di
Federico Giannini, Ilaria Baratta
, scritto il 13/10/2017
Categorie: Opere e artisti - Quaderni di viaggio / Argomenti: Genova - Ottocento - Arte antica
Villa Durazzo-Pallavicini a Genova accoglie un meraviglioso parco, che il committente ideò perché i visitatori potessero compiere al suo interno un viaggio iniziatico.
C’è un cancello pesante davanti a noi. Se lo si varca, possiamo immaginare che non sia più possibile tornare indietro. Due colonne affiancano l’ingresso, e sopra di esse due statue che raffigurano due feroci cani a fare da guardia vogliono quasi ammonire il visitatore che si addentra in questo parco, dove avrà luogo un viaggio iniziatico:un viaggio che ci porterà in giro per il mondo, ci farà ripercorrere la storia antica, ci farà scendere agli inferi e ci eleverà fino alle vette della conoscenza e della beatitudine.
Siamo a Genova, nel quartiere di Pegli, edesattamente nel parco di Villa Durazzo-Pallavicini. La villa è una sobria costruzione neoclassica, risultato del rimaneggiamento di un precedente palazzo settecentesco, appartenuto a Giovanni Battista Grimaldi, doge della Repubblica di Genova tra il 1752 e il 1754: oggi l’edificio è sede del Museo di Archeologia Ligure. Ma ciò che da secoli muove a meraviglia chiunque si trovi a passare per questo luogo non è tanto la villa, quanto il grande parco che si apre dietro l’antica residenza dei Durazzo e dei Pallavicini. La sua storia inizia col giardino botanico aperto, nel 1794, dalla marchesa Clelia Durazzo (Genova, 1760 - Pegli, 1837), sposa di un membro della famiglia Grimaldi, Giuseppe, e studiosa di botanica: la nobildonna era solita compiere frequenti viaggi all’estero, dai quali ogni volta tornava con specie vegetali, alcune anche molto rare, al fine d’arricchire il giardino della villa di Pegli. E forse fu proprio questa passione per la botanica uno dei motivi che spinsero un suo nipote, il marchese Ignazio Alessandro Pallavicini (Milano, 1800 - Genova, 1871), ad affiancare all’Horto Grimaldiano curato dalla zia, ampiamente risistemato per l’occasione (e tuttora esistente), un grande parco romantico che non ha eguali in Italia e che rappresenta una punta d’eccellenza anche a livello europeo.
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La facciata principale di Villa Durazzo-Pallavicini. Ph. Credit |
Ignazio Pallavicini non intendeva solo arricchire la villa d’un parco nel quale poter spendere dei momenti piacevoli: desiderava che quest’ultimo riflettesse il suo modo di concepire il mondo, le sue riflessioni filosofiche, le sue esperienze culturali, le proprie conoscenze storiche e letterarie. E ambiva a condividere questo percorso tra suggestioni filosofiche, letterarie, mitologiche, botaniche ed esoteriche con chiunque l’avesse visitato, tanto che il progetto prevedeva anche la conduzione di visite guidate per gli ospiti. Nel 1840 si rivolse dunque a uno dei maggiori scenografi del tempo, l’architetto Michele Canzio (Genova, 1787 - Castelletto Monferrato, 1868), a cui affidò il progetto, portato a termine nel 1846. Erano cambiati i tempi: al rigore scientifico di Clelia Durazzo, si sostituivano le fantasie, le contemplazioni, i vagheggiamenti e l’immaginario fantastico di Ignazio Pallavicini.
Il marchese era un appassionato di teatro, e volle immaginare il suo parco come un grande e lungo dramma teatrale, che il visitatore avrebbe percorso dal prologo fino all’esodo, attraverso tre atti corrispondenti alle tre diverse "sezioni" del parco, ciascuno suddiviso in quattro scene. Il visitatore si trova quindi a percorrere un mondo costituito da giardini sontuosi, boschi intricati, ambienti esotici, templi pagani, echi di storia medievale, fontane, laghi e cascate, giochi d’acqua, il tutto in un parco che si sviluppa, per otto ettari, sul fianco d’una collina che guarda il mare: ogni passo verso la meta è una costante sorpresa nonché una conquista verso il passo successivo, perché il percorso nel parco è immaginato quasi come un avanzamento graduale verso la rinascita finale nel segno dell’amore, della fratellanza e della luce, intesa nel senso massonico di illuminazione, conoscenza di sé e del mondo, verità, distinzione. Infatti Ignazio Pallavicini apparteneva alla massoneria, e il parco si configura, spiegano gli studiosi Silvana Ghigino (che di Villa Durazzo-Pallavicini è attualmente direttrice) e Fabio Calvi, come un percorso fedele al motto massonico "Se avrai la forza di perseverare, uscirai purificato e vedrai la Luce", tanto da divenire "luogo che risponde in tutto e per tutto a questo agognato raggiungimento". Il visitatore è chiamato a una continua opera di perfezionamento, che passerà attraverso l’abbandono della materialità, la morte, la purificazione dell’anima e arriverà al conseguimento della luce. Ma gli intenti che animarono il bizzarro committente, forse, si spingevano oltre: l’adesione alla massoneria, spiega la studiosa Francesca Mazzino, era anche un legame che rinsaldava gruppi di potere, che all’epoca "si attribuivano il compito di avviare la società verso il progresso e la modernità". Il percorso del viaggio era dunque inteso anche come un viaggio di formazione.
Questo viaggio, qualunque sia l’intento e chiunque sia il viaggiatore che ne prende parte, ha inizio, come si diceva in apertura, dal cancello del parco, guardato a vista dai due cani, scolpiti da Giovanni Battista Cevasco (Genova, 1817 - 1891) e sistemati lì sopra nel 1845: sono loro che fanno la guardia e ci infondono quel senso d’inquietudine che aumenta al nostro passaggio attraverso il viale Gotico, una stradina inizialmente fiancheggiata da un edificio medievale (la tribuna gotica), che si dipana poi attraverso una buia boscaglia e che costituisce il prologo del dramma teatrale che ci accingiamo a vivere da assoluti protagonisti. Quello che il viale Gotico intende trasmetterci è il senso di smarrimento che contraddistingue le nostre vite, simile a quello provato da Dante Alighieri nella selva oscura che apre la sua Commedia, e che crea degli sconvolgimenti al nostro spirito. Ben presto, tuttavia, lo scenario cambia completamente. S’intravede un edificio neoclassico: è la Coffee House, attraversando la quale passiamo dalla cupezza del viale Gotico alla piena luce solare e all’armonia del viale Classico. Siamo in un meraviglioso vialetto da giardino all’italiana: ai lati, vasi con piante in fila, ordinati. Al centro una fontana. A chiudere il vialetto, unarco di trionfo. Tiriamo un sospiro di sollievo, perché dal bosco siamo tornati alla civiltà. Ma è solo qui, nel vialetto cittadino, che comprendiamo a cosa fosse dovuto il nostro senso di smarrimento iniziale: siamo, in fondo, uomini e donne di città, costantemente vessati dalle nostre preoccupazioni quotidiane, dalle nostre vuote ambizioni, dall’aridità della nostra cupidigia materiale che contamina il nostro spirito e ci allontana dalla luce. Sull’arco di trionfo una scritta rappresenta allo stesso tempo un monito e un invito: Valete urbani labores / Valete procul animi impedimenta / Me supera convexa et sylvae et fonteis / Et quid quid est altiora loquentis naturae / Evehat ad Deum ("Addio, preoccupazioni della città! State lontani, affanni dell’anima! Il cielo, i boschi, le fonti e tutto ciò che di sublime esiste nella natura mi elevano a Dio"). Si conclude così il prologo del dramma (e del nostro viaggio): siamo dunque invitati a lasciarci alle spalle la città e a calarci nella natura incontaminata per cominciare a recuperare il nostro spirito.
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Prologo: il cancello con i cani da guardia e l’inizio del viale Gotico. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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La tribuna gotica. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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La fine del viale Gotico. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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La coffee house. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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Prologo: il viale Classico. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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L’arco di trionfo. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
Subito dopo l’arco di trionfo, una breve scalinata ci conduce in un boschetto. Dall’alto della salita, facciamo per voltarci: vogliamo sincerarci di aver veramente lasciato la città e i suoi monumenti. Ma abbiamo una prima sorpresa: l’arco di trionfo è completamente sparito. La scenografia di Canzio infatti l’ha tramutato in una casetta di montagna, fatta di sasso, col tetto d’ardesia. È l’inizio del primo atto del dramma: il ritorno alla natura. Che ha inizio proprio da qui, dalla scena del romitaggio. La casa che abbiamo appena visto è quella dell’eremita che ha abbandonato la vita mondana e ha deciso di vivere nel bosco. Iniziare questo viaggio in una natura misteriosa, certo, richiede un atto di coraggio, simile a quello compiuto dall’eremita che intende mostrarci l’inizio del nostro cammino. Ma è un atto di coraggio che ci premia, perché proseguendo il nostro percorso nella foresta ci troviamo in unanatura bellissima e rigogliosa che ci fa compiere un primogiro del mondo: le piante che troviamo in questa zona del parco vengono infatti da tutti gli angoli della terra. Si trovano le piante della macchia mediterranea che evocano ricordi legati alle nostre terre, le palme esotiche che ci fanno sognare paesaggi tropicali, l’araucaria che ci porta nell’America del Sud, le meravigliosecamelie che aprono scenari sull’estremo Oriente: qui, nel parco di Villa Durazzo-Pallavicini esiste una delle più antiche raccolte esistenti di camelie. Gli esemplari secolari ottocenteschi ancora fioriscono, e vederli in primavera è una sorta di incanto che ci ammalia durante il nostro viaggio, ma se siamo fortunati possiamo incontrare qualche fiore particolarmente robusto anche nei restanti mesi dell’anno. Il passaggio alla seconda scena ci conduce nel parco dei divertimenti.
Ci attendono delle giostre su cui ci possiamo rilassare, in un luogo dove trascorrere momenti di spensieratezza. L’aver ristabilito un contatto sincero con la natura ci permette di tornare a vivere emozioni e sentimenti puri, come quelle di un bambino che si diverte sulle giostre (nel Parco possiamo trovare le originali giostre ottocentesche, uno sbalorditivo spettacolo per l’epoca). Ma il nostro viaggio nella natura è ancora lontano dal completarsi. Cominciamo a salire su per la collina, e arriviamo a una specie di spiazzo, sulle rive d’un lago: è il Lago Vecchio, la terza scena del primo atto, e sostiamo per un attimo davanti alle sue acque torbide, nelle quali nuotano pesci e su cui fanno ombra gli alberi della fitta vegetazione. È la totale immersione nella natura: non ci sono più neppure poveri edifici di eremiti, non ci sono vialetti sistemati dalla mano dell’uomo. Qui, è tutto spontaneo, e percepiamo tutta la forza, l’energia e la bellezza della natura. L’acqua è torbida perché per arrivare alla completa "castità mentale e morale" occorre seguire l’azione salvifica dell’acqua stessa e giungere alla quarta e ultima scena del terzo atto, la sorgente, che con la sua azione rigeneratrice ci rende totalmente pronti per allontanarci dalla materia.
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Atto I (il ritorno alla natura), Scena I: il romitaggio. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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Il vialetto con le palme. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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Una camelia in pieno autunno. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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Atto I, Scena II: il parco dei divertimenti. Una delle giostre. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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Atto I, Scena III: il Lago Vecchio. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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Atto I, Scena IV: la sorgente. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
Recuperata in tutto la nostra dimensione naturale, è arrivato il momento diriflettere sul passato con sguardo rinnovato. Ci incamminiamo verso la sommità della collina, e cominciamo a godere anche del panorama sul mare, immaginando quanto sorprendente dovesse essere all’epoca del marchese Pallavicini, quando la vista non incontrava le palazzine di Pegli, l’aeroporto, le industrie dell’area portuale: solo un borgo ai nostri piedi, la spiaggia, l’acqua marina. A un certo punto, davanti a noi, ecco le rovine della cappelletta di Maria: è la prima scena dell’atto secondo, il recupero della storia. L’edicola gotica, che ospita un’immagine della Vergine dipinta da Giuseppe Isola (Genova, 1808 - 1893) ci fa intendere che stiamo per entrare in un feudo medievale, in un antico borgo: non ne rimane però altro che una semplice capanna, la cosiddettacapanna svizzera (la seconda scena, attualmente in restauro). Iniziamo a porci delle domande sulla sorte di questo borgo perduto, adesso avvolto solo dal silenzio. Le idee diventano chiare quando raggiungiamo la sommità del colle: ci troviamo di fronte al Castello del Capitano, la terza scena del secondo atto. Da protagonisti del percorso iniziatico diventiamo per alcuni momenti spettatori di un racconto, il cui esito ci indurrà a meditare sul destino delle nostre esistenze.
Scopriamo infatti che il borgo oggi non più esistente era governato da un valoroso Capitano, che abitava nel castello ora diroccato (il marchese volle farlo costruire da Canzio secondo il tipico immaginario ottocentesco del castello medievale: con un’alta torre, le merlature, le vetrate colorate, il ponte levatoio). Percorrendo gli ambienti del castello (la terza scena), percepiamo quanto il Capitano avesse cercato di ottenere gloria in vita e di circondarsi di agi e piaceri, ma anche con quanta forza avesse cercato di difendere il suo castello e il suo borgo contro i feudi rivali: salendo, nella collina di fronte a noi, abbiamo infatti visto in lontananza un altro castello (che altro non è che una casa colonica opportunamente camuffata da Canzio: il marchese volle che gli interventi riguardassero anche il paesaggio circostante), a simboleggiare le lotte intraprese dal Capitano contro i suoi nemici. Ma arrivò la fine anche per lui: la morte che incontriamo nella quarta e ultima scena del secondo atto, il mausoleo del Capitano, pose termine alle ambizioni di gloria e di ricchezza del condottiero e gettò nell’oblio il suo borgo, che il tempo ha cancellato dalla terra. Osservando l’arca gotica del Capitano comprendiamo la vanità della ricerca delle cose terrene, e capiamo quale sia, continuando a leggere nel libro di Calvi e Ghigino, "la sorte destinata all’umanità del dominio, che costruisce, assoggetta, conquista, si circonda di ricchezza e vana gloria per poi sprofondare nella morte più buia e impersonale". Il nostro spirito ha compreso e recuperato la storia: da spettatori delle umane vicende possiamo tornare a essere attori del percorso e cominciare la nostra catarsi: è il terzo atto del dramma.
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Verso il secondo atto, il panorama sulla costa. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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Atto II (il recupero della storia), Scena I: la cappelletta di Maria (da una stampa ottocentesca) |
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Atto II, Scena II: il Castello del Capitano. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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Atto I, Scena II: il parco dei divertimenti. Una delle giostre. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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Il castello nemico in lontananza sulla collina. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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Atto II, Scena IV: il mausoleo del Capitano. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
Cominciamo dalla prima scena, una discesa agli inferi: il percorso originale ideato dal marchese Pallavicini prevedeva che un apposito Caronte traghettasse il visitatore all’interno delle grotte del parco, sopra una barchetta. Le grotte adesso sono in restauro, ma possiamo immaginare quanto sarà suggestivo, quando saranno riaperte, avventurarsi tra questi antri che ricordano l’inferno dantesco: all’iniziando, il poter vedere in prima persona il peccato e le sue conseguenze offre un’ultima occasione di pentimento e successiva redenzione. Quest’ultima s’incontra al termine del percorso entro le grotte: l’anima è finalmente purificata e si giunge alla seconda scena, il Lago Grande, ovvero il paradiso dove sono giunte le anime dei beati di tutto il mondo, nonché l’ambiente più noto di tutto il parco. A sottolineare l’universalità di tale armonico consesso, vediamo architetture tipiche d’ogni parte del mondo: il ponte romano, l’obelisco egizio, il chiosco turco, la pagoda. Al centro, il tempio di Diana (la sua statua spicca al centro dell’edificio) attorniato da figure di divinità marine (tutte le sculture sono opere di Cevasco), simbolo di libertà e di fratellanza, ma anche della continuità del presente nei confronti del passato e dell’ormai ritrovato rapporto tra l’uomo e la natura.
Uno scenario da idillio, che prosegue con i Giardini di Flora, la terza scena: ci troviamo, d’improvviso, in un rigoglioso viridario al centro del quale una ninfa, anch’essa scolpita da Cevasco, spande i suoi fiori. Ci accorgiamo d’aver sognato, e ci siamo risvegliati in un paradiso terrestre al quale la nostra anima è infine giunta. Così rinnovati, accediamo all’ultima scena, la rimembranza: in questa porzione del parco troviamo il monumento al poeta ligure Gabriello Chiabrera (Savona, 1552 - 1638) e quello a Michele Canzio, che con la loro opera sono divenuti immortali, e il cui esempio ci esorta a riflettere sul fatto che l’eternità si realizza con una vita all’insegna del bene. Una serie di giochi d’acqua costituisce l’esodo del dramma teatrale e ci accompagna verso l’uscita.
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Atto III (la catarsi), Scena I: le grotte/inferno dantesco. Ph. Villa Durazzo-Pallavicini. |
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Atto III, Scena II: il Lago Grande. Al centro il Tempio di Diana. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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L’obelisco egizio. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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La pagoda |
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Le sponde del Lago Grande e, sullo sfondo, il chiosco turco. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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Atto III, Scena III: i Giardini di Flora. Ph. Credit Villa Durazzo-Pallavicini. |
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La ninfa. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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Atto III, Scena IV: la rimembranza. Il monumento a Michele Canzio. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
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Esodo: giochi d’acqua. Il coccodrillo e l’aquila. Ph. Credit Finestre sull’Arte. |
Lo splendido complesso di Villa Durazzo-Pallavicini, dal 1928, al Comune di Genova: Matilde Giustiniani, discendente di Ignazio Pallavicini, la donò alla comunità con la condizione che il parco fosse aperto al pubblico. Da allora, a fasi alterne, il parco di Villa Durazzo-Pallavicini ha sempre rispettato tale volontà, pur con qualche interruzione, per esempio quando si dovette costruire l’autostrada (che passa proprio sotto il parco e i cui lavori comportarono anche dei danni al complesso) oppure, di recente, tra il 2014 e il 2016, quando il parco è stato interessato da importanti lavori di restauro. E ancora oggi, addentrarsi tra la ricca vegetazione, tra gli splendidi fiori che troviamo sul percorso, tra gli edifici e le costruzioni che scandiscono le varie fasi dell’iniziazione a cui partecipiamo, è un’esperienza unica e rigeneratrice per l’anima e per la mente. Un’esperienza che vi ricorderete certamente per tutta la vita.
Bibliografia di riferimento
- Francesca Mazzino, Michele Canzio, voce in Vincenzo Cazzato (a cura di), Atlante del giardino italiano, 1750-1940: dizionario biografico di architetti, giardinieri, botanici, committenti, letterati e altri protagonisti, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2009
- Silvana Ghigino, Fabio Calvi, Villa Pallavicini a Pegli: l’opera romantica Di Michele Canzio, SAGEP, 1998
- Cristina Bonagura (a cura di), Parchi e giardini storici: conoscenza, tutela e valorizzazione, De Luca, 1991
- Annalisa Maniglio Calcagno, Giardini, parchi e paesaggio nella Genova dell’800 , SAGEP, 1984
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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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