Il sistema dell’arte è trincerato sopra torri d’avorio e gli artisti sono costretti a produrre innocuo e rassicurante arredamento da interni, quello che nel 2009 ho chiamato IKEA evoluta. Ormai c’è una fiera a settimana ed esistono solo luoghi di “raccolta”, non esistono più luoghi dove “seminare” intelligenza, pensiero critico, attitudini di valore da cui poi possano precipitare opere da mettere sul mercato.
Palestina, Gaza, Elon Musk che fa il saluto romano, guerra in Ucraina, Telemeloni, violenza sulle donne, crisi santitaria, aumento della povertà, alluvioni e cambiamento climatico, crisi globale nelle istituzioni e nella democrazia, problemi di Cybersicurezza, insicurezza alimentare, pressioni demografiche, diritti umani e discriminazioni, conflitti e instabilità geopolitica, disuguaglianze sociali ed economiche. La verità è che ci stiamo abituando a tutto e gli artisti sono specchio della società in cui vivono. Non è successo tutto di colpo: per portare le persone ad accettare l’assurdo e l’inaccettabile ci vogliono tempo e costanza. La storia, basta leggere anche solo quella del secolo scorso, ci ricorda che, una goccia alla volta, si riempie un secchio che poi straborda, senza accorgerci che il rubinetto perdeva da tempo.
Questo articolo non potrebbe contenere tutti gli esempi e gli episodi che mi vengono in mente, né possiamo sapere quali siano stati i primi segnali. Fatto sta che ci siamo abituati: abituati a vedere uomini che sgozzano bambini e portano via donne terrorizzate su una moto, abituati ad accettare bombe su interi quartieri di civili, ad assistere all’assassinio di mille innocenti per colpire un colpevole.
Ci siamo abituati a vedere in TV o sul cellulare, mentre giriamo la pasta, barche piene di persone che, mentre cercano di sfuggire a una vita impossibile, muoiono annegate. Ci siamo abituati, ma soprattutto abbiamo accettato che un presidente della nazione che dovrebbe essere esempio di democrazia nel mondo, dichiari di voler invadere la Groenlandia come se stesse giocando a Risiko. Parla di deportazione con la disinvoltura di chi sa che quella parola scatenerà applausi, non insulti.
Ci siamo abituati proprio a tutto: giustifichiamo tutto, non ci indigniamo più per niente. Consentiamo al più ricco uomo del mondo, in mondovisione, di fare il saluto romano senza arrestarlo un minuto dopo, perché ormai siamo abituati a tutto.
E l’arte cosa fa? Niente. Tuttavia l’arte contemporanea potrebbe essere, al contrario, una palestra e un laboratorio per allenare la nostra capacità di vedere e di conseguenza di agire. L’unico ambito che potrebbe rappresentare e resistere efficacemente al nostro tempo. Ma sembra che anche il mondo dell’arte abbia, negli ultimi anni, assimilato le cose peggiori del mondo, e sia diventato simile a un regime degno delle più terribili dinamiche dittatoriali, e dove il pensiero divergente viene marginalizzato e fatto fuori professionalmente. Dove gli artisti e le opere sono del tutto secondari rispetto al dominio dei curatori, che però non creano niente, alle gallerie, veri campi di concentramento culturali e commerciali, alle grandi rassegne internazionali, occupate da tematiche solamente di facciata. Il sistema e il mercato sono importanti ma vanno regolamentati secondo senso critico, etica e onestà intellettuale. Se solo l’arte contemporanea può rappresentare una palestra dove allenare e sperimentare nuovi occhi, la politica per come la conosciamo non ha più spazi e margini di manovra credibili, ecco che la questione è assolutamente politica.
Gli artisti devono ritrovare coraggio e lucidità nell’affrontare il nostro presente, ma senza retorica e con attitudini coraggiose.