Si parla spesso di cosa dovrebbero fare i musei per essere più coinvolgenti, attrarre un pubblico maggiore e diversificato, variare la propria offerta culturale (e non solo, aggiungerà qualcuno). Siamo stati a inizio mese a Bologna dove abbiamo visto un’ottima concretizzazione di quelle che secondo noi dovrebbero essere le buone pratiche nei musei, e in particolare ci riferiamo alla mostra che è in corso alla Pinacoteca Nazionale fino al 27 aprile, intitolata L’Ottocento a Bologna nelle collezioni del MAMbo e della Pinacoteca Nazionale.
Perché questa mostra ci è piaciuta così tanto e potrebbe configurarsi addirittura come un esempio da seguire per altri musei? Per diversi motivi. Primo: si fa tanto parlare di connettere i musei al territorio. Il museo dovrebbe avere, tra i propri ruoli, quello di far emergere gli aspetti salienti dell’identità di una comunità. La mostra sull’Ottocento bolognese riesce benissimo in questo, perché ci offre uno spaccato di storia bolognese che ci viene raccontata attraverso i dipinti: la mostra ci fa conoscere la storia delle Accademie del tempo (quindi storia dell’arte), ci porta a contatto con i temi della letteratura e della musica che andavano di moda nella Bologna dell’epoca (e dalla storia dell’arte passiamo alla storia del costume), e ci fa anche entrare nella vita quotidiana della Bologna del XIX secolo perché sono diverse le scene di genere esposte (e quindi si passa anche alla storia della società).
Secondo: perché è la dimostrazione lampante che per realizzare una buona esposizione non sono necessari enormi investimenti. Il confronto con l’altra mostra che in questi giorni sta letteralmente spopolando a Bologna, quella sui pittori olandesi della Mauritshuis dell’Aja (che per molti è semplicemente la mostra sulla Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer), è inevitabile. Certo, nessuno mette in dubbio la qualità dei dipinti esposti a Palazzo Fava, ma per fare una buona mostra, a nostro avviso, non occorre soltanto che i nomi degli autori dei dipinti siano altisonanti: è necessario che ci sia un solido progetto alle spalle della mostra (scientifico, o divulgativo), che la mostra abbia un legame con il contesto storico e culturale in cui va a inserirsi, che si lavori in modo tale che il visitatore esca arricchito dal percorso espositivo. Sono tutte caratteristiche che la mostra sull’Ottocento bolognese possiede, e in più dobbiamo considerare il merito per cui la mostra ha raggiunto questi obiettivi con investimenti ridotti, dal momento che i circa novanta dipinti esposti fanno tutti parte di collezioni cittadine e spesso sono stati tirati fuori dai depositi. Potremmo fare un paragone con il cinema: possiamo fare un film con tutti i più grandi attori del mondo e con un cast di premi Oscar, ma se la trama non è consistente, se la fotografia e la colonna sonora non sono azzeccate, se la sceneggiatura è banale, avremo un risultato scialbo. Viceversa, è possibile realizzare un bellissimo film con attori non proprio conosciutissimi. La storia del cinema è piena di esempi dell’uno e dell’altro caso.
Terzo: perché è adatta a tutti i tipi di visitatori e si adatta a diversi piani di lettura. Abbiamo già accennato di come la mostra approfondisca alcuni temi legati alla Bologna dell’Ottocento e si configuri quindi come un’esposizione adatta a un pubblico che vuole arricchire le proprie conoscenze, ma non abbiamo detto che è una mostra interessante anche per un pubblico che osserva i dipinti secondo il metro dell’estetica o, in altre parole, per un pubblico che osserva i dipinti per provare emozioni di fronte alle opere. Perché siamo convinti che sia sacrosanto anche visitare una mostra per provare emozioni: lo sbaglio profondo è di coloro che, semplicisticamente, contrappongono le emozioni alla conoscenza, compiendo peraltro una operazione di bassissimo livello intellettuale, perché non è assolutamente vero che i due elementi (emozioni e conoscenza) non possano coesistere. Ecco quindi che il visitatore che sarà uscito compiaciuto e soddisfatto dopo aver contemplato la Ragazza con l’orecchino di perla (o Ragazza con il turbante che dir si voglia) di Vermeer, potrà provare le stesse emozioni anche di fronte alla bellissima Bagnante di Antonio Rosaspina, semisconosciuto comprimario dell’Ottocento bolognese ma non per questo incapace di realizzare dipinti suggestivi.
Quarto: si percepisce che è una mostra realizzata per mettere il visitatore a proprio agio: i colori utilizzati per i pannelli sono avvolgenti e rilassanti, i pannelli esplicativi sono stati realizzati con un linguaggio consono a un pubblico ampio, e all’ingresso della mostra sono stati messi a disposizione diversi dépliant con tutte le informazioni sulla mostra, dépliant dove tra l’altro il visitatore potrà trovare ampie descrizioni di tutte le quattro sezioni della mostra, assieme, peraltro, all’elenco di tutte le opere esposte, cosa questa rarissima da trovarsi in un dépliant per il pubblico.
Quinto: perché dietro alla mostra esiste un progetto che va oltre la mostra stessa. Leggiamo infatti dal dépliant illustrativo dell’esposizione: “la collaborazione tra Pinacoteca Nazionale di Bologna e Istituzione Bologna Musei conferma il desiderio affinché gli assetti delle strutture pubbliche siano garanzia di tutela per la conservazione delle opere, ma senza rinunciare all’impegno a rimettere in gioco le proprie pertinenze e a superare le rigidità burocratiche per costruire progetti più ricchi e complessi a favore di un motivato interesse scientifico e a disposizione delle legittime aspettative del pubblico”. Il desiderio dei musei bolognesi è un po’ quello di tutti noi amanti della cultura: musei che sappiano allo stesso tempo conservare, insegnare ed emozionare, rivolgersi a un pubblico di esperti e di addetti ai lavori e a un pubblico di appassionati, creando quindi iniziative che sappiano dialogare con l’uno e l’altro pubblico (e magari, perché no, dialogare con tutti i pubblici contemporaneamente). Ci auguriamo pertanto che i musei bolognesi continuino su questa linea!
È chiaro tuttavia che, non trattandosi di una mostra “di cassetta”, per così dire, non ha neppure un grande richiamo sul pubblico, ma questo non vuol dire che iniziative come quella della Pinacoteca di Bologna non possano avere lo stesso fascino, per il grande pubblico, di eventi più spiccatamente commerciali: si tratta di abbinare, anche a mostre più “ricercate”, la giusta dose di marketing, che non è un termine di fronte al quale inorridire, come spesso fanno i più oltranzisti dei puristi. Bisogna inorridire quando l’arte entra al servizio del marketing, ma quando il marketing è al servizio dell’arte (e della riuscita delle mostre) allora si possono raggiungere ottimi risultati. Le iniziative come quelle della Pinacoteca di Bologna sono quelle che vogliamo vedere più spesso nei musei e sono quelle che potrebbero davvero far avvicinare un pubblico eterogeneo ai musei (magari facendo entrare nei musei chi neppure ci era mai entrato prima): diventeranno quindi una pratica sistematica, e avranno il giusto e meritato sostegno? Avremmo tutti da guadagnarci!
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo