“Non bisogna copiare la natura, ma conoscerla in modo che il risultato sia fresco e autentico”. Van Gogh e la natura


In che modo il grande Vincent van Gogh viveva il suo rapporto con la natura? In che modo riversava sulla tela i boschi, le campagne, i paesaggi che vedeva nelle sue passeggiate? Ecco un approfondimento sul tema 'Van Gogh e la natura'.

Il 3 gennaio 2019 è uscito il film Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità, di Julian Schnabel, con Willem Dafoe nei panni di van Gogh. Clicca qui per un approfondimento sulle ragioni per cui dovresti vedere il film, clicca qui per un elenco di dieci dipinti che puoi incontrare nel film.

Non v’è dubbio che, alla base della fortuna critica del grande Vincent van Gogh (Zundert, 1853 - Auvers-sur-Oise, 1890), sia possibile collocare, tra gli altri, il contributo apportato dallo storico dell’arte Roger Fry (Londra, 1866 - 1934), che si può annoverare tra coloro che hanno consentito l’ingresso del nome del grande pittore olandese (nei confronti del quale, com’è universalmente noto, la sorte non fu certo benevola fin tanto che fu in vita) nella storia dell’arte. Uno dei meriti di Roger Fry sta nell’aver pienamente colto l’essenza del rapporto tra van Gogh e la natura: nell’articolo con cui, nel 1922, lo studioso inglese operò una sorta di canonizzazione dell’artista (letteralmente: “era un folle, ma era anche un santo”, scrisse Fry, perché “tra tutti i subbugli della sua vita interiore, l’unico impulso supremo e dominante era una passione d’amore universale”), viene formulata a chiare lettere la posizione critica che, di fatto, ha posto van Gogh tra i grandi del XIX secolo. Fry, in particolare, sottolinea il fatto che le immagini dipinte da van Gogh scaturiscano da un approccio al mondo esteriore ch’è diverso rispetto a quello che caratterizzava gran parte dei pittori suoi contemporanei, e che muoveva da un’emozione tutta interiore: in altri termini, i suoi dipinti erano, per utilizzare le parole di Fry, “pure espressioni di sé”, e nessun altro artista era riuscito meglio di van Gogh a “illustrare così pienamente la propria anima”. Tra i momenti più felici della carriera di van Gogh, Fry individuava la prima fase del suo soggiorno ad Arles (tanto da definire il 1888 un annus mirabilis per il pittore di Zundert), e poneva l’accento sull’approccio di van Gogh nei confronti della natura, rimarcando le differenze che lo separavano da Paul Cézanne: riferendosi a un dipinto come La casa gialla di Arles (conservato al Van Gogh Museum di Amsterdam, raffigura l’abitazione dove van Gogh risiedette per qualche tempo in affitto durante la sua permanenza nella città della Camargue), lo storico dell’arte notava come l’artista avesse saturato il cielo per donargli un blu che poco aveva a che vedere con quello dei cieli mediterranei ma che intendeva proporre un’immagine più intensa, drammatica, “quasi minacciosa” (al contrario dei paesaggi di Cézanne che, invece, ispiravano contemplazione e riflessione). “L’interesse dell’artista”, affermava Fry, “era interamente catturato dal drammatico conflitto tra le case e il cielo, e il resto era poco più che un’introduzione a questo tema”.

L’analisi di Fry prendeva in considerazione anche altre opere significative di van Gogh. Una di queste era il Campo di grano con cipressi, dipinto oggi custodito alla National Gallery di Londra: l’artista lo realizzò nel settembre del 1889, quando era ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Saint-Paul de Masole (dov’entrò l’8 maggio di quell’anno), nel borgo di Saint-Rémy-de-Provence. Durante il periodo della sua degenza, van Gogh non smise, com’era sua abitudine, di percorrere le campagne della Provenza in cerca d’ispirazione: non sappiamo però se il paesaggio oggi conservato nel museo londinese sia una reale veduta provenzale, o un frutto dell’immaginazione del’artista, dato anche il valore simbolico che van Gogh attribuiva ai cipressi. “C’è un campo di grano”, scriveva Vincent a suo fratello Theo il 25 giugno del 1889, “molto giallo e luminoso, forse è la tela più luminosa che abbia mai realizzato. I cipressi ancora mi preoccupano, e mi piacerebbe fare qualcosa come ho fatto con i girasoli, perché mi stupisce il fatto che nessuno li abbia ancora fatti come io li vedo. Il cipresso è bello come linea e come proporzioni, è come un obelisco egizio. E il verde è di una qualità così distinta. È uno spruzzo nero in un paesaggio soleggiato, ma tra le note nere è una delle più interessanti, una delle più difficili da rendere che io possa immaginare”. È comune opinione della critica il fatto che, nel dipinto della National Gallery e nelle altre versioni (si conservano due varianti dello stesso paesaggio in altrettante collezioni private), l’artista non abbia voluto riprodurre l’apparenza superficiale del paesaggio, bensì il modo in cui il paesaggio appariva a lui: si tratta, in sostanza, d’una visione interiore, e proprio ad Arles l’artista sperimentò per la prima volta (complice anche la vicinanza a Paul Gauguin) una pittura che traeva forma direttamente dall’immaginazione, e non dall’osservazione diretta della natura (anche se si trattò di ricerche che l’artista abbandonò ben presto per tornare a dipingere guardando a soggetti reali). Non solo: nella forma fiammeggiante del cipresso e negli accetti estremamente corsivi del paesaggio (il cielo, le montagne, il campo di grano, gli alberi), Fry individuava l’evidenza di un’agitazione dello stato d’animo dell’artista, come se quella pittura così veloce, densa e ondulata fosse una sorta di riflesso della sua disposizione mentale all’epoca.

Vincent van Gogh, La casa gialla (settembre 1888; olio su tela, 72 x 91,5 cm; Amsterdam, Van Gogh Museum)
Vincent van Gogh, La casa gialla (settembre 1888; olio su tela, 72 x 91,5 cm; Amsterdam, Van Gogh Museum)


Vincent van Gogh, Campo di grano con cipressi (settembre 1889; olio su tela, 72,1 x 90,9 cm; Londra, National Gallery)
Vincent van Gogh, Campo di grano con cipressi (settembre 1889; olio su tela, 72,1 x 90,9 cm; Londra, National Gallery)

Sono passati quasi cent’anni dalla pubblicazione dell’articolo di Roger Fry, e oggi, grazie all’intensificarsi degli studî su Vincent van Gogh, abbiamo sicuramente molti elementi aggiuntivi per evitare di trasformare la posizione dello storico dell’arte inglese in una visione stereotipata e immobile che, di sicuro, non renderebbe giustizia alcuna alla complessità dell’arte di van Gogh. Un punto di partenza imprescindibile è il denso epistolario del pittore (estratti delle sue lettere furono pubblicati già a partire dagli anni Novanta dell’Ottocento, mentre è del 1914 la pubblicazione delle lettere a Theo, e risale al 1927 la prima importante edizione in inglese): certo, i riferimenti alla natura sono innumerevoli ed è impossibile darne puntuale riscontro nello spazio del presente articolo, ma è comunque possibile individuare alcuni brani salienti per offrire una panoramica non esaustiva, ma tuttavia più completa del modo in cui van Gogh immaginava la natura. Un passaggio chiave è contenuto nella lettera che Vincent inviò a Theo l’11 luglio 1883 dall’Aia: nella missiva, Vincent passa in rassegna i dipinti di alcuni artisti da lui particolarmente apprezzati, tra i quali spiccano, per esempio, l’Autunno di Jules Dupré (Nantes, 1811 - L’Isle-Adam, 1889), già allora in collezione Mesdag all’Aia, e la Foresta di Fontainebleau al mattino di Théodore Rousseau (Parigi, 1812 - Barbizon, 1867), una potente opera che raffigura uno scorcio di foresta dopo una pioggia autunnale, con la vista che si perde verso le paludi all’orizzonte, popolate in primo piano da alcune vacche che si abbeverano. “L’effetto drammatico di questi dipinti”, scriveva Vincent, “è qualcosa che ci aiuta a comprendere quell’‘angolo di natura visto attraverso un temperamento’ e che ci aiuta a capire che il principio dell’‘uomo aggiunto alla natura’ è necessario all’arte più di qualsiasi altra cosa”. In questo assunto riecheggiano le idee di Émile Zola (Parigi, 1840 - 1902), che nell’articolo M. H. Taine Artiste, dedicato alla figura del filosofo e teorico del naturalismo Hyppolite Taine, e pubblicato nella raccolta Mes haines (“I miei odi”, pubblicata nel 1866), scrisse che “une oeuvre d’art est un coin de la création vu à travers un tempérament” (“un’opera d’arte è un angolo della creazione visto attraverso un temperamento”).

Van Gogh ripeté questo concetto in altre due sue lettere. In una di queste, inviata sempre a Theo, il 9 aprile 1885 da Nuenen in Olanda, inseriva uno schizzo che riprendeva una delle sue opere più celebri, I mangiatori di patate dipinti in quello stesso anno in diverse versioni: si tratta di un crudo “quadro di contadini”, per usare l’espressione stessa dell’artista, che raffigura una famiglia di coltivatori stretta attorno a un tavolo per consumare una misera cena. La volontà di van Gogh era quella di restituire un ritratto fedele della durezza della vita contadina, una durezza tuttavia vissuta in modo fieramente dignitoso, una durezza verso la quale van Gogh dimostra di solidarizzare. Il critico d’arte tedesco Julius Meier-Graefe (Resicabánya, 1867 - Vevey, 1935), che come Fry fu tra i primi ad avvertire l’altissimo estro dell’artista olandese, scrisse che van Gogh era “un contadino tra i contadini, noncurante delle differenze sociali”. Per realizzare questo dipinto, così come gli altri ritratti di contadini eseguiti durante il soggiorno di due anni a Nuenen, borgo del Brabante, van Gogh si era fortemente immedesimato nei suoi soggetti: trascorreva lunghe giornate assieme ai contadini, osservando scrupolosamente le loro attività quotidiane, e i suoi interessi, come ha notato Meyer Schapiro, non erano dettati dal fatto che trovasse pittoresca la vita contadina, ma dal fatto che il pittore provasse una profonda affinità con i poveri, probabilmente perché in quella pesantezza si riconosceva, identificava una parte di sé.

Nella sua lettera a Theo, Vincent scrive d’esser convinto che ci sia vita nel suo dipinto. Era questo l’obiettivo cui tendeva, almeno in quel momento: infondere vita ai suoi soggetti. Van Gogh riteneva che i modelli che prendeva a riferimento, i grandi artisti del passato, fossero capaci di raggiungere un elevato grado di finitezza nelle loro opere, e al contempo di creare composizioni che fossero anche animate da una forte vitalità: van Gogh, che non era invece interessato a restituire una rappresentazione realistica della natura, era anche mosso dall’intento dichiarato di vivificare le opere con ciò che lui stesso provava, con ciò che vedeva interiormente. Era questo che intendeva per “vedere la natura attraverso il proprio temperamento”, un concetto ribadito a chiare lettere anche in relazione a I mangiatori di patate. Ma l’influenza di Zola qui non s’avverte solo nel modo in cui l’opera viene portata a vita: è il soggetto stesso a risentire della lettura dello scrittore francese. In un suo recente libro dedicato all’amicizia tra van Gogh e il pittore australiano John Peter Russell (Sydney, 1858 - 1930), la storica dell’arte Ann Galbally ha notato che i personaggi de I mangiatori di patate appartengono alla stessa fattispecie di quelli che popolano Germinale di Zola, il romanzo che ha per protagonisti i minatori che lottano contro le ingiustizie sociali. I personaggi di van Gogh, scrive Galbally, “sono lontani dalla visione borghese e romantica dell’armoniosa famiglia di contadini felicemente immersa in uno stile di vita antico”, col risultato che l’artista olandese finisce per portare sulla tela nient’altro che una “classe contadina proletarizzata”, e riesce a farlo senza rappresentare l’apparenza, ma affidando tutto il suo sentimento a un linguaggio nel quale a prevalere è la pura espressione.

Non è difficile scorgere in tali assunti anche le suggestioni che su van Gogh deve aver esercitato un altro importante romanzo di Zola, La joie de vivre, che dobbiamo immaginare tra le letture preferite dell’artista: un libro tanto importante da non essere soltanto menzionato nelle lettere, ma da comparire anche in due dipinti. Il più tardo, del settembre 1888, è quello che raffigura gli Oleandri: il libro di Zola appare posato sul tavolo, vicino al vaso di fiori, ed è funzionale a offrire una sorta d’illustrazione simbolica degli oleandri, che per via del loro continuo germinare erano per van Gogh simbolo di nascita, rigenerazione e vitalità. La stessa vitalità cui Pauline, la protagonista di La joie de vivre, fa ricorso per non perdere la sua visione ottimistica della vita e per affrontare il crescente carico di sofferenze e rovesciamenti che avrebbe dovuto sopportare durante la sua travagliata esistenza. Il primo risale invece al 1885, è noto come Natura morta con Bibbia, fu realizzato nel tempo d’una sola giornata ed è considerato uno dei manifesti della poetica di van Gogh. Si tratta d’una delle opere più scarne della sua produzione, dacché non rappresenta altro che un tavolo su cui sono poggiate due candele e altrettanti libri: uno è la Bibbia, l’altro una copia de La joie de vivre. Qui, l’artista pone in scena uno scontro tra due visioni opposte del mondo: quella del padre Theodorus, scomparso proprio nel 1885 (e alla sua morte allude la candela spenta), pastore protestante, molto religioso e refrattario ai romanzieri moderni, e quella di Vincent, che viceversa rappresentava la nuova generazione che si formava sulla letteratura francese contemporanea (da una lettera inviata a Theo il 18 novembre 1881 possiamo farci un’idea dello scontro generazionale: “mamma e papà stanno invecchiando, a volte si arrabbiano un po’, hanno i loro pregiudizî e le loro idee antiquate che ormai né tu né io possiamo più condividere. Se, per esempio, papà mi vede con in mano un libro di Michelet o di Victor Hugo, lui subito parla di incendiarî, assassini, e ‘immoralità’. Ma tutto ciò è davvero troppo ridicolo, e ovviamente io non lascio che questo parlare a vanvera mi disturbi. L’ho già detto più volte a papà: leggilo uno di questi libri, anche solo un paio di pagine, e vedrai che ti smuoverà. Ma papà rifiuta ostinatamente di farlo”). Per completezza occorre comunque sottolineare che tra la Bibbia e La joie de vivre ci sono comunque punti di contatto, e che la natura morta di van Gogh non è soltanto un dipinto di contrasti. Si tratta però d’un incontro che è del tutto coerente con le idee dell’artista: la Bibbia è aperta sulle pagine del libro del profeta Isaia, e Isaia è il profeta della gioia, dell’esortazione e della speranza, è il profeta che annuncia la venuta di Cristo, e il suo libro è quasi tutto centrato sul tema della salvezza vista come festoso momento di riscatto. È dunque probabile che la condanna di van Gogh fosse contro un’interpretazione troppo rigida e opprimente della religione cristiana, oltre che troppo lontana dal suo vero e più profondo messaggio.

Jules Dupré, Autunno (1865 circa; olio su tela, 106,5 x 93,5 cm; L'Aia, De Mesdag Collectie)
Jules Dupré, Autunno (1865 circa; olio su tela, 106,5 x 93,5 cm; L’Aia, De Mesdag Collectie)


Théodore Rousseau, Foresta di Fontainebleau al mattino (1850; olio su tela, 142 x 197,5 cm; Parigi, Louvre)
Théodore Rousseau, Foresta di Fontainebleau al mattino (1850; olio su tela, 142 x 197,5 cm; Parigi, Louvre)


Vincent van Gogh, Schizzo per i mangiatori di patate, dalla lettera 492 a Theo van Gogh, Nuenen, 9 aprile 1885 (1885; manoscritto su carta; Amsterdam, Van Gogh Museum)
Vincent van Gogh, Schizzo per I mangiatori di patate, dalla lettera 492 a Theo van Gogh, Nuenen, 9 aprile 1885 (1885; manoscritto su carta; Amsterdam, Van Gogh Museum)


Vincent van Gogh, I mangiatori di patate (aprile-maggio 1885; olio su tela montato su tavola, 73,9 x 95,2 cm; Otterlo, Kröller-Müller Museum)
Vincent van Gogh, I mangiatori di patate (aprile-maggio 1885; olio su tela montato su tavola, 73,9 x 95,2 cm; Otterlo, Kröller-Müller Museum)


Vincent van Gogh, Oleandri (1888; olio su tela, 60,3 x 73,7 cm; New York, The Metropolitan Museum of Art)
Vincent van Gogh, Oleandri (1888; olio su tela, 60,3 x 73,7 cm; New York, The Metropolitan Museum of Art)


Vincent van Gogh, Natura morta con Bibbia (ottobre 1885; olio su tela, 65,7 x 78,5 cm; Amsterdam, Van Gogh Museum)
Vincent van Gogh, Natura morta con Bibbia (ottobre 1885; olio su tela, 65,7 x 78,5 cm; Amsterdam, Van Gogh Museum)

Il rapporto tra van Gogh e la natura non è stato soltanto studiato sotto profili eminentemente letterarî. Nel catalogo della mostra Van Gogh. L’uomo e la terra, tenutasi a Milano, a Palazzo Reale, dal 18 ottobre 2014 all’8 marzo 2015, la studiosa Jenny Reynaerts ha operato un interessante tentativo di trovare i presupposti filosofici della visione della natura secondo van Gogh. In particolare, Reynaerts individuava in van Gogh una sorta di erede di quella particolare sensibilità nei confronti della natura che fu inaugurata nel Settecento da Jean-Jacques Rousseau (Ginevra, 1712 - Ermenonville, 1778): nelle sue Rêveries d’un promeneur solitaire del 1777 (“Le fantasticherie di un passeggiatore solitario”, l’ultimo scritto di Rousseau, nel quale l’autore affidava a dieci capitoli corrispondenti ad altrettante passeggiate le sue riflessioni sull’uomo, sulla natura, sullo spirito, sulla vita), il filosofo svizzero, scrive Reynaerts, “disapprova l’uso della natura esclusivamente a scopi scientifici o medicinali”, esprime una condanna nei confronti della natura sfruttata per scopi utilitaristici e, di converso, anticipa il tema dell’empatia tra l’uomo e il mondo naturale che di lì a poco sarebbe stato fatto proprio dal romanticismo. “Più sensibile è l’anima di chi contempla”, scriveva Rousseau nelle Rêveries, “più questi si abbandona all’estasi suscitata in lui da tale armonia [della natura]. Una fantasticheria dolce e profonda s’impadronisce allora dei suoi sensi, ed egli si smarrisce, in uno stato di deliziosa ebbrezza, nell’immensità di questo bell’ordine, con cui si immedesima. Tutti i singoli oggetti gli sfuggono, ed egli non vede e non sente che il tutto”.

In Francia, a raccogliere per primi questa visione sarebbero stati i pittori della scuola di Barbizon, che van Gogh amava profondamente: tra di loro figurava anche quel Théodore Rousseau di cui s’è parlato sopra, e nelle sue frequenti espressioni d’ammirazione per le opere di Théodore Rousseau si potrebbe cogliere l’eco del sentimento pre-romantico di Jean-Jacques Rousseau: “come fa star bene osservare un bel dipinto di Théodore Rousseau che è stato eseguito con fatica per essere fedele e decoroso”, scriveva Vincent in una lettera a Theo inviata dall’Aia tra il 4 e il 9 dicembre 1882. “Come fa star bene pensare ad artisti come van Goyen, Old Crome e Michel. Come sono belli un Isaac Ostade o un van Ruysdael. [...] Quanto spirito e quanto amore c’è in loro, e con quanta libertà e gioia sono stati fatti. Ma l’ideale non è assolutamente copiare la natura, ma conoscere la natura in modo che ciò che uno fa risulti fresco e autentico: è questo ciò che a molti manca. [...] Tu dirai che tutti hanno sicuramente visto paesaggi e figure fin da bambini. Domanda: ma tutti avevano questi pensieri da bambini? Domanda: tutti coloro che hanno visto brughiere, prati, campi e boschi, li hanno anche amati, hanno amato la neve, la pioggia, la tempesta? Non tutti lo hanno fatto nel modo in cui lo abbiamo fatto io e te: e per riuscirci ci vogliono una particolare predisposizione e particolari circostanze, oltre a un certo tipo di temperamento e un certo carattere per far sì che questo amore metta radici”. Quando van Gogh affidava queste parole alla sua penna, la sua brevissima carriera artistica (che durò appena un decennio) era da poco cominciata: com’è noto, Vincent risolse di dedicarsi completamente all’arte nel 1880, e solo dalla fine del 1881 aveva iniziato le sue ricerche con la pittura a olio. All’epoca, il pittore risiedeva all’Aia, e per ispirarsi si recava nelle campagne e nei boschi attorno alla città, dove avrebbe trovato soggetti utili per i suoi dipinti. Proprio da una di queste passeggiate sarebbe nato uno dei suoi primi capolavori interessanti, la Ragazza nel bosco, dipinta nell’agosto del 1882, quando i boschi attorno alla capitale olandese avevano già assunto colori autunnali, come van Gogh stesso riferì in una lettera quel mese: un’evenienza che gli garantiva la possibilità d’affrontare un tema della pittura olandese che aveva poco approfondito, quello dei boschi in autunno. La vitalità di van Gogh si concentra tutta nel tentativo di far percepire “il profumo del bosco” e di far sembrare al riguardante di camminare dentro al bosco, com’ebbe a scrivere lui stesso: si trattò, tuttavia, d’una sfida che lo appassionò molto. Intanto, perché il bosco autunnale gli consentiva di misurarsi con le difficoltà tecniche della pittura a olio: la resa degli effetti di luce e ombra, l’impostazione della prospettiva, e ovviamente la traduzione del dato percepito in forme e colori. Van Gogh stesso ammise che la principale difficoltà che aveva incontrato nel realizzare la Ragazza nel bosco era la resa dello spazio tra i grandi tronchi degli alberi, tutti posti a distanza e profondità diverse. E soprattutto, il tema dell’autunno gli permetteva d’esprimere la sua visione sentimentale della natura. Un sentimentalismo che, in questo dipinto, s’ammanta anche di significati simbolici: mentre la natura s’avvia verso il declino, la ragazza in mezzo al bosco, con la sua figura leggiadra, il suo vestito bianco (simbolo d’innocenza e di purezza) e il suo incedere raffinato, aggiunge un intenso tocco di vita al paesaggio.

Il genere del “sottobosco” (sous-bois in francese) era tra i preferiti degli artisti della Scuola di Barbizon ed è interessante anche per seguire i mutamenti dell’arte di van Gogh. Anche se la sua carriera durò appena dieci anni, i cambiamenti che la sua pittura conobbe furono profondi: il van Gogh del 1882 era ancora profondamente attratto dai pittori di Barbizon, tanto che nel luglio di quell’anno si recò a visitare una mostra che esponeva loro opere all’Accademia di Belle Arti dell’Aia, e nelle lettere non mancò di comunicare a Theo il suo entusiasmo. La situazione cambiava radicalmente nel 1887, durante il soggiorno parigino (nel corso del quale van Gogh non si fece mancare le sue consuete passeggiate per campi e boschi: il fatto d’abitare in una grande capitale non fu certo un disincentivo): il Sottobosco dipinto nel luglio del 1887 risente chiaramente dell’interesse per le ricerche dei pointilliste che il pittore olandese aveva conosciuto a Parigi. E avvertiamo un ulteriore scatto se confrontiamo la Ragazza nel bosco con un dipinto simile per tema e per impostazione, il Sottobosco con due figure, una delle realizzazioni più tarde di van Gogh, risalente a 1890: i problemi dell’opera di otto anni prima non sono più attuali. Qui, i tronchi viola dei pioppi, che si stagliano verticali come lunghe colonne, le cromie acide e innaturali utilizzate per la vegetazione, le silhouette allungate delle figure, tutto risponde all’intendimento che van Gogh illustrava in una lettera al fratello datata 18 agosto 1888: “invece di rendere esattamente ciò che ho davanti ai miei occhi, uso il colore in una maniera più arbitraria in modo da esprimere con forza me stesso”. È la trasposizione dello stato d’animo dell’artista all’epoca della realizzazione del dipinto, una ventina di giorni prima di morire: l’artista era angosciato e nervoso, e temeva per la propria salute. Qualcosa di simile era accaduto anche durante il ricovero dell’artista all’istituto psichiatrico di Saint-Paul de Masole: i dipinti di sous-bois lì prodotti, come i Tronchi d’albero con edera oggi al Kröller-Müller Museum di Otterlo, sono realizzati con una visuale fortemente ravvicinata, quasi claustrofobica, evidentemente segno della dolorosa angustia che l’artista provava in quel tempo.

Vincent van Gogh, Ragazza nel bosco (agosto 1882; olio su tela montato su tavola, 59 x 39 cm; Otterlo, Kröller-Müller Museum)
Vincent van Gogh, Ragazza nel bosco (agosto 1882; olio su tela montato su tavola, 59 x 39 cm; Otterlo, Kröller-Müller Museum)


Vincent van Gogh, Sottobosco (luglio 1887; olio su tela, 46 x 38 cm; Amsterdam, Van Gogh Museum)
Vincent van Gogh, Sottobosco (luglio 1887; olio su tela, 46 x 38 cm; Amsterdam, Van Gogh Museum)


Vincent van Gogh, Sottobosco con due figure (giugno 1890; olio su tela, 50 x 100,5 cm; Cincinnati, Cincinnati Art Museum)
Vincent van Gogh, Sottobosco con due figure (giugno 1890; olio su tela, 50 x 100,5 cm; Cincinnati, Cincinnati Art Museum)


Vincent van Gogh, Tronchi con edera (estate 1889; olio su tela, 45 x 60 cm; Otterlo, Kröller-Müller Museum)
Vincent van Gogh, Tronchi con edera (estate 1889; olio su tela, 45 x 60 cm; Otterlo, Kröller-Müller Museum)

Ciò che rimase immutato nel corso degli anni fu il solido legame con l’ambiente. Come lasciò intendere nella lettera scritta tra il 4 e il 9 dicembre del 1882, van Gogh aveva un temperamento che lo portava a nutrire uno sconfinato amore per la natura. Era nato e cresciuto a Zundert, oggi una cittadina di ventimila abitanti ma, all’epoca, poco più che un villaggio rurale immerso nelle campagne del Brabante Settentrionale: i paesaggi della sua terra natia lo affascinarono fin da ragazzino, i suoi genitori Theodorus ed Anna lo portavano con loro e con i suoi fratelli a fare lunghe passeggiate nei campi (un’abitudine, quella di camminare in mezzo alla natura, che Vincent avrebbe mantenuto per tutta la vita: non c’è studio, romanzo o film che non citi la sua grande passione per le passeggiate, alimentata anche da una formidabile resistenza alla fatica che poteva portarlo a camminare per ore e ore), e il giovane artista non smetteva d’indugiare anche sui dettagli apparentemente più insignificanti di ciò che vedeva. La sua passione per la natura nasceva dunque da un’inclinazione personale e dalla favorevole contingenza d’esser cresciuto in un ambiente in grado d’assecondare i suoi interessi. Ma, come s’è detto, sarebbe oltremodo riduttivo escludere l’influenza che su van Gogh esercitarono le sue letture.

Nella libreria di van Gogh figuravano, oltre alla già citata La joie de vivre di Zola, volumi come L’oiseau (“L’uccello”) di Jules Michelet, un saggio dedicato al mondo dei pennuti affrontato però non col piglio dell’ornitologo bensì con quello dello scrittore, e ancora il Voyage autour de mon jardin (“Viaggio nel mio giardino”) di Alphonse Karr, un romanzo scritto sotto forma di lettere inviate a un amico in viaggio (l’autore intendeva farsi beffe dell’amico scrivendogli che avrebbe trovato nel suo giardino cose più interessanti di quelle che lui avrebbe incontrato in giro per il mondo), e si trattò d’un libro che van Gogh amò al punto da pensare d’inviare una lettera d’ammirazione a Karr, che però non fu mai spedita. Tra le opere letterarie che poterono aver influenzato il rapporto del pittore con la natura è poi possibile annoverare un altro romanzo di Zola, La terre (“La terra”), drammatica e violenta vicenda di una famiglia di contadini. Probabilmente van Gogh non lesse mai le opere di Jean-Jacques Rousseau (non ci sono evidenze in grado di provarlo), ma è interessante notare come fosse alquanto interessato a un autore che, nei riguardi della natura, aveva una posizione simile a quella di Rousseau: lo scozzese Thomas Carlyle (Ecclefechan, 1795 - Londra, 1881), del quale van Gogh lesse libri come Sartor Resartus o On heroes. Nel suo saggio The Dutch roots of Vincent van Gogh, lo storico dell’arte George S. Keyes ha notato come la concezione della natura di Carlyle abbia toccato una corda nell’animo di van Gogh: “per Carlyle”, ha scritto Keyes, “la natura è una dualità: un regno esterno dell’apparenza contro un mondo sottostante della verità che riflette l’operato della divinità. Ogni aspetto tangibile della natura ha la capacità di trasmettere una verità più profonda a coloro che sono in grado di percepirla. E coloro che erano in grado di vedere le verità più profonde della natura (e gli artisti sono potenzialmente dotati di questa capacità) erano gli eroi di Carlyle”.

Per concludere, tornando al contributo di Jenny Reynaerts, occorre sottolineare come, secondo la conservatrice del Rijksmuseum di Amsterdam, l’interesse per Carlyle potrebbe aiutarci a collocare van Gogh nel dibattito sulle teorie di Darwin: un dibattito al quale il pittore non prese parte (né nelle sue lettere viene mai fatta menzione a Darwin), ma dal momento che L’evoluzione della specie fu pubblicata nel 1871, e dal momento che si trattò di un libro discusso con veemenza e in continuazione non solo tra gli scienziati, ma anche negli ambienti religiosi del tempo (e van Gogh, com’è noto, intraprese studî teologici), per Reynaerts è difficile pensare che a van Gogh la discussione fosse sfuggita. Van Gogh, la cui famiglia apparteneva ai settori della Chiesa riformata olandese, pur non essendosi mai espresso sulla questione, dovette probabilmente seguire la linea di Carlyle che, scrive Reynaerts, “era un antidarwinista convinto, che vedeva nelle nuove teorie scientifiche un ulteriore segno del crescente utilitarismo della sua epoca”. L’artista, nelle poche volte in cui affrontò l’argomento della scienza nel suo epistolario, mostrò una posizione simile a quella dei protestanti olandesi, fiduciosa nei confronti del progresso tecnologico ma tesa a conciliare le conquiste scientifiche con la fede, pur tenendo ben distinte le due sfere. Il darwinismo, conclude Reynaerts, “era antitetico alla percezione che van Gogh aveva della vita, alla sua fede e alla sua idea della natura. In un’introspettiva lettera del 1880, egli si definisce un uomo di passioni, e la passione creativa, che è incontrollabile e imprevedibile, non aveva ancora trovato posto nella scienza naturale del suo tempo”.

Bibliografia di riferimento

  • Sjraar van Heugten (a cura di), Van Gogh and the seasons, Princeton University Press, 2018
  • Kathleen Adler (a cura di), Van Gogh. L’uomo e la terra, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, dal 18 ottobre 2014 all’8 marzo 2015), 24 Ore Cultura, 2014
  • Ella Hendricks, Louis van Tilborgh (a cura di), Vincent van Gogh. Paintings, Volume 2, Lund Humphries Pub Ltd, 2011
  • Ann Galbally, A Remarkable Friendship: Vincent Van Gogh and John Peter Russell, Melbourne University Publishing, 2008
  • Andreas Bluhm, Van Gogh tra antico e moderno, Giunti, 2003
  • George S. Keyes (a cura di), Van Gogh face to face: the portraits, catalogo della mostra (Detroit, Detroit Institute of Arts, dal 12 marzo al 4 giugno 2000), Thames & Hudson, 2000
  • Louis van Tilborgh, The potato eaters by Vincent van Gogh. De aardappeleters van Vincent van Gogh, catalogo della mostra (Amsterdam, Van Gogh Museum, dall’11 giugno al 29 agosto 1993), Rijksmuseum Vincent van Gogh, 1993
  • Charles S. Moffett, Impressionist and Post-impressionist Paintings in the Metropolitan Museum of Art, Harry N. Abrams Inc, 1998
  • John Leighton, Anthony Reeve, Ashok Roy, Raymond White, Vincent Van Gogh’s “A Cornfield, with Cypresses” in National Gallery Techical Bulletin, 11 (1987), pp. 42-59

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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo





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