Continuare a sputare su Hegel. Antidoto alle banalizzazioni sulla violenza contro le donne


La settimana prossima ci saranno due incontri dedicati a Carla Lonzi al Festivaletteratura di Mantova e verrà ripubblicato il suo saggio Sputiamo su Hegel, fondamentale scritto femminista. Da rileggere, magari sullo sfondo di un capolavoro di Giuseppe Diotti, contro le banalizzazioni sulla violenza contro le donne.

Rovistando tra i tanti comunicati che ogni giorno arrivano in redazione ho appreso che quest’anno il Festivaletteratura di Mantova dedicherà due incontri a Carla Lonzi, fondamentale critica d’arte e impareggiabile teorica del femminismo della seconda ondata, probabilmente la più coraggiosa scrittrice femminista che il nostro paese abbia avuto la fortuna di conoscere. Gl’incontri si terranno nel prossimo fine settimana. L’ottima novella coincide con l’annuncio, dato qualche settimana fa, che l’editrice La Tartaruga, oggi parte della Nave di Teseo, a partire dal 5 settembre comincerà a ripubblicare l’intera opera di Carla Lonzi, iniziando dal seminale Sputiamo su Hegel del 1970. Si dia dunque assalto alle librerie da dopodomani, e ci si procuri una copia del saggio. Chi invece non ha o non può spendere quei circa 15 euro, trovi la maniera di procurarselo ad usum fabricae con tutti i mezzi che la fantasia gli suggerisce. Non è difficile.

Si potrebbe cominciare a dire che Sputiamo su Hegel è un elettrizzante rimedio contro la stupidità del discorso pubblico odierno, specialmente laddove questo si trovi ad affrontare il tema cruciale e doloroso della violenza contro le donne com’è accaduto negli ultimi giorni, quando abbiamo assistito all’inverecondo spettacolo messo in piedi, soprattutto a mezzo social, da due fazioni di urlatori che, tra rozzezza e benpensantismo, si sono accaniti attorno a un estratto d’una decina di secondi da una trasmissione televisiva, battagliando a suon di stories e tweet (ovvero i due mezzi più cretini per fronteggiare una questione complessa) e spesso dimenticando, dati modi e toni, che la discussione si stava consumando sullo sfondo d’uno straziante dramma umano. Al di là del tema del poco rispetto nei riguardi della vicenda di per sé, c’è quello dell’irrigidimento delle posizioni, naturale conseguenza d’una dialettica fondata sulla banalizzazione e sull’invettiva via etere, e particolarmente nocivo se occorre pensare che una questione sociale tanto delicata necessita del coinvolgimento e dell’apporto d’ognuno, femmina o maschio che sia. O almeno questo è quel che pensava Simone de Beauvoir (anche lei, peraltro, autrice d’una puntuale critica a Hegel) quando sottolineava che quella del femminismo è causa comune per l’uomo e per la donna, dacché anche l’uomo può godere di notevoli vantaggi vivendo in un mondo più giusto per le donne.

Apparirà ovviamente forse poco opportuno (e magari a qualcuno pure ridicolo) un maschio che si dichiari femminista, poiché difficilmente un maschio, pur magari rendendosi conto della quota di privilegio (fosse anche minuscolo) che gli è concessa per il solo fatto d’esser nato fornito di testicoli, può immedesimarsi in ciò che passa una donna: ciò nondimeno, il maschio potrà trovare somma utilità nel deporre per un momento il Twitter e, contestualmente, dedicare un paio d’ore alla lettura di Sputiamo su Hegel. Anche perché, se ama le frasi concise tipiche dei social, lo stile epigrafico e splendidamente disordinato del saggio di Carla Lonzi gli risulterà particolarmente congeniale.

Occupandomi d’arte, il lavoro di Lonzi m’ha fatto tornare in mente l’Antigone di Giuseppe Diotti, quadrone che chi può dovrebbe vedere per accompagnare la lettura (o dal vivo, andando all’Accademia Carrara di Bergamo che peraltro l’ha recentemente sottoposto a lungo e accurato restauro, oppure anche sul web: il museo ha peraltro pubblicato, dopo il restauro, un bel video illustrativo), dato che tutto parte dalla lettura che Hegel ha dato dell’eroina tragica, individuando nella giovane sorella di Polinice la personificazione della legge divina che risponde alle ragioni dell’uso, dell’etica, della famiglia e del cuore, e nel tiranno Creonte la legge umana che invece rappresenta la norma dello Stato, della società. È dunque come se Hegel dicesse che il principio femminile presiedesse il domestico e quello maschile s’evolvesse nel pubblico. Così Lonzi: “La donna non oltrepassa lo stadio della soggettività: riconoscendosi nei congiunti e consanguinei essa resta immediatamente universale, le mancano le premesse per scindersi dall’ethos della famiglia e raggiungere l’autocosciente forza dell’universalità per la quale l’uomo diventa cittadino. Quella condizione femminile che è il frutto dell’oppressione è indicata da Hegel come il movente dell’oppressione stessa […]. Nel principio femminile Hegel ripone l’a-priori di una passività nella quale si annullano le prove del dominio maschile. L’autorità patriarcale ha tenuto soggetta la donna e l’unico valore che le viene riconosciuto è quello di esservisi adeguata come a una propria natura”.

Carla Lonzi
Carla Lonzi
Giuseppe Diotti, Antigone condannata a morte da Creonte (1845; olio su tela, 275 x 375 cm; Bergamo, Accademia Carrara)
Giuseppe Diotti, Antigone condannata a morte da Creonte (1845; olio su tela, 275 x 375 cm; Bergamo, Accademia Carrara)

L’Antigone di Diotti è direttamente ispirata, per ammissione scritta dello stesso pittore, alla tragedia di Alfieri, che seppur preceda d’una ventina d’anni la lettura di Hegel del personaggio sofocleo, appare più moderna e anche più complessa, dal momento che nel dramma alfieriano non si consuma soltanto uno scontro tra due schemi di valori opposti: nella scena del confronto tra i due protagonisti, Antigone si contrappone a Creonte non in quanto eroina irremovibile nella difesa a oltranza delle proprie ragioni, e quindi soggetto passivo che dapprima si muove spinto unicamente dalla propria predeterminata missione, e poi accetta il suo destino di donna che opera sostanzialmente nel quadro delle poche prerogative che la società le concede, ma in quanto femmina che mette in discussione l’autorità del maschio poiché fondata esclusivamente sul proprio personale tornaconto (“Che nomi tu gli dei? Tu, ch’altro Dio non hai che l’util tuo, per cui se’ presto ad immolar e amici, e figli, e fama, se pur n’avessi”) e poiché frutto di azioni delittuose volte unicamente alla conservazione del potere. La tragedia di Alfieri trova poi motivo d’ulteriore complessità nel personaggio di Emone, figlio di Creonte, che in quanto giovane che deve sottostare all’autorità paterna (e si pone dunque come naturale sodale delle istanze femminili: contro “l’autorità paterna”, scrive Lonzi in Sputiamo su Hegel, “si è creata l’alleanza tra la donna e il giovane”), finisce per muoversi contro il suo stesso padre, anche se quand’ormai è troppo tardi: è il promesso sposo di Antigone, che però rifiuta il matrimonio nel momento in cui Alfieri inventa la scena della possibilità che le viene offerta da Creonte (o la morte per aver disubbidito a una sua legge, o il matrimonio col figlio). Ancora Lonzi: “nell’angoscia dell’inserimento sociale il giovane nasconde un conflitto col modello patriarcale. Questo conflitto si rivela nelle istanze anarchiche in cui viene espresso un no globale, senza alternative: la virilità rifiuta di essere paternalistica, ricattatoria. Ma senza la presenza del suo alleato storico, la donna, l’esperienza anarchica del giovane è velleitaria”.

Significativo il fatto che Diotti, nel suo dipinto, abbia scelto il momento dell’addio tra Antigone e sua cognata Argia, moglie di Polinice e personaggio che Alfieri riprende dalla Tebaide di Stazio, e ulteriore simbolo della strumentalizzazione delle leggi da parte di Creonte, dal momento che per la stessa infrazione Antigone viene condannata a morte (la sua esistenza comportava un rischio per il trono del tiranno), mentre ad Argia, straniera, viene comminato l’esilio. Donne, dunque, che subiscono le conseguenze nefaste d’un’autorità maschile, che finirà a sua volta per soccombere dinnanzi alla scelleratezza delle proprie azioni.

Diotti e Alfieri femministi o protofemministi, dunque? No, che immensa idiozia: Alfieri è semplicemente interprete dell’Antigone di Sofocle più moderno rispetto a Hegel, mentre Diotti è semplicemente traduttore per immagini di uno dei momenti della tragedia alfieriana, scelto forse perché più adatto a suscitare un moto d’animo nel pubblico di metà Ottocento. Sono però utili a dischiudere ulteriori significati nella complessità, e sono utili ad affiancare la lettura d’un saggio, quello di Carla Lonzi, che oggi si pone come antidoto agli scadimenti volgari del dibattito attorno a una questione che non può non esser supportata da un maschio che voglia permanere nell’orbita della civiltà. “Non esiste la meta, esiste il presente. Noi siamo il passato oscuro del mondo, noi realizziamo il presente”: così Carla Lonzi concludeva il suo scritto.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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