Sono trascorsi quindici anni da quando la critica d’arte del Chicago Tribune, Lori Waxman, ha cominciato a girare per musei, gallerie e sedi espositive varie con una sua performance ormai famosa, 60 wrd/min art critic, dal meccanismo molto semplice: nello spazio scelto per ospitare l’azione, viene ricreato un ufficio, e lei siede davanti allo schermo d’un computer, ricevendo uno alla volta, come nello studio d’un medico o d’uno psicologo, gli artisti che vogliono sottoporle i loro lavori. Finito d’ascoltare l’artista ed esaminate le sue opere, Lori Waxman si prende qualche minuto per redigere una recensione all’istante, che viene poi messa nero su bianco con una stampante, e quindi appesa a una bacheca: gli articoli, sistemati uno vicino all’altro, finiscono per comporre una sorta di rivista d’arte prodotta in tempo reale, lungo la durata della singola performance.
Potrebbero sussistere almeno due validi motivi per ritenere 60 wrd/min art critic un lavoro particolarmente brillante. Da un lato, nel suo aspetto forse più romantico e al contempo più didascalico, la performance dà corpo alle varie fasi del lavoro del critico d’arte: osservare le opere, parlare con l’artista, studiare, pensare, scrivere, pubblicare (e non è detto che l’articolo debba per forza esser positivo). Dall’altro, si potrebbe leggere il lavoro di Lori Waxman come un efficace ritratto di ciò ch’è diventata, per molti, la professione di critico d’arte, o come una lente d’ingrandimento che scorre sui problemi che affliggono la critica d’arte, costretta a ritmi sempre più incalzanti (che inevitabilmente incidono sulla qualità dei contenuti), a doversi orientare tra una quantità enorme d’artisti (forse mai come in questo periodo storico la produzione artistica è stata tanto diffusa), a confrontarsi con la crescente irrilevanza cui molti che professano questo mestiere sembrano esser condannati (lo diceva già Jerry Saltz in tempi non sospetti, e i fatti han dimostrato che aveva ragione: così, alla figura del critico è andata progressivamente sostituendosi quella del curatore che spesso non fa altro che scrivere contenuti on demand per gli artisti, felici di spendere laute cifre per questa attività perché sanno che potranno trarne giovamento per le loro mostre o per i loro curricula).
Lori Waxman durante la sua performance 60 wrd/min art critic |
Se è vero che Lori Waxman, con la sua performance, in un certo senso racconta, non senza una certa ironia, la crisi della critica d’arte, è altrettanto vero che il web, in questo processo, non ha avuto un ruolo così determinante: la crisi è partita prima che il web arrivasse a modificare in maniera sostanziale il modo di fare critica d’arte, prima ancora che nascessero i social network (o, quanto meno, prima che diventassero popolari), e naturalmente di gran lunga prima che sorgessero nuove figure che, con maggiore o minor merito, raccontano l’arte tra le pieghe della rete. Forse ha ragione Luca Beatrice quando, nel suo ultimo articolo sul Giornale, scrive che “nessun critico d’arte o curatore è nato sul web”, ma è anche certo che sono gli stessi “strumenti tradizionali del sapere” (in una parola: l’accademia) ad aver ricoperto un ruolo non secondario nella crisi della critica d’arte. Di “ghettizzazione” della critica si parlava già negli anni Novanta, non ci sono serviti Facebook o Instagram per maturare la consapevolezza del fatto che i critici scrivano molto spesso per altri critici, né serve aver letto il D’Annunzio della Tribuna per comprendere che molti critici non sanno catturare l’attenzione di chi li legge, s’esprimono con piattezza e sciatteria, ignorano l’uso e l’importanza delle figure retoriche, e tutto questo non dipende dal web.
Il web è uno strumento, è diventato indispensabile in epoca di declino dell’editoria tradizionale (lo stesso articolo di Luca Beatrice, del resto, è stato pubblicato sulla versione online del quotidiano che l’ha dapprima proposto in formato cartaceo, e probabilmente avrà raggiunto un pubblico più ampio grazie alla sua messa in rete), ha ampliato le possibilità di formarsi, dal momento che una recensione di un importante storico dell’arte o di un importante critico d’arte ha lo stesso valore sia che esca su di un cartaceo, sia che venga pubblicata su di una rivista online (le leggi in materia di giornalismo equiparano in tutto e per tutto le testate di carta a quelle digitali, ma lo stesso ragionamento vale anche per le riviste scientifiche: sfido chiunque a dimostrare che Studi di Memofonte o Engramma abbiano meno valore di altre riviste solo perché interamente pubblicate in rete), ha reso più agevole la ricerca (si pensi a portali come JSTOR o Academia). Un conto, dunque, è parlare di web in senso lato, e altra cosa è limitarsi a prendere in esame la figura dell’influencer, che del web non è che uno dei tanti abitanti. Probabilmente s’annovera tra i frequentatori della rete più chiassosi e à la page, ma non per questo c’è da confonder le acque, mescolando nella stessa pentola l’attività degli influencer e quella di chi utilizza il web per mille altri scopi e sostenuto da mille altre ragioni.
Che cos’è dunque l’influencer? C’è da sottolineare che ci muoviamo su di un terreno fumoso, dal momento che non esistono definizioni stabilite e uniche: secondo un’accezione più allargata, è influencer chiunque contribuisca a creare opinione attraverso un social network. Anche Bonami, per intenderci, potrebbe essere considerato un influencer, dal momento che usa Instagram con gran disinvoltura e ha un certo seguito: certo, non esistono soglie al di sopra delle quali si è influencer, né esiste qualcuno che certifichi l’avvenuto ingresso nel mondo degli influencer da parte di chi ha raggiunto un certo numero di follower, ma è comunque pacifico che, per esser considerati tali, occorra avere seguaci nell’ordine delle migliaia (e che siano naturali, ovvero persone reali che seguono l’influencer perché realmente interessate a ciò che fa o scrive). C’è poi chi intende la figura dell’influencer in maniera più restrittiva: il Cambrige Dictionary, per esempio, la definisce come “una persona pagata da un’azienda per mostrare e descrivere i suoi prodotti sui social media, incoraggiando altre persone a comperarli”. Nel mezzo, si collocano forse altre figure (penso sia il caso dei nostri art influencer) che, ad attività retribuite da musei o gallerie desiderosi di pubblicizzarsi attraverso i loro canali, alternano post in cui forniscono consigli dettati dai loro reali interessi, oppure semplicemente amano mostrare al pubblico alcuni momenti della loro quotidianità. Stando così le cose, non ha più senso domandarsi se l’influencer sia in grado di “inventare l’Arte Povera o la Transavanguardia e di ottenerne risultati sul mercato”: se riteniamo influencer chiunque faccia opinione, allora questi potrà tranquillamente inventarsi un movimento artistico credibile e destinato a rimanere nella storia dell’arte indipendentemente dalla sua presenza sui social. Se invece l’influencer è da intendersi nell’altra accezione, allora probabilmente al nostro neppure interesserà diventare il nuovo Celant o il nuovo Bonito Oliva, perché non è questo il suo mestiere.
L’art influencer Elena Soboleva davanti all’Incoronazione della Vergine di Rubens ai Musées Royaux des Beaux-Arts di Bruxelles |
Che poi il mondo degli influencer sia governato da una diffusa superficialità, penso sia un dato di fatto sul quale però credo valga poco la pena soffermarsi: ne ha parlato Massimiliano Parente a inizio anno, e sempre sul Giornale (che evidentemente, per qualche motivo che francamente mi sfugge, ha sviluppato una certa idiosincrasia verso gli influencer), in un articolo sui book influencer, colpevoli di produrre contenuti vuoti, frivoli e sempre uguali (pensiamo all’onnipresente tovaglietta colorata con libro, cornetto e tazzina di caffè, il tutto ripreso dall’alto: forse tutti i book influencer leggono mentre fanno la prima colazione). Siamo tutti d’accordo sul fatto che ci sia una parte del mondo degli influencer (forse saranno anche la maggioranza, ma al momento non ritengo d’essere in grado di stilare una statistica) che svilisce e mortifica i prodotti che vengono caldeggiati (e magari spesso neanche conosce bene la materia di cui parla): tuttavia, spandere inchiostro sui book influencer che scattano la solita fotografia all’ultimo bestseller vicino a una brioche col cappuccino, o sull’art influencer che si fa il solito selfie davanti a un quadro di Klimt o di Frida Kahlo (come se certi critici d’arte old school non fossero altrettanto esibizionisti: tanti di loro sono ugualmente vanesî, ma s’esprimono in altri modi e con altri canali), è un esercizio molto facile, che magari ripaga nell’immediato (ci sarà sempre una nutrita platea che applaude chi s’attarda a berteggiare gli influencer), ma che lascia poco, perché poco aggiunge alla discussione (ormai penso sia chiaro a tutti quali siano i comportamenti più diffusi tra gli influencer: forse, però, sono meno chiare le ragioni che dettano i loro atteggiamenti).
E allora, per chi fa critica o giornalismo con gli strumenti tradizionali, forse ha più pregio interrogarsi non sulle velleità critiche degli influencer o sui loro business model (che mi paiono peraltro abbastanza chiari), ma sulla composizione e sulle aspettative del loro pubblico (perché mi sembra evidente che, se gli influencer hanno un seguito tanto ampio, evidentemente è perché sono in grado di rispondere in maniera efficace a una domanda che proviene dal basso), sul loro rapporto con chi fornisce loro i contenuti (se un museo o una galleria decidono d’affidarsi a un influencer è perché forse c’è una larghissima porzione del pubblico che, per informarsi su ciò che accade nel mondo dell’arte, preferisce adoperare i social), sul perché le loro modalità di comunicazione esercitino una certa attrazione su molti, sull’eventualità che forse parte del pubblico possa coltivare una certa curiosità nei confronti dell’arte, che la critica tradizionale non riesce a soddisfare e che, al contrario, gli influencer sono in grado di solleticare. Beatrice, nel suo articolo, ipotizza che la figura dell’art influencer si stia diffondendo “per combattere il consolidato elitarismo” del “mondo dell’arte”. Di fronte all’“elitarismo del mondo dell’arte”, credo che le opzioni siano due: assumere un atteggiamento reazionario (del tutto legittimo), ma che forse potrebbe farci proseguire sulla via dell’irrilevanza, oppure prendere atto che mondo e società sono cambiati, che c’è una domanda di cultura che cresce (penso che i dati sull’affluenza ai musei siano una buona dimostrazione), che l’invettiva forse non è il genere più adatto con cui rispondere alla superficialità dilagante, e che la comunicazione dell’arte non può fare a meno del web.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).