Come è cambiata (e dove sta andando) la comunicazione dell'arte sui social


Tra musei, profili istituzionali, giornali, influencer e content creator, la comunicazione dell’arte sui social è profondamente cambiata negli ultimi anni. Come? E dove sta andando? Un’analisi.

Anzitutto, qualche dato fornito dal rapporto Digital 2024 Global Overview Report di We Are Social e Meltwater. Primo: il tempo medio che dedichiamo ogni giorno ai social è quasi raddoppiato negli ultimi dieci anni. Secondo: nel 2013 passavamo sui social il 26,3% del tempo che trascorrevamo online, adesso ci passiamo il 35,8% del tempo. Terzo: nel 2015, Facebook garantiva l’86% del traffico da social verso i siti web, nel 2023 la percentuale si è ridotta al 64%. Infine, qualche altro dato per fornire un poco più di contesto: nel 2020, un utente di Facebook rendeva all’azienda un valore in media dieci volte superiore rispetto a quello che le rendeva nel 2011 (in Europa invece il valore si è moltiplicato per 16, negli Stati Uniti quasi per 20), e secondo dati forniti da Facebook a fine 2023, ogni giorno le riproduzioni di reel, ovvero i video di breve durata (meno di un minuto) raggiungono l’impressionante numero di 200 miliardi, raddoppiato rispetto ai 100 del 2022.

I dati, considerati nell’insieme, trasmettono l’idea d’un universo social profondamente cambiato rispetto a com’era prima della pandemia, periodo a partire dal quale s’è prodotta una serie di trasformazioni decisamente importanti che hanno impattato in maniera estremamente significativa sul modo in cui utilizziamo i social e sui contenuti che le piattaforme ci suggeriscono. Basta tuttavia menzionarne tre, piuttosto decisive, ovvero il lancio dei reel su Instagram (inventati per contendere a Tiktok il primato sull’intrattenimento in formato video), il vistoso incremento dell’utilizzo dei social da parte dei loro utenti (sia in passivo che in attivo), e la neanche troppo malcelata idiosincrasia di Meta nei riguardi delle testate giornalistiche, che ha comportato, solo tra il 2022 e il 2023, un dimezzamento del traffico proveniente da Facebook verso i loro siti web (quando non il ban, com’è accaduto, per ragioni del tutto particolari, in Canada), tanto che la maggior parte dei media che lo scorso anno sono stati interpellati sull’argomento da un rapporto di Reuters ha espresso preoccupazione per questo enorme declino nel traffico dai social.

Quali effetti hanno avuto questi mutamenti sul racconto dell’arte tramite social, e in particolare su Facebook e Instagram, ovvero i due social oggi più amati e frequentati dal pubblico italiano dell’arte? Su questi terreni, il mondo dell’arte italiano non è mai stato particolarmente vivace. Tuttavia, com’è accaduto ovunque, i cambiamenti sono stati rilevanti: se prima del 2021-2022, la comunicazione sui social premiava soprattutto gli account “istituzionali” (nel nostro settore: musei, fondazioni, gallerie, case d’asta, testate giornalistiche autorevoli), negli ultimi tre anni la situazione è cambiata e adesso, accanto ai profili “istituzionali” (a sopravvivere meglio, tuttavia, sono quelli che più si sono adattati all’esigenze degli algoritmi e hanno orientato la loro comunicazione verso formati più in linea col nuovo ordine: dunque reel, stories, in parte fotografie ma giusto se particolarmente accattivanti), s’è assistito all’ascesa degli influencer e dei content creator che sono ormai presenza stabile nel panorama della comunicazione online (qui intenderemo l’influencer come definito dal Collins Dictionary, ovvero come una persona che utilizza i social per promuovere prodotti o scelte, dunque una sorta di “testimonial” da piattaforma social, e il content creator come chi, più in generale, s’è specializzato nella produzione e nella distribuzione di contenuti digitali). Chi sono e che tipo di contenuti propongono allora gli influencer e i content creator che parlano d’arte in Italia?

Foto: Patrick Tomasso
Foto: Patrick Tomasso

Non parliamo necessariamente d’esperti del settore o di insider. Anzi, sono pressoché tutti outsider, tendenzialmente giovani: il creator d’arte italiano tipico è un venti-trentenne che spesso era ancora studente in epoca di pandemia (ovvero quando s’è lanciato sui social), talvolta lo è tuttora, coltiva una forte passione per l’arte, è a suo agio di fronte a una telecamera. Che cosa fa? Sostanzialmente s’adatta a quello che le piattaforme chiedono. Adesso, le piattaforme chiedono video brevi, e il creator d’arte italiano somministra al suo pubblico video brevi, che difficilmente superano i trenta secondi di durata. I contenuti riguardano per lo più gli artisti da manuale di storia dell’arte. Abbondano i Van Gogh, i Klimt, gl’impressionisti, i Caravaggio e via dicendo. S’inseguono, in sostanza, i gusti del pubblico, e non potrebbe essere altrimenti: se l’obiettivo è quello di guadagnare attraverso i social, o con monetizzazione diretta o collaborando coi player di settore, occorre essere il più possibile carezzevoli ed evitare di turbare i propri seguaci o, peggio ancora, di annoiarli (ché comunque il turbamento produce engagement, anche se alla lunga allontana, mentre annoiare l’utenza, anche semplicemente con un contenuto che non è in sintonia con le aspettative del pubblico, produce abbandoni repentini). Anche le forme sono ben collaudate. Gli influencer sono un po’ come delle agende viventi: si muovono e suggeriscono, spesso dietro compenso, mostre da vedere o eventi da non perdere. I creator difficilmente s’allontanano dall’aneddotica e dal biografismo. Critica, recensioni, patrimonio meno noto, analisi, affondi tematici verticali sono invece pressoché assenti.

Accanto ai profili istituzionali, che spesso hanno comunque conservato saldamente il loro seguito, è dunque sorta una generazione di influencer e creator che, sfruttando abilmente il mezzo del reel, collazionano, come hanno osservato Sapna Maheshwari e Mike Isaac sul New York Times in relazione al settore delle news (ma per l’arte funziona allo stesso modo), materiale raccolto qua e là, spesso proprio dalle testate giornalistiche, e ne fanno una sintesi estrema in formato reel da somministrare in meno d’un minuto ai loro pubblici festanti. E riescono a ottenere, solitamente, un consenso molto più ampio rispetto ai media tradizionali. Alcune delle ragioni del successo che spesso queste nuove figure ottengono rispetto ai media tradizionali sono quelle espresse dal Digital News Report 2024 di Reuters Institute: gli utenti hanno la percezione che influencer e creator siano più affidabili rispetto ai media tradizionali, li ritengono più genuini, indipendenti. Tuttavia, spesso è vero l’esatto contrario, dacché l’influencer e il creator sono soprattutto dei comunicatori, con tutto ciò che ne consegue, mentre il giornalista ha degli obblighi deontologici cui attenersi. Inoltre, sui media tradizionali tendenzialmente la critica e la pubblicità viaggiano su canali separati (ovvero: la pubblicità ha i propri codici e i propri spazi, e le testate tengono separate le réclame dalla critica), mentre il comunicatore social, essendo da solo ed essendo una figura ibrida, deve necessariamente fare un mélange di pubblicità e contenuti.

Si può poi aggiungere che influencer e creator suscitano più empatia nel pubblico perché condividono, su base pressoché giornaliera, anche aspetti della loro vita quotidiana che non hanno niente a che vedere col contenuto dei loro canali: in sostanza, il reality show di se stessi che i nuovi primattori dei social propongono ogni giorno alla loro base contribuisce a creare un senso di connessione personale con il pubblico e a suggerire la sensazione d’una maggior trasparenza rispetto ai giornalisti tradizionali. E nell’era della disintermediazione, mostrarsi in ogni momento della propria vita, magari rinunciando a un poco della propria privacy, suscita l’interesse d’un pubblico che non chiede altro che di sbirciare nelle vite altrui. Naturalmente, una connessione più stretta, magari cercata (gli influencer e i creator pietiscono in continuazione commenti e risposte dai propri utenti, anche se le richieste che rivolgono al loro pubblico hanno più l’obiettivo di tenere alto l’engagement che quello d’aprire dibattiti e discussioni), aumenta il livello di coinvolgimento del pubblico, e poiché gli algoritmi delle piattaforme social sono progettati per privilegiare i contenuti che ricevono molte interazioni (like, commenti, condivisioni), il circolo finisce per auto-alimentarsi, escludendo ovviamente gli ultimi arrivati, perché ottenere successo in questo momento storico, ovvero in un periodo in cui non si registrano grosse novità sui principali social, è molto più difficile rispetto a quando le piattaforme producono trasformazioni importanti.

Murale ad Atene. Foto: Daria Nepriakhina
Murale ad Atene. Foto: Daria Nepriakhina

Nel nostro settore, la nascita degli influencer e dei creator s’è prodotta soprattutto nel periodo della pandemia, in concomitanza, grosso modo, col lancio dei reel su Instagram che rimonta ad agosto del 2020: tanti, in quel periodo, hanno cominciato a parlare d’arte su Instagram (ovvero il social che ha soppiantato Facebook nelle preferenze del pubblico dell’arte), e il regime di democrazia epistemica che vige su Instagram (e, in generale, su tutti i social) ha fatto emergere non tanto i creatori di contenuti più preparati o quelli con cose più interessanti da dire, dacché la preparazione non è che una delle tante abilità che servono per emergere sui social (e, addirittura, talvolta anziché di preparazione si parla più semplicemente di “passione” per l’argomento e di “voglia di condividere i contenuti col proprio pubblico”), quanto semmai i più dotati di quell’insieme di competenze necessario per distinguersi in questo universo: storytelling, capacità d’impacchettare i contenuti con un linguaggio accattivante, dimestichezza con la tecnologia (quindi, per esempio, uso di programmi per fare editing di foto e video), aggiornamento rispetto alle ultime tendenze in fatto di algoritmi, capacità di coinvolgere il pubblico (interazione coi follower, risposte ai commenti, creazione di senso di comunità), capacità di analisi del pubblico e dei risultati per ricalibrare il tiro al contenuto successivo. Chi non ha queste abilità, ha possibilità di riuscita prossime allo zero.

L’ascesa di queste figure ha prodotto naturalmente conseguenze positive e conseguenze negative. Hanno sicuramente aggiunto voci, hanno ampliato l’accessibilità, hanno riempito le piattaforme social di arte, e i creator validi riescono a suscitare curiosità, con la consapevolezza che i social sono ormai mezzi dov’è impossibile approfondire (salvo eccezioni, per esempio account di musei che pubblicano lunghe e preziose conferenze, gallerie che promuovono il lavoro di artisti, e così via: si tratta però di contenuti che oggi gli algoritmi tendono a non favorire): ovviamente non è possibile immaginare di parlare di un artista o di un’opera in trenta secondi, e il creator veramente efficace e al quale fare veramente attenzione è soprattutto quello ch’è in grado di suggerire al suo follower le possibilità d’approfondimento (non mancano del resto creator che scrivono anche sulle testate tradizionali o che sono in grado d’organizzare visite ai musei o che sono capaci di reggere format più consistenti rispetto al reel di Instagram: Jacopo Veneziani e Francesca Gigli sono esempi di creator in grado di destare curiosità sui social, ma che sanno anche muoversi altrove, mentre lo stesso non si può dire della più parte dei loro colleghi). Molti però anche gli elementi negativi: una comunicazione appiattita dove conta più adulare il pubblico che proporre contenuti realmente interessanti (ovvero che non siano la spremuta di qualche nozione presa da Wikipedia), totale sottomissione agli algoritmi (talvolta con esiti parossistici: c’è per esempio chi si autoimpone ridicole censure quando pronuncia le parole “fascismo” o “Mussolini” temendo d’incappare in penalizzazioni), superficialità, micro-attivismo sulle questioni sociali del momento più per necessità di autopromozione che per reale e disinteressata adesione, nessuna regola deontologica da rispettare (uno studio dell’Unesco condotto nel 2024 ha rilevato che addirittura il 62% dei creator interpellati ha ammesso di non verificare l’accuratezza delle informazioni da loro condivise: è estremamente preoccupante), mancanza di qualunque forma di critica (non si può correre il rischio d’inimicarsi qualcuno nell’ambiente in cui s’aspira a crearsi un lavoro), dispersione e frammentazione (sono ormai decine i creator che parlano d’arte sui social in Italia).

Come evolverà in futuro il panorama? Intanto, occorre evidenziare che i social media hanno lavorato benissimo, dal loro punto di vista: sono riusciti a trattenere il pubblico più a lungo sulle loro piattaforme, hanno ridotto all’osso le possibilità d’uscita (va letta in questo senso la guerra di Meta contro il traffico esterno: un utente che abbandona la piattaforma è un utente che non fa guadagnare Meta, perché trascorrerà tempo altrove e vedrà altre pubblicità, non quelle che gli propongono i social di Meta), e con i feed progettati per massimizzare la resa dei reel sono riusciti a trasformare la nostra permanenza sui social in un’attività che dà dipendenza, che ci porta allo scorrimento compulsivo delle nostre bacheche. E poiché negli ultimi otto anni il numero degli utenti dei social è raddoppiato (dai 2,3 miliardi del 2016 ai 5,03 del 2024), ne consegue che è inesorabilmente aumentata la quantità di contenuti pubblicati dagli utenti, ed è diventata più strenua la lotta di chi pubblica contenuti per cercare d’ottenere l’attenzione di chi scorre la propria bacheca. Non si contano più gli articoli degli esperti di social media marketing che consigliano a chi vuol ottenere risultati di concentrarsi sui video brevi, di curare bene i primi due secondi del proprio video (già nel 2016 Facebook suggeriva che la soglia d’attenzione media verso un post è di circa 2 secondi), di puntare sulla qualità più che sulla quantità. Quello che però pochi dicono è che per “qualità” non s’intende quella percepita dall’utente: la “qualità” è quella che s’aspettano gli algoritmi. È una differenza significativa. I social non sono in grado di valutare i contenuti come farebbe un essere umano. Sono semmai in grado di valutare quel che si produce attorno ai contenuti.

Il panorama è in continuo mutamento. La principale notizia di questo 2025 è sicuramente l’annuncio, da parte di Meta, dell’eliminazione del fact checking da Facebook e Instagram negli Stati Uniti. Annuncio che, al momento, ancora non ha avuto effetti in Europa, ma che ha già portato qualche media tradizionale a interrogarsi sull’opportunità di rimanere a lavorare in questo ambiente. È comunque presto per immaginare defezioni di massa, perché a oggi tutti hanno ancora necessità di lavorare con i social, anche semplicemente per segnalare al pubblico la propria presenza. Tuttavia, le trasformazioni legate alla politica potranno far diventare i social veicoli d’informazioni non verificate, con la conseguenza che gli utenti potranno ritenerli meno affidabili e, alla lunga, potranno stancarsi di frequentarli. Ancora, ulteriori cambiamenti degli algoritmi potranno disincentivare il pubblico a frequentare le piattaforme. Lo si nota soprattutto su Facebook: il mix di post di amici, ads e “contenuti suggeriti” messo a punto per trattenere l’utente il più a lungo possibile sulla piattaforma ha trasformato i feed in pattumiere piene di contenuti non in linea con gl’interessi degli utenti, quando non addirittura generati dall’intelligenza artificiale, e si moltiplicano in rete, specialmente sui forum di discussione, le lamentele di utenti frustrati per com’è diventato Facebook. Meta intenderà stabilire dei correttivi? Dipenderà dall’utenza: il content mix sembra creato apposta per provocare dipendenza tra gli utenti che usano i social come forma di svago. Il grosso dei contenuti che i feed propongono è spazzatura, sì, ma è spazzatura divertente. Nel momento in cui scrivo, per esempio, gli ultimi dieci post del mio feed su Facebook sono così composti: tre post di amici (e neppure tra i più stretti o tra quelli con cui più interagisco), tre pubblicità (due di programmi per computer e una di scarpe che non indosserei neanche regalate), e quattro post di pagine che non ho mai visto prima, che propongono contenuti che non m’interessano: una fotografia con un elenco ironico di differenze tra cani e gatti, un meme su Chiara Ferragni e Fedez, la fotografia di un gatto che, anziché giocare col balocco regalatogli dal suo padrone, preferisce trastullarsi con la scatola, e infine un video a tema sportivo, sul rugby (sport che non seguo e di cui a malapena conosco le regole), fatto con l’intelligenza artificiale. Facebook non mostra niente che m’interessi: ma siccome i gatti piacciono più o meno a tutti, le vicende sentimentali di Ferragni e Fedez sono l’argomento di gossip della settimana e tutti seguono uno sport (nel mio caso non il rugby, ma spesso capitano contenuti di sport che seguo), si capisce bene perché l’utente, anziché abbandonare la piattaforma, continui a scorrere il suo feed. Per Facebook è massimizzazione del profitto. Su Instagram si riesce ancora a respirare un’aria un po’ più sana (nel senso che è più facile vedere contenuti in linea coi propri interessi), ma non è da escludere che anche Instagram finisca per imboccare una strada simile.

Foto: Marie Martin
Foto: Marie Martin

È difficile, al momento, capire se questi cambiamenti indurranno i protagonisti della comunicazione sui social a una maggior responsabilizzazione, o se al contrario sarà una sorta di “liberi tutti”. Joanna McNeill, per esempio, immagina il 2025 come l’anno del “Great Unfollowing”, un periodo in cui cambieranno fortemente le abitudini degli utenti. Tanti utenti, a suo avviso, in mezzo a questo diluvio di rumenta, si stancheranno di frequentare i social (ma anche i podcast) e smetteranno di seguire i profili che li hanno abituati a un consumo dei contenuti rapido, compulsivo, noncurante. E dove andranno allora? Probabilmente assisteremo a una crescita di piattaforme decentralizzate come Substack, all’aumento dei video e degli audio di lunga durata, alla rispolverata di mezzi come le newsletter, al ritorno ai siti web tradizionali, in linea con una maggior richiesta di lentezza almeno da parte degli utenti che cercano soprattutto i contenuti. Ciò non significa che terminerà l’epoca della personalizzazione: è probabile che le nuove figure in grado di emergere saranno, come già rilevato da tanti, singoli giornalisti che si slegheranno dalle loro testate e cercheranno di ritagliarsi spazi indipendenti. Tuttavia, se è vero che s’assiste a un momento di stanchezza del pubblico nei riguardi dei social, al momento, come anticipato, risulta forse arrischiato prevedere grosse migrazioni. No: faremo i conti coi social ancora per qualche tempo, forse anche abbastanza a lungo.

Quali conseguenze per la comunicazione dell’arte sulle piattaforme più amate dal pubblico italiano dell’arte? Anche se i social si trasformeranno in una sorta di Paperissima a ciclo continuo (e in parte già lo sono), passerà del tempo prima che tanti si rendano conto che queste piattaforme hanno raggiunto l’apice del loro processo di enshittification e prendano consapevolezza del loro declino: di conseguenza, passerà del tempo prima che si verifichino abbandoni di massa da parte del pubblico che cerca contenuti più interessanti. Anche per il semplice fatto che non è possibile bloccare un treno in corsa. Musei, gallerie, media tradizionali, influencer e creator continueranno dunque a pubblicare sui social i loro contenuti nel tentativo d’intercettare il loro pubblico, e cercheranno al contempo d’interessarsi a nuovi strumenti dedicati a nuclei più consapevoli. Sul fronte influencer e creator, si vede adesso un assestamento: il panorama, nel settore dell’arte, risulta oggi dominato da un’oligarchia derivante dalle rendite di posizione, e per chi ora vuol partire da zero le difficoltà sono di gran lunga superiori rispetto a quelle incontrate da chi è partito al momento giusto, quando Instagram spingeva i reel e molti influencer e creator sono cresciuti semplicemente sfruttando questo mezzo quand’era una novità. I potenziali nuovi comunicatori hanno dunque a che fare con un social molto più complicato rispetto a com’era due, tre o quattro anni fa, quando anche il panorama politico internazionale era completamente diverso, e non esisteva ancora l’intelligenza artificiale che rende ancor più facile pubblicare contenuti. E con un mercato saturo, si andrà incontro a una selezione naturale: ai più superficiali, ai più ripetitivi o ai meno capaci di reinventarsi con nuove formule o di spostarsi su altre piattaforme accadrà quello che accade, per esempio, alle meteore della musica, ovvero spariranno dalla circolazione o vedranno i loro seguiti drasticamente diminuiti, malgrado sulle prime possano conoscere, in via apparentemente paradossale, un aumento di popolarità (con libri, ospitate televisive e quant’altro). Anzi, forse qualcuno di loro ha già imboccato la parabola discendente. E per tanti sarà traumatico, perché non sarà facile passare dal reel di 30 secondi all’articolo scritto su Substack, o al video lungo pubblicato su YouTube, dacché il cambiamento richiede capacità d’approfondimento e di ricerca che non è detto tutti abbiano. Parlare d’arte e conciliare il proprio contenuto con la comunicazione rapida tipica dei social è relativamente facile se la tua fonte è Wikipedia (che per un reel basta e avanza), diventa più difficile se in futuro i cambiamenti imporranno i mezzi tradizionali della ricerca necessari alla creazione di contenuti approfonditi. Potranno poi resistere i micro-influencer con comunità più piccole ma molto coinvolte: pur nel generale clima di sfiducia verso gli influencer alimentato dalle note vicissitudini di Chiara Ferragni, è illusorio, almeno per ora, credere che s’andrà verso la scomparsa degli influencer in quanto tali. Rimarranno quelli più piccoli, meno inclini all’ostentazione, e percepiti come più trasparenti e autentici, e gl’investimenti nell’influencer marketing saranno più distribuiti. Oppure, e in parte già lo si vede, torneranno di moda i testimonial, come negli anni Ottanta e Novanta: personaggi famosi che sponsorizzano cose.

Quanto invece ai profili istituzionali, solo quando i costi supereranno i benefici tanti smetteranno di usare i social. Su Facebook in parte è già accaduto: si osservi, per esempio, il comportamento delle gallerie d’arte contemporanea. Il loro pubblico di riferimento s’è spostato su Instagram, e molte hanno smesso di pubblicare su Facebook. I profili istituzionali, dunque, continueranno in parte a rimanere sui social per una forma di dovere nei riguardi del pubblico, e in parte perché comunque il loro pubblico è ancora lì (e, anzi, in mezzo all’inondazione di spazzatura non è neppure detto che non diventi più esigente). Diventerà più importante la scelta dei format, e diventerà fondamentale stabilire connessioni più dirette con l’utenza in un mondo in cui tutti lottano per l’attenzione del singolo utente. La qualità, tuttavia, continuerà a rimanere un epifenomeno del successo.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).




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