’atto della protesta diventa di per sé produttore di cultura materiale degna di essere acquisita, la democratizzazione dell’istitutuzione museale diventa molto più che una semplice ambizione.
Ma la tendenza al bias è radicata nelle istituzioni museali molto più di quanto si possa pensare a tutta prima. Un buon caso di studio è offerto da una app del progetto Google Arts & Culture, quella sui ritratti introdotta nel dicembre 2018: attraverso questa app, vengono trovate corrispondenze tra il proprio selfie e i ritratti conservati nei musei di tutto il mondo e disponibili nel database di Google Lo stesso Google è stato sorpreso dall’improvviso successo della app, ma la app escludeva la maggior parte delle persone di colore, per il semplice fatto che ritratti di personalità di colore sono tutt’altro che comuni. Alla fine della fiera, la app funzionava molto meglio per gli utenti bianchi, perché il database era popolato soprattutto con ritratti di europei, prevalentemente del XVIII secolo.
Il fatto è che i ritratti di persone di colore sono molto meno diffusi nelle collezioni dei musei di tutto il mondo, o per lo meno è così nel mondo occidentale. Prendendo la Gran Bretagna come caso di studio, il primo ritratto noto di una persona africana, che incidentalmente è anche uno schiavo affrancato, fu dipinto nel 1733 da William Hoare. Non appartiene a un istituto britannico, ma al Museo d’Arte Orientale di Doha, in Qatar.
Ph. Credit Charisse Kenion |
Lo spazio negativo
Entrambe le facce della medaglia rappresentano le sfide che le istituzioni museali che auspicano la decolonializzazione delle loro collezioni affrontano e che di certo non sono questioni semplici. È un dato il fatto che, a prescindere da quanti sforzi i musei possano fare per affrontare gli squilibri che hanno al loro interno, il bias rimarrà in quanto presenza intrinseca. La cultura materiale potrebbe non essere disponibile per l’acquisizione, perché si sa fin troppo bene che può essere distrutta, o comunque potrebbe non essere raggiungibile. I monumenti pubblici potrebbero ancora incarnare le loro narrazioni contestate anche se ricollocati in un museo. Rendere democratico il processo decisionale su un monumento che potrebbe essere innalzato o rimosso potrebbe essere un modo per fare molta strada sul tema dei bias. Lo stesso si potrebbe dire per la cultura materiale acquisita nel tempo dai musei.
Un altro approccio per democratizzare la cultura materiale è capire quello che io chiamo lo “spazio negativo”. Posso spiegare questo concetto con un’analogia. Quando a uno scultore viene dato un blocco di materiale da scolpire, uno schizzo anche eseguito rapidamente lo aiuta a liberare l’opera intrappolata nel materiale. Nella scelta selettiva e deliberata delle parti da rimuovere con lo scalpello, lo scultore si avvicina a quella che è un’opinione molto soggettiva, che è l’opera quando sarà portata a termine. L’atto di scegliere cosa rimuovere e cosa tenere è molto simile al modo in cui i musei sviluppano le loro collezioni. I musei formano le loro narrative espositive dalle loro scelte in fatto di cultura materiale, e continuano a fare ciò quando scelgono cosa acquisire e i modiscelti per pressentarlo. La stessa cultura materiale può essere presentata e interpretata anche in rappresentanza di ciò che non rappresenta nel senso immediato della parola e di come una particolare narrazione sia diventata dominante, scartandone altre ugualmente rilevanti a suo tempo.
Questo è ciò su cui sta lavorando la storica dell’arte Alice Procter con i suoi Uncomfortable Art Tours. I tour di Alice Procter sono un chiaro tentativo di decolonizzare i musei e le gallerie garantendo alle immagini le narrazioni alternative che sottostanno alla cultura materiale esposta, a partire dal modo e dai mezzi con cui questa viene rappresentata (anche attraverso l’illuminazione e le didascalie). Questi tour rappresentano una voce alternativa, un ulteriore livello di significato a cui non è stato concesso spazio sufficiente. E di sicuro arricchiscono la polifonia dei significati che la cultura materiale può rappresentare e simboleggiare, portando all’interno delle immagini quelle narrazioni subalterne e non riconosciute che potrebbero esser state scartate o lasciate da parte per troppo tempo. Questo può essere un passo importante nel processo di democratizzazione dei musei. Anche se non è un passo facile.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Sandro Debono
Pensatore del museo e stratega culturale. Insegna museologia all'Università di Malta, è membro del comitato scientifico dell’Anchorage Museum (Alaska) oltre che membro della European Museum Academy. Curatore di svariate mostre internazionali, autore di svariati libri. Scrive spesso sui futuri del museo ed ha il suo blog: The Humanist Museum. Recentemente è stato riconosciuto dalla Presidenza della Repubblica Italiana cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia e dal Ministero della Cultura Francese Chevalier des Arts et des Lettres per il suo contributo nel campo della cultura.