“L’apocalisse che stavamo aspettando”. Questa dichiarazione dell’attivista americana Aja Taylor è stata abbastanza impressionante da farmi pensare. Come può essere così? Come può cioè essere ben accolta e addirittura benefica un’apocalisse che sconvolge il nostro modo di vivere? Credo che la risposta vada trovata nell’origine della parola “apocalisse”, che deriva da un verbo che in greco antico significa “svelare”.
Poiché l’intero ecosistema dei musei è arrivato a un punto d’arresto dal quale al momento e per molti sembra difficile ripartire, non posso fare a meno di pensare a quanto le parole di Aja Taylor siano vere. Questa apocalisse ha svelato la vulnerabilità del tradizionale modello dei musei, e ha svelato quanto di questo ecosistema sia destinato a essere perso, o almeno a essere completamente ristrutturato. È preoccupante pensare che un terzo dei musei americani che hanno chiuso potrebbe non riaprire mai più. In Europa, il Network of European Museums Organisations ha fatto il punto della situazione in merito all’impatto sulle entrate, sullo staff, sulle presenze online e sui processi lavorativi che i musei stanno sperimentando. Gli indicatori parlano di un impatto che sarà enorme, ma difficile da prevedere. Nel caso dei musei olandesi, abbiamo di recente la constatazione che in tutte le probabilità uno su quattro non apriranno.
Sulle piattaforme social sono nate molte discussioni su come andare avanti. I direttori dei musei, il personale, i consulenti e gli esperti hanno condiviso in maniera pressoché incessante le loro conoscenze. Sono stato (e sono tuttora) piacevolmente sorpreso dalle discussioni che continuano incessantemente sui social e dalle risposte che le discussioni continuano a generare. La necessità di adattarsi in modo strategico e di anticipare le competenze che ci serviranno è uno dei punti emersi dai dibattiti. Si auspica sempre di più di puntare su di una nuova classe dirigenziale che nascerà come la fenice dalle ceneri. L’ultimo blog di Nina Simon e un raggio di sole certamente da seguire.
Gestire la fragilità
Diventare consapevoli, e riconoscere e sfruttare la fragilità dei nostri musei in questo momento, è il primo passo da compiere. Mentre questo momento scorre, gli istituti si reinventano in modi nuovi e creativi. Sfruttare la fragilità potrebbe anche comportare una decisa revisione delle strategie di programmazione e di marketing e, in generale, di tutto ciò che è collegato alle esperienze pre-Covid del pubblico del museo.
Peak Experience Lab di Andrea Jones ha condiviso alcuni interessanti spunti sul percorso che abbiamo davanti a noi. In un acuto articolo pubblicato il 25 marzo, Peak Experience Lab parla di come questo momento della transizione sia un buon adattamento del modello Kubler-Ross, largamente adoperato per la gestione dei cambiamenti, e degli studi sulla teoria della liminalità di Arthur van Gennep e Victor Turner. Come scrive Andrea Jones: “un modo per cominciare il processo è scovare ed eliminare le tracce della ‘zombie identity’ del tuo museo. Ci sono cioè delle iniziative di coinvolgimento del pubblico che in questo momento sono del tutto irrilevanti”.
La maggior parte dei musei si trova adesso in uno stato di liminalità, dal momento che diversi istituti devono abbandonare le vecchie abitudini e i vecchi schemi, che sono però considerati fondamentalmente intrinseci alla raison d’etre del museo stesso. La zona neutrale in cui i musei si trovano è sicuramente incerta, ma racchiude anche un potenziale di esplorazione creativa. È in questo momento, in questo punto della storia, che la stessa esistenza del museo giunge a un bivio. Come la stessa Andrea Jones spiega in maniera succinta nel suo articolo, “se i musei seguono l’approccio del ‘rannicchiarsi e aspettare’, allora difficilmente riusciranno a emergere con quell’identità nuova e sana di cui necessitano nel mondo post-pandemico”.
Potrei identificare tre tendenze emergenti (e altrettanti spunti di discussione) che potrebbero aiutare i musei a reinventarsi in questo momento cruciale. Di sicuro ce ne sono molti di più da tenere in considerazione, e alcuni di questi sono ben noti. Ma forse il modo in cui li osserviamo adesso, attraverso la lente dei paesaggi post-pandemici, ci potrà aiutare a sviluppare nuove idee e a essere alla testa del cambiamento.
1. Sviluppare il pubblico secondo le sue necessità emotive
Ci sono dei validi motivi per seguire questo nuovo approccio. Quest’ultimo, infatti, potrebbe essere uno degli esiti di questa pandemia e potrebbe aiutare i musei a diventare molto più rilevanti di prima. Vorrei spiegare questo approccio citando di nuovo le parole di Andrea Jones: “siamo abituati a targettizzare il pubblico sulla base di elementi come i dati demografici, i dati geografici, gli interessi, oppure pensiamo solo alle loro necessità di apprendimento e di diletto. Ma essere rilevanti per il pubblico nell’epoca della quarantena significa anche incontrare le loro necessità emotive”.
I musei devono rivolgersi, in questo momento, a persone annoiate, a genitori disperati, a insegnanti confusi, a istituti di alta istruzione che stanno insegnando online, a discepoli entusiasti e simili. Gli elenchi che continuiamo a compilare e i segmenti di pubblico che continuiamo a identificare potrebbero far sviluppare i modi in cui guarderemo ai nostri pubblici negli anni a venire.
2. Nuove forme di “tempo del museo”
Il nuovo netizen dei musei può prendersi il lusso di accedere ai contenuti del museo in qualsiasi momento della giornata e da qualunque angolo del pianeta. Era un’opzione che aveva sempre a portata di mano, ma non aveva il tempo di farlo. E dal momento che sta emergendo un nuovo netizen del museo, il rischio di dimenticare che questo netizen trascende il tempo e lo spazio è reale. C’è l’opportunità di essere più rilevanti che mai: sviluppare contenuti su misura per le tua comunità potrebbe costringerti a considerare in maniera molto più attenta dove si trovano, in quali momenti possono essere raggiunte, e in che modo rivolgersi a loro.
Un approccio fresco nei confronti di quello che io chiamo il “tempo del museo” può aiutare gli istituti a diventare più rilevanti, dal momento che le comunità potrebbero essere più alla portata grazie all’uso intelligente delle tecnologie.
3. Il futuro dei musei si trova dentro le nostre case
Sì, so che sto per fare una citazione fuori contesto, ma mi ha fatto pensare. Le parole finali di Orhan Pamuk nel suo Modesto manifesto per i musei dicono che il futuro dei musei è dentro le nostre case. Il manifesto di Pamuk è a favore di musei “più piccoli, più individualistici e più economici”, capaci di narrare “racconti” invece di “storie”. Dato che c’è il potenziale per far emergere un nuovo “tempo del museo”, e dato lo sforzo comune per ripensare il coinvolgimento del pubblico del museo in risposta alle sue necessità emotive, siamo dunque vicini a un nuovo futuro dei musei dentro le nostre stesse case? Può darsi anche che il museo diventi realmente una casa, abitabile ed accogliente come non mai.
Tratto dalla versione originale pubblicata sul The Humanist Museum.
Le immagini in questo articolo mostano modelle che indossano belle ma fragili parrucche di carta create dall’artista russa Aysa Kozina. Ringraziamo Aysa per averci consentito di mostrare questi lavori meravigliosi anche qui.
L'autore di questo articolo: Sandro Debono
Pensatore del museo e stratega culturale. Insegna museologia all'Università di Malta, è membro del comitato scientifico dell’Anchorage Museum (Alaska) oltre che membro della European Museum Academy. Curatore di svariate mostre internazionali, autore di svariati libri. Scrive spesso sui futuri del museo ed ha il suo blog: The Humanist Museum. Recentemente è stato riconosciuto dalla Presidenza della Repubblica Italiana cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia e dal Ministero della Cultura Francese Chevalier des Arts et des Lettres per il suo contributo nel campo della cultura.