Qualche giorno fa, il nostro amico Fabrizio Federici, esperto storico dell’arte autore di numerosi saggi e articoli scientifici sul Seicento, firma di Artribune, nonché amministratore della fortunata pagina Facebook "Mo(n)stre", ha sollevato il caso dell’articolo di Vittorio Sgarbi su Cola dell’Amatrice, pubblicato sulla versione online de Il Giornale, che avrebbe fatto uso di brani tratti dalla voce “Cola dell’Amatrice” del Dizionario Biografico degli Italiani redatta da Roberto Cannatà nel 1997. In effetti le somiglianze, come Fabrizio Federici ha dimostrato, sono numerose, e la prova principale del fatto che potrebbe non trattarsi di un caso si può individuare in un refuso della voce di Cannatà (“San Lorenzo Sito” in luogo di “San Lorenzo Siro”) che non è stato da Sgarbi adeguatamente emendato.
Già in passato, il sempre ottimo Francesco Erbani di Repubblica aveva scoperto che un saggio di Sgarbi su Botticelli si rifaceva un po’ troppo fedelmente a uno scritto di Mina Bacci risalente a più di quarant’anni prima. Ma l’articolo di Cola dell’Amatrice e il saggio su Botticelli non sono certo gli unici casi in cui Sgarbi sembra aver “preso in prestito” frasi tratte da articoli scritti in precedenza. Per rendersene conto è sufficiente analizzare alcuni dei pezzi di Sgarbi pubblicati proprio su Il Giornale nelle ultime settimane. Si può cominciare da un articolo del 21 agosto scorso, dedicato alla figura di Francesco Furini. Dopo una breve introduzione, Sgarbi elenca alcune vicende biografiche del pittore fiorentino: il problema è che tali spunti sembrano essere tratti, con un grado di fedeltà rispetto all’originale invero piuttosto alto, da Settemuse.it, un sito che si occupa di arte e cultura (la pagina sull’artista risulta aggiornata l’ultima volta il 19 agosto: si evince dalle informazioni rilasciate dal browser), e dalla voce su Francesco Furini del Dizionario Biografico degli Italiani, scritta (ancora) da Roberto Cannatà nel 1998. Riporto di seguito i brani (le immagini si possono ingrandire con un clic sull’anteprima: ho ritenuto opportuno evidenziare in blu le parti simili per agevolare il lettore).
Il secondo è un articolo sul Morazzone datato 31 luglio 2016: dopo un breve cappello, Sgarbi propone un confronto tra la “concezione estetica” del Morazzone e quella “spirituale” di santa Teresa d’Ávila. Il brano in cui Sgarbi elenca i testi di santa Teresa pare ricalcato dal passaggio sullo stesso argomento presente nella voce su Wikipedia dedicata alla santa. Seguono altri brani apparentemente desunti dalla voce sul Morazzone redatta nel 2008 da Antonello Serafini per il Dizionario Biografico degli Italiani. Proponiamo due immagini relative a entrambe le situazioni (nella seconda riportiamo solo alcune delle frasi “sospette”, ma il lettore potrà facilmente verificare collegandosi contemporaneamente al sito de Il Giornale e a quello dell’Enciclopedia Treccani).
Infine vale la pena citare un ulteriore articolo, del 19 giugno, dedicato a Jacopo da Valenza, pittore le cui scelte artistiche furono determinate, secondo Sgarbi, da Antonello da Messina. Nel riassumere le fasi salienti della carriere di Antonello, Sgarbi sembra far ricorso ancora una volta al Dizionario Biografico, ma a una voce tutt’altro che recente: si tratta di quella su Antonello da Messina scritta da Fiorella Sricchia Santoro addirittura nel 1987. Negli ultimi nove anni il dibattito storiografico su Antonello da Messina è andato avanti, e la voce (così come l’articolo di Sgarbi) non tengono conto delle discussioni sviluppatesi, per esempio, attorno alla datazione dell’Annunciata di Palermo e della Crocifissione di Londra: tuttavia è anche necessario sottolineare che, malgrado le similitudini tra i due testi, l’articolo di Sgarbi riporta anche alcuni aggiornamenti non presenti nella voce di Fiorella Sricchia Santoro (per esempio l’assegnazione dell’Ecce Homo di Piacenza al periodo veneziano dell’artista).
Alla luce delle innegabili affinità tra tutti i testi sopra riportati, occorre condurre una riflessione. In un suo recente libro intitolato Come si scrive un saggio, il professor Marco Santambrogio, docente di Filosofia del Linguaggio all’Università di Parma, si esprime sull’argomento nei termini che seguono: citare è una cosa, copiare senza dirlo è un’altra. La prima è lecita, la seconda è un plagio - una scorrettezza grave. Omettere le virgolette da una citazione è un plagio. Lo è anche riportare un passo da altri con poche modifiche inducendo il lettore a credere che sia farina del vostro sacco. Negli articoli succitati non c’è ombra di virgolette che permettano al lettore di suppore che i brani in esame potrebbero essere tratti da altre fonti. Essendo dunque i passi del tutto simili, fatta eccezione per alcune brevi espressioni riportate con qualche piccola modifica, sarebbe stato lecito aspettarsi gli opportuni rimandi alle fonti: è una questione di correttezza, di etica e, ovviamente, anche di eleganza.
Su quali argomenti verte, pertanto, una possibile difesa? Nella discussione che, su Facebook, è stata generata dalle considerazioni di Fabrizio Federici, è intervenuto lo stesso Vittorio Sgarbi, affidando la replica al suo addetto stampa. In sostanza, Sgarbi oppone una distinzione tra “idee originali” ed “elementi esterni”, ovvero notizie cronologiche e toponomastiche utili a identificare “l’esistenza” di un’opera “come per un inventario, un certificato di esistenza, una carta d’identità”. Dunque, sembrerebbe che per Sgarbi sia legittimo riportare passi altrui, anche senza citarne la provenienza e senza mettere il lettore a conoscenza del fatto che si tratta, appunto, di citazioni, se la finalità è quella di riportare dati oggettivi: Per non copiare non dobbiamo scrivere quando è nato Cola dell’Amatrice? Provate a leggere una biografia di Raffaello. E provate a riscriverla: non si tratta di meditazioni personali. [...] Io non ho ripreso nessun pensiero originale dell’amico Cannatà; ho solo riportato elementi esterni, cronologici e toponomastici, tanto più necessari da conoscere e da ricordare in un momento come questo in cui quelle opere sono minacciate, ed è giusto e utile identificarne l’esistenza, come per un inventario, un certificato di esistenza, una carta di identità. Che tali argomentazioni manchino di quel vigore tale da renderle incontrovertibili potrebbe essere dimostrato da un paio di considerazioni. La prima: è vero che certi elementi sono oggettivi. È un fatto acclarato che Dante Alighieri sia nato nel 1265, e non è possibile cambiare la sua “carta d’identità” solo per scrivere qualcosa di originale. Ma anche un articolo che voglia riportare esclusivamente dati oggettivi sarebbe comunque frutto di un lavoro, spesso di considerevole mole, derivante dalle scelte personali di un autore, che selezionerà con cura il lessico, le espressioni, le forme grammaticali, la sintassi e l’ordine di esposizione attraverso cui rendere fruibili i dati in suo possesso. Non è dunque solo questione di “scrivere quando è nato Cola dell’Amatrice”: un articolo su un artista non ne riporta solo la data di nascita. Un articolo riporta una serie di informazioni che nascono da una ricerca, per le quali si è stabilito un ordine e soppesata l’importanza (l’importanza di un dato all’interno di un testo può essere maggiore o minore secondo ciò che il dato rappresenta riguardo l’argomento generale dell’articolo o del saggio), e che vengono presentate sotto una certa forma: se i dati sono, per usare l’espressione di Sgarbi, “inevitabili e imprescindibili”, lo stesso non si può dire del modo in cui vengono esposti. Solo perché un autore ha collezionato dei dati e si è preso la briga di valutarne l’importanza e di scegliere l’ordine e la forma in cui esporli, ciò non significa che si possano riportare alla virgola (o tutt’al più apportando poche modifiche) i suoi brani senza gli opportuni rimandi e senza far capire al lettore che siamo in presenza di una citazione.
La seconda considerazione: spesso anche gli elementi cronologici e toponomastici sono frutto di congetture, e ciò succede laddove manchino evidenze documentarie. È il caso di Antonello da Messina: non essendoci documenti che possano testimoniare che il San Girolamo nello studio è stato realizzato nel 1474 o nel 1475, oppure che certifichino in maniera inappuntabile la sua presenza a Milano nel 1476, eventuali prove a sostegno di una datazione o della presenza dell’artista in una città possono giungere solo da raffronti stilistici spesso maturati dalle idee di uno storico dell’arte che, inevitabilmente, prende posizione all’interno di un dibattito. Certo: nessuno pretende che in un articolo destinato a un giornale a larga tiratura si dia conto di tutte le posizioni di ogni singolo studioso che si è in schierato in favore o contro una certa datazione per l’Annunciata di Palermo o per la Crocifissione di Londra, ma se si decide di rifarsi a un passaggio di uno studioso in cui sono contenute certe informazioni frutto, appunto, di congetture, non ci si può esimere dal citare i riferimenti. Per il grande pubblico possono sembrare quisquilie da addetti ai lavori ma, lo ripetiamo, si tratta di una questione di lealtà nei confronti del lettore: la paternità di uno scritto non dev’essere mai messa in discussione. Persino i più strenui oppositori della proprietà intellettuale non giungono a negare la paternità morale spettante a un autore, e in tal caso può essere utile riportare un estratto di quello che è a tutti gli effetti il manifesto del Pubblico Dominio Antiscadenza, ovvero “un progetto per la realizzazione di un pubblico dominio anarchico anticopyright e antilicenze, dunque contro la proprietà intellettuale e basato sulla volontaria Rinuncia ai diritti d’autore”: Riguardo all’aspetto della paternità (diritto morale) i sostenitori del PDA, ritengono che essa sia una caratteristica connaturata all’opera in quanto libera espressione dell’autore e pertanto concettualmente inespropriabile ma, al tempo stesso, ininfluente dal punto di vista commerciale una volta che si è proceduto alla rinuncia dei diritti (patrimoniali) d’autore. A quel punto, la paternità dell’opera non generando alcun privilegio e non avendo alcun valore giuridico, assume una giusta rilevanza solo ai fini della pari dignità nell’ambito del libero e reciproco scambio tra individui di una collettività e il suo riconoscimento è naturale, convenzionale e certamente non assoggettabile ad una logica di “difesa legale”.
Concludo lasciando al lettore le considerazioni sui testi sopra riportati (considerazioni che potranno essere poi affinate e approfondite cliccando sui link di articoli e probabili fonti): starà a lui decidere se è possibile dare a Sgarbi della capra, per usare un efficace epiteto del quale lui stesso rivendica la paternità, e comunque diventato ormai suo inconfondibile marchio di fabbrica, oppure se effettivamente è possibile sorvolare sul nome dell’autore di un brano citato solo perché riporta dati oggettivi.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).