Quando il Museum of Modern Art di New York (MoMA) ha riaperto le porte lo scorso ottobre a seguito di un importante ampliamento, veniva annunciata non soltanto l’inaugurazione di una struttura decisamente più grande, ma anche una rivisitazione ugualmente onnicomprensiva di tutte le opere esposte e delle stesse scelte espositive. Il direttore Glenn D. Lowry aveva anticipato il cambiamento, dichiarando al New York Times in febbraio che “l’usuale sarebbe stato soppiantato dall’inaspettato”. Il presidente del consiglio d’amministrazione, Leon Black, aveva aggiunto che se in precedenza “il museo non aveva dato importanza alle artiste donne, non aveva dato importanza a cosa stessero facendo gli artisti provenienti dalle minoranze, ed era geograficamente limitato... adesso dovrebbe diventare parte della società multiculturale nella quale tutti viviamo”.
Appena il nuovo MoMA si è rivelato, le recensioni sono state generalmente positive, soprattutto per il modo in cui l’edificio è stato popolato, ovvero con le opere d’arte diventate espressione di una grande diversità, capaci di scuotere l’ortodossia modernista che il museo stesso aveva istituzionalizzato. Tra le più significative installazioni del riallestimento figurava la provocatoria giustapposizione tra le opere canoniche e alcuni importanti lavori di artisti che prima erano fuori dal mainstream, a cominciare dall’accostamento de Les Demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso (1907), uno dei fulcri della collezione del MoMA, alla tela American People Series #20: Die, realizzata sessant’anni dopo dall’artista afroamericana Faith Ringgold e acquisita dal museo solo nel 2016 (fig. 1). L’opera di Picasso, con la sua radicale sconfessione della composizione e della prospettiva tradizionali, è considerata un monumento dell’arte occidentale. Il dipinto di Ringgold è un monumento di un’altra arte, anche se meno nota, quella socialmente impegnata del Black Arts Movement (BAM), un termine coniato dallo scrittore e attivista Amiri Baraka per indicare la larga coalizione di artisti neri politicizzati e votati al tema dell’identità razziale, alla quale Ringgold era peraltro incidentalmente legata.
1. Il nuovo allestimento del MoMA con Les Demoiselles d’Avignon di Picasso vicino a Die di Ringgold. Ph. Credit Heidi Bohnenkamp |
Il dipinto di Picasso raffigura alcune prostitute che si mostrano allo sguardo dell’artista e dell’osservatore (e in più, la figura che sorveglia tutte sulla sinistra è stata una figura maschile fino alla redazione definitiva del dipinto), e pertanto, per quanto riguarda il contenuto, è un’opera socialmente regressiva, anche se in termini formali è rivoluzionaria. Die è l’opposto: non si tratta di niente di formalmente innovativo per il 1967, ma il soggetto è decisamente progressista nei termini della sua capacità di dipingere un ritratto ammonitore dello spettro della violenza interrazziale e dei suoi effetti futuri. Tre coppie di figure maschili, di razze diverse, vestite di bianco e nero, ingaggiano una lotta sanguinosa, mentre tre donne (anche loro di razze diverse e abbigliate con vestiti color carne che accentuano la loro esposizione e la loro vulnerabilità) cercano di sedare la violenza e di proteggere la coppia mista di bambini che si stringono l’un l’altro. Mostrando l’aggressività di entrambe le razze, e le donne in qualità di eroine che cercano di limitarla, Ringgold si è allontanata dal carattere più partigiano e machista di molta dell’arte del BAM: ma Die riflette anche lo spostamento dalle speranzose istanze integrazioniste del Civil Rights Movement dei primi anni Sessanta verso quelle più stridenti del movimento Black Power, antitetico e nazionalista. Una presa di posizione in linea con i dettami del BAM.
Ringgold, nel realizzare il suo Die, era stata ispirata da Guernica di Picasso (1937), che rimase negli Stati Uniti tra il 1939 e il 1981, in attesa di essere restituita al governo repubblicano della Spagna. Dunque, la collocazione di questo fondamentale dipinto vicino a un’altra icona di Picasso ha un senso storico. Fare un confronto tra il contesto politico di Guernica e quello del lavoro di Ringgold è istruttivo: il dipinto di Picasso era stato commissionato dalla Spagna repubblicana e riflette le sue simpatie di sinistra (l’artista era un devoto sostenitore del Partito comunista francese), ma come spesso si è soliti affermare sugli impegni politici di Picasso visti in relazione alle sue ambizioni, lui apparteneva sostanzialmente a un partito con un solo iscritto: “Io, Picasso”. Al contrario, la pratica di Ringgold è ben consapevole delle politiche sulla razza e sul genere e desidera vederle progredire. Un’altra artista legata al BAM, Betye Saar, ha affermato che “il mio obiettivo come artista è di creare opere che mostrano l’ingiustizia e rivelano la bellezza”. Chiaramente, per lei come per Ringgold, l’etica e l’estetica hanno importanza simile nel loro lavoro e nella loro vita.
Che Les Demoiselles d’Avignon e Die possano condividere la stessa galleria nella fortezza dell’arte moderna, e che possano essere considerate di rilevante importanza, lo si deve in buona parte alla spinta progressista di un altro movimento che ha un acronimo simile a quello del BAM. Black Lives Matter (BLM) è stato fondato nel 2013 da tre attiviste subito dopo l’aumento delle uccisioni extragiudiziali di afroamericani, soprattutto per mano di quella stessa polizia che dovrebbe proteggere i cittadini. BLM si è acceso e continua a ispirare una vasta revisione delle convinzioni e delle strutture razziste, sessiste e colonialiste che sono radicate in tutta la società americana, senza escludere l’arte e le modalità con le quali viene valutata, esposta e compresa.
L’arte di Ringgold ha anticipato tutto questo, e in più l’artista sembra quasi aver previsto l’accostamento della sua opera con quella di Picasso. Una trapunta istoriata, che fa parte della sua serie Dancing at the Louvre del 1991 (fig. 2), raffigura Picasso al lavoro davanti al suo capolavoro, mentre lui stesso è nudo come molti dei suoi soggetti. C’è un’altra figura aggiunta tra l’artista e Les Demoiselles: un’esuberante donna nera, per un intervento che insiste con grande sicurezza sulla sua inclusione e sulla sua appartenenza alla narrazione. Su Picasso poi incombe, come uno spirito guida, una figura tratta dall’arte africana, per affermare l’influenza di quest’ultima sulla pratica del pittore, in modo più forte di come risulta dai volti delle due Demoiselles a destra che ricordano quelli delle maschere africane.
2. Faith Ringgold, Picasso’s Studio (1991; acrilico su tela e tessuto, 185 x 173 cm) |
Nel museo dove lavoro, non lontano da New York, il Princeton University Art Museum, abbiamo un dipinto molto più antico, in certo modo simile alle Demoiselles, ma per molti versi totalmente differente. Eseguito attorno al 1787 dall’artista americano Henry Benbridge, probabilmente su commissione di uno dei soggetti raffigurati, rappresenta un piccolo gruppo di donne in piedi e sedute, che fanno parte della famiglia Hartley, originaria della Carolina del Sud (fig. 3). Il loro portamento dignitoso e i loro vestiti elaborati contrastano in maniera marcata con la nudità esibita delle Demoiselles, e sottolineano la ricchezza e la posizione privilegiata delle signore Hartley, cosa che manca alle giovani donne di Avignone. Gli Hartley erano proprietarî di piantagioni di riso nelle campagne della Carolina, e di conseguenza non c’è dubbio sul fatto che le loro ricchezze derivassero dalla schiavitù, lo svilimento e l’assoggettamento di un essere umano nei confronti di un altro per nessun altro scopo al di fuori del profitto e, in America, per nessun altra ragione al di fuori della razza. È il nostro peccato originale (e indelebile).
Quando il nostro museo riaprirà tra alcuni anni, dopo una ristrutturazione ancora più pervasiva di quella del MoMA, nell’ambito della quale è prevista la realizzazione di una nuova struttura progettata dall’architetto ghanese David Adjaye, sistemeremo il dipinto di Benbrige vicino a un’opera che, esattamente come nel caso di Ringgold e Picasso, avvierà un dialogo ricco di significati con il suo vicino. Quest’opera, anch’essa proveniente dalla Carolina del Sud (anche se realizzata nelle piantagioni della Lowcountry, nel distretto di Edgefield, noto per la sua produzione di vasellame in grès), è un magistrale recipiente in vetro di David Drake, uno schiavo afromericano, che lo eseguì alla vigilia della guerra civile (fig. 4). Drake imparò in via del tutto eccezionale a leggere e a scrivere nonostante fosse illegale per gli schiavi, e in maniera ancor più significativa riuscì a decorare le sue ceramiche con iscrizioni. Nella nostra leggiamo semplicemente “Princeton College in New Jersey”.
3. Henry Benbridge, The Hartley Family (1787 circa; olio su tela, 194 x 151 cm; Princeton, Princeton University Art Museum) |
4. David Drake, Recipiente (anni Cinquanta del XIX secolo; gres smaltato, 38 x 33 cm; Princeton, Princeton University Art Museum) |
Probabilmente non sapremo mai perché Drake abbia inciso queste parole sul bordo della sua pesante giara. Forse, qualcuno che lui conosceva, magari membro di una famiglia che lo possedeva (letteralmente), aveva frequentato la scuola. Ad ogni modo, qualunque sia la ragione per la quale esistono, le parole di Drake rappresentano un’affermazione intensa, anche se modesta, della sua autonomia e della sua capacità di leggere, scrivere ed esprimersi attraverso le parole e l’artigianato, contro ogni previsione. Il Black Arts Movement ci ha aiutato e Black Lives Matter ci sta aiutando a riaffermare che l’arte e i musei che la mostrano non devono (non dovrebbero) concentrarsi sul solo aspetto estetico, sulle innovazioni visive e formali, come quelle de Les Demoiselles d’Avignon di Picasso. I musei possono e devono anche affrontare temi sociali, le innovazioni dello spirito, che caratterizzano, incoraggiano e legano assieme il dipinto dinamico ed evocativo di Faith Ringgold e il vaso tranquillo ed espressivo di David Drake. Ogni opera è importante ed è bella.
L'autore di questo articolo: Karl Kusserow
Karl Kusserow è curatore di arte americana al Princeton University Art Museum. È autore e curatore di cinque libri tra cui Nature's Nation: American Art and Environment (con Alan C. Braddock, 2018) e Picture Ecology: Art and Ecocriticism in Planetary Perspective (2020)