È uscito qualche giorno fa sul Corriere della Sera un lungo articolo scritto da uno dei più noti e importanti archeologi italiani, Andrea Carandini. Un testo che tratta un tema di decisiva importanza per l’Italia e gli italiani, ma nonostante questo sempre meno praticato. La tutela del patrimonio artistico. Un tema virato da Carandini in una riflessione essenziale. Quale sia il senso della presenza del passato nel mondo d’oggi e come questo passato venga valorizzato. Un argomento che egli affronta a partire da una questione solo apparentemente laterale. Il sempre più diffuso abbandono della tradizione storica negli allestimenti delle opere liriche per far posto a soluzioni tra improvvisate e folkloristiche. E fa l’esempio di una Bohème, con ogni certezza quella andata in scena un mese fa al Festival di pucciniano di Torre del Lago, ambientata al tempo del “maggio francese”, vale a dire la finta rivoluzione del cosiddetto “sessantotto”. Così che sul palcoscenico si sono visti dei bohèmiens vestiti in jeans, cioè con la divisa d’ordinanza di quegli anni, Mimì compresa. Con un problema. Che l’opera si conclude con Mimì morente che chiede un assai poco sessantottardo manicotto per scaldarsi le mani.
Una mai vista Mimì in jeans e manicotto, in compenso ci sono stati dei Duchi di Mantova in canottiera e dei Parsifal con la tuta da astronauta e così via, al cui grottesco Carandini aggiunge le opere d’arte contemporanea lungo la via dei Fori Imperiali per fare “un lifting alla romanità” (così sempre Carandini), oppure la minaccia, sventata per un capello, che due miliardari americani potessero “giocare al gladiatore” dentro al Colosseo pagando il dovuto al Ministero, infine la giusta precisazione che egli fa tra la corrente definizione ministeriale dell’Italia come “museo diffuso”, quale non è perché corpo vivissimo, e quella di “contesto composto di monumenti”, cioè la vitale definizione del Fai, fondazione benissimo diretta dallo stesso Carandini per anni e oggi nelle mani altrettanto intelligenti di Marco Magnifico: Fai, lo aggiungo di passaggio, che è l’unico organismo in Italia a avere delle idee circa la valorizzazione e la tutela del patrimonio. Inoltre, l’importante archeologo romano si cimenta in un endorsement (prudente) alla sbagliata riforma dei musei di Franceschini, la stupidaggine provinciale dei direttori stranieri, per infine chiudere il suo intervento parlando di Pompei di cui lamenta l’assenza di una “manutenzione programmata”, aggiungendo che “mancano gli studi, le pubblicazioni e i racconti sistematici della città considerata finalmente come un tutto continuo”.
Tutti temi, questi posti in campo da Carandini, che sono di decisiva importanza se qualcuno volesse finalmente ragionare sulla conservazione del patrimonio artistico dell’Italia e degli italiani, ma argomento di cui invece nessuno mai parla, pur se con qualche felice eccezione come, appunto, Carandini o Salvatore Settis. Temi che ruotano tutti intorno alla celebre riflessione sulla “fine della Storia” fatta nel 1806 da Hegel vedendo entrare a Jena le truppe di Napoleone. Ragioni riprese nelle leggendarie lezioni su La Fenomenologia dello Spirito tenute, da Alexandre Kojève alla École Pratique des Hautes Études di Parigi negli anni Trenta del secolo scorso, a cui assistettero alcune delle più importanti intelligenze europee di allora quali, tra gli altri, Queneau, Bataille, Lacan, Aron, Éric Weil, Merleau-Ponty, Caillois, Sarte o Hyppolite, tutti sbalorditi per la novità, l’arditezza e la perspicuità delle tesi che il filosofo russo, andava esponendo: Kojève poi divenuto tra i più stimati collaboratori di De Gaulle nel Governo francese, una vicenda che di recente ci ha raccontato assai bene Massimiliano Valerii, attuale direttore generale Censis. Tema, l’hegeliana morte dell’arte, invece così ripreso nel 1960 da Edgar Wind nel suo “Arte e Anarchia”: “Di conseguenza Hegel tirò le somme, così come le vedeva lui. Era arrivato un momento nella storia del mondo a partire dal quale l’arte avrebbe perso quello stretto legame che in passato aveva avuto con le energie centrali dell’uomo (…). Egli spiegò che in un’era dominata dalla scienza la gente non avrebbe smesso di dipingere, né di fare statue, né di scrivere poesie, né di comporre musica (...). Ma non bisognava ingannarsi, scrisse: ‘Per quanto splendide le effigi degli dei greci ci possano sembrare, qualunque sia la dignità e la perfezione che possiamo trovare nelle immagini di Dio Padre, di Cristo e della Vergine Maria, tutto ciò è inutile, le ginocchia non le pieghiamo più’ (...). Dovrebbe perciò essere chiaro che, pur spostata al margine, l’arte non perde la sua qualità d’arte; perde soltanto il suo legame diretto con la nostra esistenza”.
E ancora, tema, la fine della Storia e la perdita della centralità dell’arte nel nostro tempo, su cui si fonda una domanda che si era posto Giovanni Urbani mezzo secolo fa. Una “auto-domanda” così commentata da Giorgio Agamben, che sempre ha indicato il restauratore romano come uno dei suoi Maestri: “l’interrogazione di Urbani suona: ‘qual è il senso della presenza del passato nel presente?’ la formula in apparenza contraddittoria (‘presenza del passato nel presente’) non è che l’espressione più rigorosa della situazione storica di un vivente che può sopravvivere soltanto attraverso ‘l’integrazione materiale del passato’ nel proprio divenire spirituale. La formula significa, però, anche, che il solo luogo possibile del passato è, com’ è ovvio, il presente e, insieme e altrettanto ovviamente, che la sola via di accesso al presente è l’eredità del passato, che vivere il proprio presente significa necessariamente saper vivere il proprio passato”.
Una serie di precisazioni culturali, queste appena dette, che rendono facilissimo spiegare perché molto poco commuova una Mimì in jeans e come non sia tracotante, bensì faccia ridere, un Duca di Mantova che canta in canottiera che “questa o quella per me pari sono”. E anche facilissimo diviene spiegare perché meglio non si vada con il gran numero dei visitatori che si aggirano nei siti archeologici “senza capire come ha avuto origine la civiltà occidentale”. Frase di Carandini che si può tranquillamente estendere ai visitatori dei musei tirandone anche delle conclusioni sul piano della tutela e quindi tornare al tema di partenza. Bastino, come esempio, i circa 65mila visitatori entrati agli Uffizi nel ponte di Ferragosto. Il che significa che la stessa popolazione di Viterbo (65.941 abitanti, “Tuttitalia”) si è aggirata per tre giorni dentro a quello che è certamente il più importate museo storico dell’Occidente e perciò delicatissimo e fragilissimo. L’intera popolazione di Viterbo che, una volta visto il museo in un paio d’ore (i più colti) è poi scesa in strada e, da lì, è dilagata dentro Firenze a mangiare pizze e tramezzini surgelati in strada con la gioia dei venditori ambulanti. Né vale, circa quanto appena detto, l’ideologica e demagogica (e anche un po’ cheap) accusa di “elitismo” lanciata in televisione dal ministro Franceschini contro chi sosteneva l’aggressività del turismo di massa e delle “grandi navi”.
E qui inevitabile diventa ricordare quanto Giovanni Urbani aveva scritto nel 1971, sempre mezzo secolo fa, su come un moderno Stato liberale dovesse affrontare il fondamentale tema dell’economia della cultura. Prima affermando come “non sia intellettualmente decente pretendere che i conti dei nostri interessi tornino con i danari delle entrate turistiche”. Per poi proseguire così articolando in modo più preciso il suo ragionare: “Restando in tema d’economia la tutela del nostro patrimonio culturale è purtroppo una scelta che, almeno in termini espliciti e consapevoli, è fatta propria da gruppi troppo poco influenti sul piano dell’economia nazionale, per avere nell’immediato effettive possibilità di prevalere su scelte ad essa contrastanti o anche solo indifferenti [quali sono quelli intorno al turismo di massa]. Tanto più se a dover decidere è una classe politica manifestamente ignara e incurante dei recenti progressi dottrinali in materia di teoria e pratica delle scelte sociali. Materia ormai chiaramente assoggettata al principio secondo il quale progresso e sviluppo non dipendono solo dalla dinamica meccanicistica delle forze economiche tradizionali, ma anche, e in misura in ultima istanza prevalente, dalla considerazione di ciò che giova all’uomo”.
Detto questo, e senza dimenticare che Ennio Flaiano, riflettendo negli anni Sessanta del secolo scorso sui primi segni del turismo di massa, già aveva avvertito che presto si sarebbe potuto dire che “Il Colosso di Rodi non cadde per un terremoto, bensì perché minato alla base dalle firme dei turisti. Il terremoto fece solo il resto”, si arriva all’ultimo dei punti toccati da Carandini. Pompei e l’assenza di una “manutenzione programmata” per la sua conservazione, sottolineando che “mancano gli studi, le pubblicazioni e i racconti sistematici della città considerata finalmente come un tutto continuo”. E qui vanno dette tre cose. Una, che la manutenzione programmata è una costola della conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico che nel 1976, il solito mezzo secolo fa, l’Istituto centrale del restauro di Urbani aveva definito in dettaglio in uno “studio di piano” riferito all’Umbria. Studio di piano prontamente buttato nel cestino della carta straccia dall’allora neonato Ministero di Spadolini e dalla Regione Umbria, come anche è stato anche per il piano di manutenzione programmata messo a punto per Pompei anni fa da Roberto Cecchi, di cui Carandini inoltre scrive. La seconda cosa è che negli anni dell’Icr di Urbani già si diceva che Pompei poteva essere conservata solo considerandola per quello che in primo luogo è, una città, quindi il “tutto continuo” di Carandini. Ma di questo modo di intendere il problema conservativo, cioè come un fatto di azioni preventive esercitate sull’indissolubile rapporto tra patrimonio artistico e ambiente, nessuno ha mai voluto sentire parola. Così che a Pompei si continua ancora oggi a gridare al miracolo quando si trova qualche cadavere fissato negli spasmi di una fine orrenda, facendone opere d’arte e arrivando fino a metterli in mostra come tali. Quel che ad esempio è stato fatto qualche anno fa ponendo una ventina di calchi in gesso di quei poveri morti bruciati su dei trespoli metallici con un effetto finale tra polli allo spiedo, “museo della tortura” (perché ci sono anche questi…) e Mobiles d’un epifenomeno necrofilo di Calder. Una mostra tanto violenta e volgare, quanto inutile sul piano culturale, come ha avuto il coraggio di dire la sola Eva Cantarella.
Soluzioni? Credo siano poche e tutte di ordine formativo. Ad esempio, riprendere in mano quanto aveva scritto nel 1988 uno dei grandi storici dell’arte del secolo scorso, Giuliano Briganti. Cioè che “i tipi di reclutamento del personale del Ministero dei beni culturali da qualche anno a questa parte non sono stati certo dettati da criteri scientifici e le fragili strutture delle soprintendenze scricchiolano ormai sotto il peso di un organico pletorico e spesso impreparato”. Mentre un anno dopo l’Ispes aveva ribadito lo stesso concetto in un suo “Libro bianco” scrivendo che la metà circa del personale del Ministero dei beni culturali è entrato in ruolo “senza superare il vaglio di un concorso pubblico: 15.000 dipendenti assunti in situazioni eccezionali su un totale di 33.000”. Ciò che ha avuto effetti gravi e di lungo periodo. Sia perché quei quindicimila assunti senza un concorso sono poi rimasti per decenni attivi dentro l’amministrazione, liberi anche di sostenere dei concorsi interni superati in partenza perché di solo valore formale così arrivando a ricoprire anche ruoli direttivi. Quel che ha consentito che nella più completa indifferenza possa esserci stato chi è entrato al Ministero come operaio per uscirne direttore generale, ovvero che possa oggi essere membro di una importante Commissione ministeriale dedicata al restauro un architetto bocciato a maggioranza al concorso da Ordinario e che mai ha fatto un restauro con le proprie mani. E ancora, che sempre oggi si sia letto nei giornali (Il Fatto Quotidiano, 13 sett. 2021, p. 12) della “Scuola del patrimonio” voluta nel 2015 dal ministro Franceschini. Scuola di cui non importa tanto sottolineare la spesa di 23 milioni, sempre stando ai giornali, per tenere in 5 anni (2015-2020) un solo corso di formazione per 17 studenti, con un costo pubblico di un milione e 300 mila euro per studente. Ma l’aver messo in piedi una scuola dal titolo altisonante senza prima preoccuparsi, il Ministro, di tracciare le linee di una nuova politica di tutela a cui incardinare quei 17 “super-esperti”, che perciò risultano essere stati formati non si sa da chi, non si sa come e non si sa per fare cosa.
Conclusioni? Sperare che qualcuno provveda – un ministro, ad esempio, ma che sia veramente tale – a realizzare una radicale riforma organizzativa e tecnico scientifica degli obiettivi e dei mezzi dell’azione di tutela. Quindi una riforma in primis formativa dei suoi attori rendendoli figure in grado di fare progetti di lungo periodo sul fatale rapporto tra patrimonio artistico e ambiente. Perché il rischio è che, nella situazione in cui siamo, a parlare di tutela rimanga solo “un drappello di sopravvissuti che, con il nobile idealismo dei soldati giapponesi abbandonati sulle isole del Pacifico, restano pronti a resistere all’attacco condotto dal nemico verso un obiettivo che non interessa più a nessuno”, secondo una amara e meravigliosa frase di Francesco Maria Colombo sull’odierno mondo della musica.