L’esordio della mostra su papa Urbano VIII in corso a Palazzo Barberini è nel segno di San Sebastiano, una figura che ebbe una particolare rilevanza per i Barberini e in particolare per Maffeo. In un serrato dialogo troviamo accostati il San Sebastiano gettato nella Cloaca Massima di Ludovico Carracci (1612), da Los Angeles, il marmoreo San Sebastiano di Gian Lorenzo Bernini (1617), di proprietà privata e in prestito a lungo termine al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, e, riprodotto su una parete, alle spalle della scultura, un componimento latino del pontefice dedicato al santo. Se si guarda meglio, tuttavia, o meglio se si legge la didascalia dell’opera, visto che accorgersene da soli è praticamente impossibile, ci si avvede del fatto che il Sebastiano berniniano non è affatto marmoreo, e non è l’originale: si tratta di una copia di altissima qualità in resina dipinta, commissionata a Factum Arte in vista della mostra, dopo che da Madrid era stato negato il prestito dell’originale, per motivi conservativi.
Il ricorso a una copia “di nuova generazione” è stato ritenuto indispensabile, in considerazione dello scopo che la mostra si prefigge (quello di raccontare anche il mecenatismo di altissimo profilo che Maffeo Barberini promuove già prima della sua elezione al soglio di Pietro, con commissioni ad artisti come Bernini, Carracci e Caravaggio) e al fine di documentare ai massimi livelli, seppur in copia, l’avvio di quello straordinario sodalizio tra Maffeo e Gian Lorenzo che recò a Roma e al mondo frutti memorabili. È curioso, peraltro, che l’accuratissima riproduzione sia esposta proprio in una mostra sulla Roma barberiniana, in cui da diversi punti di vista la copia assume un’importanza di primo piano. I collezionisti dell’epoca, e i Barberini stessi, avevano nelle loro raccolte numerose copie, esposte assieme a dipinti originali, apprezzate come strumenti di diffusione e appropriazione di iconografie e opere celebri, ma anche per il loro valore estetico, nel caso di copie di buona qualità.
Nel contempo, era ben chiaro il diverso valore di mercato di originali e copie, e nelle sue Considerazioni sulla pittura Giulio Mancini dispensava avvertimenti su come distinguere gli uni dalle altre, con un’attenzione per l’analisi e il confronto dei dettagli che ne fanno un antesignano dei moderni conoscitori. La copia rivestiva un’importanza fondamentale come strumento di documentazione (si vedano quelle di mosaici e affreschi medievali ordinate dal cardinale Francesco Barberini e le xilografie raffiguranti lastre tombali tre-quattrocentesche commissionate dal cavalier Francesco Gualdi) e aveva un’indiscussa centralità nelle imprese erudite dell’epoca (a cominciare dal Museo Cartaceo di Cassiano Dal Pozzo) e negli scambi tra dotti e antiquari che costituivano il tessuto connettivo della République des Lettres, cui rimandano due disegni tratti dal Vaso Portland esposti nella mostra romana. Le copie erano in realtà croce e delizia degli eruditi, che spesso lamentavano la scarsa affidabilità dei disegni e cercavano modalità di riproduzione più fedeli delle piccole antichità (“impronti” in piombo, gesso o zolfo). Di questi aspetti ci testimonia ampiamente la sterminata corrispondenza del “campione” della République, Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, che in particolare, scrivendo al cardinale Francesco Barberini il 6 febbraio 1637, ragiona lungamente sulla copia.
Il provenzale ci fornisce una volta di più prova del suo acume, arrivando a intravedere, in largo anticipo sui tempi, la natura seriale di tanta arte classica: “[…] per essempio della pittura del Giudicio di Michelangelo, della scoltura del suo Mozè, et così della Maddalena di Titiano, et altre opere più singolari del secolo, che se ben vengono copiate, o dissegnate, o scolpite da diversi pittori o scultori, nulladimeno ritengono sempre il nome, del Giudicio, o del Mozè di Michelangelo et della Maddalena di Titiano, come gli istessi originali prototypi. Se ben sonno d’altra mano, et d’altra materia, come quando si è stampato in rame, o in legno, il Mozè di Michelangelo o quando s’è stampato similmente, o dipinto a oglio, o a colla, o a miniatura, il suo Giudicio cavato da quello fatto di fresco nella cappella di Sixto. Così nelle medaglie di Alessandro Magno, si vede la statua di Phidia o di Prassitele (dalle quali proviene il nome di cotesto Montecavallo) […]. Non dubitando che non si trovino costì et per la Grecia parecchie figure di marmo, et bassi rilievi copiati l’un dall’altro antiquamente, sì come nelli intaglij mi ricordo haverne visto sino a tre o quattro copiati l’un su l’altro di maestria differente et in diverse gemme, che si potevano all’hora riconoscere et similmente nominare dal dissegno dello scoltore primitivo” (Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Barb. Lat. 6503, ff. 195r-v).
Ma torniamo all’attualità. Il ricorso a copie praticamente indistinguibili dagli originali sembra essere una scelta condivisibile, a patto che la si adotti in un limitato numero di casi, e sempre sulla base di ragioni molto forti (ad esempio per la reintegrazione di contesti compromessi, come è avvenuto con Caravaggio a Palermo e con Veronese a San Giorgio Maggiore a Venezia). Se non altro perché questo tipo di copie ha costi di realizzazione molto elevati. E perché forse ipotizzare esposizioni fatte solo di “falsi” d’autore non avrebbe molto senso, se non quello di risparmiare alle opere stressanti spostamenti (se l’intento è quello di dar vita a mostre didattiche, possono bastare riproduzioni di buona fattura ma che in nessun modo possono essere scambiate per gli originali, penso alle “mostre impossibili” su grandi maestri della pittura come Leonardo, Raffaello, Caravaggio realizzate con fotografie 1:1 dei dipinti retroilluminate, rassegne in cui, tuttavia, non si è sempre prestata proprio all’aspetto didattico e comunicativo l’attenzione necessaria).
Vi è poi il problema di cosa farci con le super-copie, una volta che le mostre hanno chiuso i battenti. La cosa più sensata è che restino ai musei o comunque ai proprietari degli originali, che possono prestarle quando si renda necessario, visto che le opere antiche non possono essere movimentate. Questo tuttavia non è sempre possibile. Un caso limite è rappresentato dalla stupefacente riproduzione della tomba di Raffaello al Pantheon, che apriva la (sfortunata) mostra delle Scuderie per l’Anno Sanzio (2020). La grandiosa copia, a grandezza reale, poteva avere senso in apertura di una mostra che era allestita in occasione dei cinquecento anni dalla morte del pittore, e che prendeva le mosse proprio dalla prematura scomparsa dall’artista e dalla sua fortuna post mortem. A mostra finita, la copia è stata spedita nella città natale di Raffaello, a Urbino, e posizionata nel bel mezzo della chiesa della Santissima Annunziata, a ridosso dell’ingresso. L’enorme mole impedisce la visione della navata della chiesa dall’entrata, e in generale lo spazio architettonico ne risulta mortificato. La soluzione, è chiaro, non è per niente soddisfacente: il falso è anteposto al vero di un edificio sacro non dei più celebrati, ma con una sua storia da raccontare.
Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 18 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper. Clicca qui per abbonarti.
L'autore di questo articolo: Fabrizio Federici
Fabrizio Federici ha compiuto studi di storia dell’arte all’Università di Pisa e alla Scuola Normale Superiore. I suoi interessi comprendono temi di storia sociale dell’arte (mecenatismo, collezionismo), l’arte a Roma e in Toscana nel XVII secolo, la storia dell’erudizione e dell’antiquaria, la fortuna del Medioevo, l’antico e i luoghi dell’archeologia nella società contemporanea. È autore, con J. Garms, del volume "Tombs of illustrious italians at Rome". L’album di disegni RCIN 970334 della Royal Library di Windsor (“Bollettino d’Arte”, volume speciale), Firenze, Olschki 2010. Dal 2008 al 2012 è stato coordinatore del progetto “Osservatorio Mostre e Musei” della Scuola Normale e dal 2016 al 2018 borsista post-doc presso la Bibliotheca Hertziana, Roma. È inoltre amministratore della pagina Mo(n)stre.